mercoledì 13 agosto 2014

Alicudi, dove osano le capre





C’era un gallo che aveva confuso il giorno con la notte e anziché all’alba s’era incaponito a cantare quando l’isola aveva appena preso sonno. In un posto dove si sente soltanto l’aliscafo che arriva, quel gallo impenitente e impertinente creò un rumore insopportabile. Fu per questo che qualcuno, nottetempo, gli tirò il collo e riportò il silenzio.
O quasi: perché belati, ragli, miagolii, muggiti e pigolii continuano ancora a sinfonare come in un teatro all’aperto. Alicudi è in effetti un’isola popolata dagli animali. Gli arcudari sono meno di cento, mentre le sole capre e pecore cinque volte tanto. Poi ci sono una ventina di vacche e altrettanti tra muli e asini, che si contendono la soma e i servizi di trasporto. E poi ci sono i gatti e i cani. Tra arcurdari e animali è una guerra continua, per cui gli isolani non hanno regole e se devono uccidere un animale lo fanno con la facilità con cui risalgono mulattiere. Trattano male anche i bambini in una comunità dove l’educazione è impartita da sempre a manrovesci; ma non maltrattano i serpenti, perché sono le anime dei compaesani in Purgatorio.
Sono tante e occupano la zona di ponente dove gli arcudari non sono mai arrivati perché è inaccessibile: l’area dei canaloni lavici che finiscono a mare, fluorescenti sotto i barbagli della luna e abbacinanti nelle spore del sole, misura quasi la metà dei cinque chilometri quadri di tutta la superficie, che è abitabile dunque nella sola parte orientale. Ma bisogna ancora sottrarre la vetta della montagna, dove un tempo i contadini convergevano all’alba e coltivavano orzo e capperi fino al tramonto, quando il sole oscura la parte abitata e accende Ponente di rosso porpora. Poi i contadini se ne sono andati a decine in Australia e hanno lasciato la terra alle capre, che l’hanno devastata spogliandola pure delle eriche, incuranti del fatto che sia riserva naturale. Ogni tanto qualcuna precipita come fanno i sassi che si staccano dalle Montagnole e finisce a Praja oppure allo Scario. Ma se non perdono l’equilibrio nessuno va più a importunarle nemmeno per il latte. I sentieri sono stati chiusi col filo spinato per impedire loro di discendere l’erta e continuare le devastazioni. E così è finita che capre e arcurdari si sono divisi pacificamente l’isola. Ma le capre si moltiplicano come conigli mentre gli arcudari si riducono come aborigeni. Fu a causa di una capra che si ebbe un omicidio d’onore. 
Silverio era un giovane povero e bighellone, di quei ragazzotti che trovavano intrigante, quando non c’erano né luce né aliscafi, appartarsi con le pecore e le galline per mitigare la propria esuberanza. Un ricco emigrato, tornato a casa e rimasto vedovo, lo prese come domestico e come compagno di alcova al posto della moglie defunta. Morendo lo nominò erede universale e lo fece miliardario. Per prima cosa Silverio prese la nave, andò a Messina e tornò nell’isola con due prostitute accendendo le sigarette con biglietti da mille. In pochi anni sperperò tutto il patrimonio e tornò povero com’era stato. In più alcolizzato. Convisse con una ostetrica che morì incinta: chi dice per colmo di un aborto, chi sussurra perché lui la massacrò di legnate in una sera di lievito di birra. Poi si intrippò per la capra di uno dei Taranto, quello che dicevano tocco della sifilide. Il quale lo aspettò con un fucile al passo e gli sparò in testa mandandolo nel mondo dove la pena maggiore per un arcudaro è di non trovarci capre. Lui prese invece il mare per sbarcare a Barcellona Pozzo di Gotto e raccontare agli altri pazzi come si era lavato l’onore. Quando uscì, per poco non mandò la sorella del morto a fargli compagnia, perché colpevole di passare le giornate canzonandolo. L’aspettò su un’altura e, appena lei gli comparve dal tornante di una mulattiera, le scaraventò un macigno in testa dividendogliela in due. La donna fu salvata da due chirurghi attendati in vacanza alla Caserta che le ricucirono il cranio con quello che trovarono. Oggi lei è sposa e madre felice, il fratello raccoglie e vende capperi ai turisti, mentre le capre basculano guardinghe e pascolano raminghe. 
