sabato 24 maggio 2014

Il grande Gatsby è in mezzo a noi



Rispetto alle altre tre trasposizioni cinematografiche che ne sono state fatte, Il grande Gatsby di Lurhmann, uscito l'anno scorso, è senz'altro il più fedele al libro di Scott Fitzgerald del 1925.
Ma per un aspetto ne è invece un tradimento cocente, laddove il racconto di Nick Carraway, la cui voce resta fuori campo, non è rappresentato, com'è nel romanzo, dal diario scritto in prima persona dal narratore, ma da un testo dattiloscritto che un ipotetico psicanalista gli assegna a scopo terapeutico invitandolo a riportare alla memoria fatti e personaggi della sua vita.
Il Nick Carraway del film è un paziente che, dovendo uscire da uno stato di depressione e di alcolismo, è sollecitato a scrivere, cosa che accetta appassionandosi, anche perché si ritiene uno scrittore, stendendo così una storia, che è la sua ma che in realtà è quella di Fitzgerald. Il quale per il regista Baz Luhrmann è infatti proprio Nick: l'autore implicito di secondo grado che è creatura dell'autore di primo grado che è Fitzgerald. In sostanza il registra australiano fa del narratore finzionale un trasfert del vero autore, il quale a questo modo diventa intradiegetico: racconterebbe una storia sua. Sarebbe dunque lui a conoscere Jay Gatsby e ad essere testimone diretto della sua esaltazione e della sua rovina.
Ma perché Luhrmann ricorre a questo rivolgimento e non si attiene al dettato del romanzo? Che ragioni ha per rifiutare che una voce narrante si identifichi con quella di un personaggio che è parte della storia? E perché deve ricorrere alla figura di uno psicologo che abbia in cura addirittura l'autore principale? 
Quel che fa Luhramm è quanto evita Fitzgerald, che da autore americano figlio di una temperie che si rifà al modello imperante jamesiano, dove un autore implicito si addice al racconto omodiegetico e autobiografico, è proprio di Henry James che vuole rifare il passo e l'eco, sicché si affida alla forma del diario che sia scritto, al termine di una serie di avvenimenti, da parte di chi sia ovviamente rimasto in vita e - ecco James - non sia il protagonista ma un comprimario. Ma con una novità: che il suo contributo non sia quello del semplice testimone laterale, di chi sospenda il giudizio, come scrive all'inizio Fitzgerald, bensì di un compartecipe che abbia da raccontare di altri non meno di quanto abbia da dire di se stesso. Lontana da lui l'idea di portare il narratore sul lettino dello psicanalista e indurlo a liberarsi in un monologo interiore che sia anche confessione e confidenza, quindi rivelazione. A Fitzgerald importa mantenersi aderente a un principio di assoluta realtà e rifare il verso a James. 
Eppure sono passati solo due anni da quando in Italia Italo Svevo ha pubblicato La coscienza di Zeno, il romanzo sull'inettitudine dove un inadattato qual è Zeno Cosini si affida a uno psicologo il quale come cura gli impone proprio di scrivere, anzi di mettere per iscritto quanto gli sovviene, ricorda o pensa di riconsiderare circa la sua vita. "Scriva, scriva - gli dice. - Vedrà come si ritroverà nudo". Ed è solo di un anno prima, del 1922, Ulysses, il romanzo di James Joyce che segna l'esaltazione del monologo interiore nel flusso di coscienza e dando un senso europeo al tipo di voce narrante che soddisfa il bisogno terapeutico di scrivere per narrare quando oltreoceano si precisa invece nel dovere di narrare per scrivere.
Luhrmann questo fa: recupera Svevo, risveglia la figura primonovecentesca e tutta europea dell'inetto e racconta la derelizione di Jay Gatsby sul fondo di una malattia che dal narratore si trasmette a tutti gli altri contagiando la società intera. Una malattia che sarebbe di nervi se non fosse anche di cuore, perché Gatsby si perde e muore a causa di un amore non corrisposto o non compreso. Ma mentre, lasciando che sia un diario privato a rivelarne i segreti, Fitzgerald finisce per compenetrare uomini e società del suo tempo in un unico male, Luhrmann salva il contesto con il chiamare in causa la psicanalisi e imputa ogni effetto personale alla malattia individuale e tutte insieme le malattie alla sfera del grande morbo della solitudine, così strappando dalla contingenza realistica degli anni Venti una condizione che diventa universale e quindi attuale, la solitudine essendo ancora oggi il male oscuro del momento. 
Jay Gatsby, l'uomo misteriosamente ricco e potente, spregiudicato ed egoista, in debito con un passato burrascoso che gli presenta ogni giorno una rata da pagare, è anche il più innamorato dei mortali, pronto a morire per la donna che ama e a commettere ogni sproposito e ogni eccesso. Il Gatsby di Luhrmann raccontato da un uomo malato qual è Nick Garrawy è un altro rispetto a quello di Fitzgerald, simbolo di una nazione febbricitante e di un tempo di alte pressioni: più umano e dolente, molto più solo e perciò molto più vicino.