lunedì 6 gennaio 2014

Il principio di realtà nella Sicilia degli ossimori

Le due realtà di Sergio Capuzzimati
Qualche settimana prima di morire, al giornalista che vuole intervistarlo sull’importanza della letteratura, Sebastiano Addamo risponde con una ritrattazione inaudita: «Io me ne fotto della letteratura».  
Il confrère di Sciascia, secondo il quale «nulla sa l’uomo se la letteratura non gliel’apprende», di fronte alla realtà più ineluttabile, cioè la morte, restituisce dunque la letteratura al suo primo rango, l’insignificanza. Che è poi quello nel quale la tiene Eschilo, il più grande dei tragediografi greci: morendo a Gela detta infatti un epitaffio che lo ricordi come soldato di Maratona anziché poeta di Atene. E come Addamo, che trova vano il bene più caro quando scopre che la vita gli è ancora più cara, anche il devoto autista di Bufalino non vede nella letteratura un valore da mettere comunque in salvo: richiesto se avesse voluto morire al posto dello scrittore, ribatte incredulo e risentito: «Ma lei è pazzo!». 

Allora è chiaro: la vita prevale sempre sulla letteratura, cioè sulla forma, e il bisogno materiale vale più di ogni gioia immateriale. Come Achille vuole tornare a vivere, sia pure ignoto contadino, rinunciando alla gloria imperitura di eroe morto, anche le figlie del principe di Salina lasciano cadere dietro la poltrona il romanzo edificante appena la vita compare loro in figura di Tancredi e Cavriaghi. Sicché Pirandello è servito e omaggiato: la vita si cristallizza nella forma e la persona diventa personaggio, è vero, ma alla fine è sempre la vita a rivalersi. Cioè la realtà presente: quella che oggi nel gusto occidentale va esiliando il postmoderno per reintegrare la modernità. 

Nel processo di ritorno alla realtà e nella fine del postmoderno, una parte non secondaria l’ha avuta anche la Sicilia letteraria. Né poteva essere diversamente se è stata la Sicilia a scaldare in Italia il positivismo, il demopsicologismo, il regionalismo, il verismo e con Pirandello il primonovocentismo fino al realismo di denuncia di Brancati e Vittorini (i due autori che nel ’41 introducono l’antifascismo nella narrativa) e al neorazionalismo di Sciascia: tensioni queste avvertite tutte nella sfera del reale che non in quella dell’ideale, se persino il padre dello psicologismo, ovvero Pirandello, trova di dover difendere il suo Fu Mattia Pascal dall’accusa di inverosimiglianza aggiungendo in una successiva edizione una nota per riportare il caso di un vero morto-vivo. 

Può sembrare paradossale, ma a conti fatti, nella terra degli ossimori (dove la cifra della Sicilia conta più che i risultati: il bagnasciuga di Bonaviri, l’opposizione nord-sud di Consolo, la febbre e il febbricitante di Brancati, l’ideale del rovescio di Lampedusa, il sentimento del contrario di Pirandello, la contrapposizione roba-interesse di Verga, “lo sgorbio” di Camilleri e all’inizio i contrari di Empedocle), tra il principio di realtà di Sciascia e la legge dell’ineffabilità di Bufalino è il primo che oggi si afferma: così rivoltando una tendenza che nei decenni a cavallo dei due ultimi secoli premiava piuttosto la cosmogonia cordiale dove malattia, morte, amore, memoria, sogno, temi decisamente bufaliniani, sembravano essersi radicati a scarto di quelli più sciasciani (e pasoliniani in un altro ambito) quali mafia, intrecci politici, poteri forti e deviati, maliscenza della società italiana. 
Si era davvero creduto che la lunga e iussiva stagione del postmoderno (e quindi della prevalenza della visione se non del visibilio sulla vista, dell’astratto sulla concretezza, del cuore sulla ragione, in una parola di quel lungo decadentismo declinato in scala italiana che è stato interpretato massimamente dal magistero di Bufalino) non potesse subire minacce da una vena testimoniale di tipo éngagé, alla Sciascia insomma, destinata a essere anzichenò storicizzata, ancor di più dopo il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, perché troppo legata al suo tempo. Un errore di prospettiva e di valutazione, perché è stata proprio questa misura a colmare alla distanza l’altra. 
E mentre Bufalino recede in un limbo sempre più riconducibile al gusto flaccido e lacrimoso del primo romanticismo, svenevole ed estenuato, le ragioni di una modernità logica, speculativa, illuministica, in presa reale con il presente, rifulgono oggi in una nuova cotta di civiltà e impegno. Dove l’invalenza sempre più determinata della docu-fiction, l’incremento di libri testimoniali di giudici e politici, in Sicilia più che altrove, la proliferazione delle inchieste giornalistiche sulla mafia, documentano un’inversione che ha iscritto un’ipoteca sulla letteratura pura ingiungendole una riconversione a tutta intenzione. 
Di qui il primato, per restare in Sicilia, di Camilleri che, rimanendo fedele al romanzo come mezzo privilegiato di espressione laddove il saggio riconquista sempre più posizioni evocative degli anni Settanta, e pur tentato più volte di superare i confini del reale, non si è avventurato molto nei territori della fiaba, dell’immaginario, del gioco a sospendere la credulità del lettore, preferendo una solida ed evidente aderenza al dato positivo e storico.
Se le cose stanno così, la rivoluzione cui stiamo assistendo, di proporzioni epocali, riapre in Sicilia quel laboratorio di sperimentazione che già in passato abbiamo visto attivo in fase di verifica e rodaggio di nuove tendenze letterarie e mode di stagione. Uno dei suoi compiti è di studiare gli effetti di un transito al reale che avviene giustappunto negli anni in cui, con la scomparsa di Bufalino prima e di Bonaviri dopo, il postmoderno siciliano ha perso gli ultimi campioni per cui il ritorno alla realtà si compie anche a ragione della loro assenza. Ma è in generale il rivolgimento culturale del nostro tempo ad aver determinato pure in Sicilia le condizioni del cambiamento. 
Diciamola allora così: la regione più escapista d’Italia, dei contastorie e dei cunti, dove pure si è esercitata la ragione più lucida e loica, di Sciascia e di Consolo, di D’Arrigo e di Cattafi, di Lampedusa e Piccolo, e quindi la regione anche più impegnata, teatro di contrasti e officina di ricerca, sta vivendo una stagione di mutazione letteraria. Ma se ricordiamo quante epifanie, dal verismo al dialetto borghese di Camilleri, sono nate in Sicilia, possiamo supporre che ancora una volta il fatto nuovo, anche solo un ulteriore contributo, possa venire proprio da qui quanto alle modalità che la modernità in via di consolidamento vorrà assumere.