Anche i vermi vivono oggigiorno felici e indisturbati. C’è stato un tempo in cui gli arcudari li cercavano come pepite d’oro e campavano di “scocche”, le pale di ficodindia ognuna delle quali doveva contenere 21 vermi che l’incettatore proveniente da Messina contava uno per uno allo Scario col paese intero messo attorno a vociare e le mani in aria piene di vermi. Tutte le famiglie si affacciavano alla finestra e se vedevano bassa marea si mettevano in fila a rivangare fino a sera tremolina, che era destinata ai pescatori della Sicilia. 
Pur circondati dal mare, gli arcudari sono sempre stati contadini perché per pescare occorre una barca e dunque legno, chiodi e carpenteria: tutta roba impossibile da trovare nell’isola soprattutto all’epoca in cui da Lipari veniva Filippo Abbondanza, il sindacalista che gli arcudari chiamavano “signor sindacato” e non col suo nome per non ridere della loro miseria. Abbondanza voleva che gli isolani, testa più dura della sua ossidiana, “prendessero coscienza” e li riunì perciò tutti allo Scario. “Chi è povero si alzi” disse. E tutti si alzarono. Li contò come loro contavano la tremolina e quando, al ritorno sulla nave, fece il calcolo i poveri gli risultarono più degli abitanti, deducendo così prove che gli arcudari avevano preso coscienza pressoché subito e davanti a lui. 
In tempi molto più recenti a riunire tutti gli arcurdari è stato un famoso scrittore, Ermanno Rea, arrivato d’inverno e rimasto tre mesi per scrivere un libro. Gli arcudari andavano a trovarlo nell’emporio di Ettore Baratta e gli raccontavano le loro storie, compresi i peccati propri e altrui, fossero stati pure quelli dei parenti. Rea scoprì che in una lite tra arcudari bisogna fare la scena perché si rappacificano con la disinvoltura con cui si rammusoniscono. Scoprì che l’isola non ha memoria né passato perché la tradizione è solo orale. Scoprì che la verità è un accomodamento di opinioni e che non c’è posto dove sia più facile cambiare idea e vita. Scrisse Fuochi fiammanti a un’hora di notte, vinse il Campiello ma ad Alicudi non è più tornato anche perché il suo libro non piacque che a pochi. Invece di scrivere le cose com’erano Rea le rigirò e ne fece una favola. In realtà Alicudi non si può raccontare se non come fosse una fiaba. Per questo gli arcurdari se ne vanno in Australia: per uscire dalla favola e entrare nella realtà. 
Un regista dilettante ha girato un cortometraggio senza parole raccontando per sole immagini la partenza di una ragazza priva di biglietto di ritorno. Si chiamava Ercole Spaccini e per molti anni era stato sindaco di Trieste. Amava Alicudi e veniva per viverci come un trappista: mangiava solo ciò che pescava e dormiva sotto una zanzariera. Ora è morto, ma ha lasciato il suo film: si vede la ragazza che saluta tutti, casa per casa, si ferma su uno spuntone a guardare per l’ultima volta il mare e poi va allo Scario, dove tutto il paese si raccoglie per darle l’addio sventolando fazzoletti bianchi. Anche quando muore qualcuno, il paese si raccoglie al pontile e si impila in processione fino al camposanto, che è a 500 gradini, in una terrazza sull’arcipelago tanto cara a Frenchi. 
Frenchi è morto centenario e per quindici estati è tornato sempre ad Alicudi. A novembre andava in Australia e ritrovava il sole caldo. Poi tornava qui. Ma poi non si vide più. Però non era morto, ne erano tutti certi: perché diceva di volere chiudere gli occhi allo Scario mentre beveva birra e giocava a carte, così da finire nella terrazza sull’arcipelago senza dovere attraversare l’oceano in una cassa. E così è stato. 
La sera Frenchi, con la sua pila elettrica, utile qui quanto potrebbe esserlo altrove il telefonino e tenuta da tutti in tasca come un portafogli, tornava a casa da buon arcudaro, cioè inerpicandosi senza tirare il fiato. E di notte, dalla sua tipica casa eoliana (la terrazza lunga quanto sono le stanze nessuna delle quali comunicanti e tutte unite da un corridoio), guardava il cielo dove le stelle d’agosto cadono a centinaia come i “Fili” della sua isola, le creste create dal vulcano in un altro tempo. Ed è a un altro tempo che Frenchi ripensava: quando gli arcudari erano quasi ottocento e i terreni lassù, a Filo i l’Arpa, erano tutti coltivati e le mulattiere pullulavano di asini e contadini che sul sagrato della chiesa di San Bartolo, dove finiscono tutti i sentieri che si biforcano, dimoravano come in piazza. E in rada era ancorato l’Eolo, il bastimento bombardato nel porto di Messina, rimesso a galla e ammarato per trasportare contadini da Messina ad Alicudi: si salpava a mezzanotte e si arrivava l’indomani pomeriggio godendosi una nave di inizio Novecento che vantava rifiniture d’ottone, piatti d’argento e tappezzerie di damasco, guardata dagli arcudari con gli stessi occhi che gettavano sulle donne e le donnine di Lipari e di Messina. Tanto che non volevano scendere dall’Eolo se non per ultimi, quando il rollo che veniva a trasbordarli sotto bordo non fosse rimasto vuoto. 
Il caporollo era Nino Taranto, una leggenda, perché è stato il primo pescatore di Alicudi: il più grande di tutti, ammirato nell’intero Basso Tirreno. Con la sua barchetta cacciava anche il pescespada e solo alla fine si è provvisto di un motopesca sfidando le marinerie da Napoli a Mazara. I pescespada, dicono, li sentiva a naso. Andava in mezzo al mare grande e li tirava sulla sua barca di sei metri. Il figlio Andrea non ha lavorato al rollo, perché le navi hanno oggi il loro pontile, e dunque ha fatto l’ormeggiatore. Il primogenito, sulle orme dell’inimitabile padre, caccia il pescespada con moderni motopesca e vive tra Panarea e Milazzo. Anche un altro dei Taranto, Silvio, fa il pescatore d’altura ma i suoi tre figli hanno lasciato il mare: uno ha preso un bar a Praja, un altro se n’è andato a Palermo e il terzo governa un mulo con cui fa il trasportatore salendo e riscendendo la montagna. 
Nino Taranto, il caporollo che era anche un raìs, è morto di cancro, la malattia più diffusa dell’isola. Chissà perché. C’è chi dà la colpa all’alimentazione. Gli arcudari erano abituati a mangiare solo ciò che producevano, senonché da quando hanno avuto l’elettricità (arrivata però soltanto nelle case) e i collegamenti sono diventati quotidiani mangiano qualsiasi cosa arrivi dalla terraferma. C’è anche chi dice che la natura vulcanica dell’isola ha qualche incidenza e incolpa i “rifriscaturi”, soffioni naturali di aria gelida che spurgano dal mare, ottimi come rifrigeratori tanto che non pochi hanno alzato attorno quattro muri e un tetto creando delle celle frigorifere. E c’è chi sostiene che è una questione genetica, perché anche in Australia ci sono stati arcudari andati a morire di tumore. Fatto è che nessuna autorità sanitaria è venuta mai ad Alicudi a vedere perché si muore di cancro, che colpisce tanto stomaco che polmoni. 
Questa è dichiarata “zona disagiatissima” per cui il medico condotto guadagna il massimo, chi dice fino a seimila euro, gli insegnanti hanno punteggio doppio e i medici della Guardia medica hanno il beneficio di accorpare i turni ed evitare la spola. Non hanno granché da fare. Basta tenere attiva una segreteria telefonica e il fine settimana si può tornare a casa. Del resto, il medico condotto storico, Calogerino Valenti, non ha mai in quasi 50 anni fatto una iniezione. Per la verità, non era lui il medico condotto titolare. Quello vero se n’era rimasto a casa e gli passava lo stipendio. Finché lo Stato non li aveva sgamati. Dopo mezzo secolo. Valenti, ormai anziano e senza tutti i sensi, non trovò dove continuare a vivere se non nell’isola dove abusivamente aveva trascorso pressoché tutta la vita ma poi tornò nella sua Fitalia a guardare Alicudi da lontano. 
Sei mesi l’anno ci vive anche Emanuele Conti, docente di Diritto costituzionale a Messina e da tempo in pensione. Conti ha comprato casa a Bazzina, dove ci si arriva solo con la barca. Gli è costata due soldi perché gli arcudari dicono che è un posto infestato di spiriti. In realtà Bazzina è una insenatura dove l’eco fa le meraviglie. Quando si vuole divertire, Conti riunisce alcuni amici in casa per stare tutti zitti: dalla sala da pranzo godono a sentire gli ansiti di due innamorati che pure a duecento metri sembrano spasimare nella stanza da letto. Un giorno un amico accorse trafelato in paese, cioè allo Scario, raccontando che nella notte lui ed Emanuele erano stati pestati dai fantasmi e avevano bisogno di un po’ di cognac per rianimarsi. Glielo diedero gratis, facendo le viste di essere molto impressionati.
Del resto qui non si usa pagare alla compera, ma saldare a fine mese. Molti però preferiscono prendere l’aliscafo e fare la spesa a Lipari, visto che allo Scario una bottiglia di vino di 3.50 euro costa 5.70. E del vino pochi sanno fare a meno, anche se da qualche tempo la birra sta facendo strame di gole. Ettore prima aveva un negozio alla Tonna, a 400 gradini, mentre Carlo gestiva lo spaccio giù a Praja, dove aveva la sua botteguccia Angelina Taranto, un’arcudara che leggeva romanzi e ignorava i clienti fino ad avere la porta sempre sgombra. Quando era malata Angelina si portava le galline sul letto, metteva il gallo sulla spalliera, e per non alzarsi covava le uova tenendo in mano un romanzo d’amore. La chiamavano “la Trillina” perché aveva probabilmente una voce da gallina. A differenza di lei Carlo ed Ettore non leggono romanzi, ma scrivono libri, anzi quaderni: quelli nei quali aggiornano il credito dei clienti e senza saperlo annotano il diario della loro vita e di quella dell’isola.
Carlo ed Ettore fanno eccezione perché non si chiamano Taranto, la genia di profughi ebrei che di Alicudi ha fatto la storia. Qui i Taranto sono più numerosi dei Virgona e dei Russo, le tre stirpi a scorticare le quali si trovano tresche di incesti e matrimoni tra consanguinei. “Sull’Isola - ha scritto Ermanno Rea - il sesso arriva prestissimo e non ha nulla di misterioso. Poiché la regola è la promiscuità e non esiste letto che non sia attaccato a un altro letto, il corpo non ha segreti”. Non è stato per caso se l’80 per cento degli arcudari votò a favore del divorzio manifestando uno spirito che voleva essere progressista mentre tradiva l’intenzione di non cambiare il mondo. 
Non certo incestuosa è la storia di Paolina la postina, che molto tempo fa arrivò da Vicenza ad Alicudi col fidanzato e ci è rimasta per sempre perché lui se ne andò da solo, scoperto che ebbe tra cielo e mare di non amarla più. Lei vagò per giorni da sola da un capo all’altro dell’isola finché non incontrò Marinello Taranto, un ceramista che l’ha sposata rendendola un’arcudara felice. Non del tutto felice per la verità: perché col suo bypass Paolina non poté lavorare nell’ufficio postale trasferito dentro un container, per cui si mise in aspettativa. Milanese è invece Teresa, una delle insegnanti di elementari e medie, che per sette anni ha cresciuto bambini arcudari per farne probabili emigranti. Un giorno gli scolari hanno avuto per compito di completare la favola di un Gigante buono che esaudisce desideri. E il desiderio di tutti è stato di portare tanti bambini e bambine così da ripopolare Alicudi. Pare che il Gigante abbia delle difficoltà.

Da L'isola che trema (Avagliano)