mercoledì 17 settembre 2014

C'era una volta il Campiello

Il vincitore del Supercampiello Giorgio Fontana

Nemmeno i premi letterari sono più quelli di una volta. Il Campiello di quest'anno è andato a un romanzo, Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana, che non meritava nemmeno di essere pubblicato. Certamente di essere letto. E men che meno di partecipare al secondo premio italiano. La domanda è: ma chi sono i trecento lettori che stabiliscono il giudizio?
Confesso che non l'ho letto tutto, perché proprio non ce l'ho fatta, per cui non mi provo a esprimere un parere né azzardo una recensione. Lo farò il giorno, se mai verrà, in cui lo avrò completato. Ho detto basta dopo una ventina di pagine, perciò mi limito a riportare, in ordine di inciampo e di bile le zeppe di cui le pagine esorbitano, che sarebbero bastate esse sole a escluderlo invocando la mano di Dio perché fermi quella di certi mortali in taccia di creatori. Ma prima dell'elenco, un sospetto: che il romanzo raccolga due storie, quella di Giacomo e quella del padre, di stile diverso (e di carattere di stampa distinto), forse riunite a voler formare una endiadi che è invece un'antitesi. Due storie che corrono su binari diversi di cui una fa da freno e deviazione all'altra. Almeno fino a un certo punto. Quello cui sono arrivato io dopo essermi perso in un dedalo di interpunzioni dove le virgole non sono usate per indicare incidentali ma come pause e dove i due punti sono cosparsi in processione a designare non una specificazione ma una consecuzione.
La prima zeppa è dopo appena diciotto righe dall'inizio dove Colnaghi, il primo protagonista, ricorda di aver letto della vittima sul Corriere, "magari un articolo di fondo nelle pagine locali". Evidentemente Fontana non sa che un articolo di fondo è un editoriale o un corsivo, appunto un fondo, che va in prima pagina e che nelle pagine locali può aver letto solo un articolo di taglio basso. Che è un'altra cosa: quella che voleva significare probabilmente lui.
A pagina 17 leggiamo: "Quindi fece un lungo sospiro ed espose il suo nulla". Dopodiché parte una tirata che impegna due pagine e che fonda la filosofia (da seconda elementare) del Colnaghi in fatto di vendetta e natura umana. Altro che "nulla" come metafora nichilistica. Tant'è che "tutti lo stavano ascoltando con attenzione". Alcuni scoppiano addirittura a piangere e altri sembrano confusi e irritati. Senonché il Colnaghi non ha davvero detto niente che valesse almeno una lacrima. Se non di dolore per quanto il sostituto procuratore dice: "So che il mio compito finisce con una pena giusta per i colpevoli". Fole e fanfaluche, perché il sostituto procuratore, anche nel passato ordinamento processuale, è un magistrato e non un giudice, motivo per cui il suo compito finisce quando richiede una condanna e non quando emette una sentenza. Eppure Fontana è presentato nel risvolto di copertina come uno che "riflette sulla giustizia, le sue possibilità, i suoi limiti". Già, limiti è giusto. Limiti anche gravi. 
Come nel caso del procuratore capo che propone una scorta al Colnaghi (impegnatissimo in un'inchiesta sul terrorismo che lo tiene sempre al lavoro mentre lo vediamo serafico in giro tra bar, parenti, amici e chiese), quasi che l'assegnazione dipendesse da lui. E' tanto impegnato Colnaghi che sul tram anziché ai terroristi pensa alle barzellette sui magistrati. Bellissima questa, anche se vecchia di qualche secolo: "L'inquirente dice all'imputato: 'Abbiamo tre persone che testimoniano di avervi visto'. E l'imputato: 'E quindi? Posso portarvene centomila che testimoniano di non avermi visto'". Tanto vecchia che l'inquirente dà del voi all'inquisito. Un'altra della premiata ditta Fontana e del Colnaghi in tram? "Qual è il miglior nome per un magistrato? Massimo della Pena". 
Ora, un sostituto procuratore appena reduce da un discorso molto compreso, o tale nelle intenzioni dell'autore, fatto a un bambino disperato per l'uccisione del padre e che non dovrebbe avere testa appunto che al delitto, come può salire su un tram  e dirsi "pensane una carina" per ridere dopotutto di se stesso? Sempreché le barzellette che si racconta facciano ridere. 
Ma non ci sono solo le barzellette di questo tipo nel repertorio del Colnaghi di Saronno. Ci sono anche le massime. Questa è più bella di una barzelletta: "Quando sbaglia un cuoco la pasta viene uno schifo, quando sbagliamo noi magistrati vanno in prigione gli innocenti". Ma dov'è il raffronto? Tra cuochi e magistrati o tra schifo e innocenti? E che c'entra poi l'accostamento? Al posto del cuoco che sbaglia ci può stare a questo punto anche Balotelli che tira fuori. 
Che Colnaghi sia parente di Frassica? Il sospetto viene anche a leggere una frase che gli è piaciuta molto avendola trovata su una rivista evidentemente ispirata a Catalano, il cugino di Frassica: il segreto del successo di un campione di scacchi è nell'evitare di fare errori. Come se fosse possibile da qualche parte avere successo non facendo che commettere errori. Infatti Colnaghi dice che cerca sempre di non farne. Lui. Chi sbaglia è invece il suo creatore, Giorgio Fontana, che gli fare dire: "Io negli ultimi due anni ho rinviato a giudizio alcune persone dell'Autonomia poi risultate innocenti". Peggio mi sento. Il sostituto procuratore del cessato Codice di procedura penale poteva rinviare a giudizio soltanto in caso di istruttoria sommaria e in particolarissime circostanze di fatto. In materia di terrorismo le istruttorie sommarie venivano quasi sempre formalizzate per cui passavano nella competenza del giudice istruttore e uscivano dalla vita del sostituto procuratore. A parte il fatto che semmai non sarebbe stato lui a rinviare a giudizio qualcuno ma il suo capo.
Il "massimo della pena" si ha però quando leggiamo che Colnaghi coordina personalmente un pool formato da un altro sostituto procuratore e da un giudice istruttore: il primo ci può stare, ma il secondo, anzi la seconda, trattandosi di una donna, proprio no perché appartiene a un altro ufficio retto da un altro capo, il capo dell'Ufficio istruzione, demandato a compiti del tutto diversi e alternativi da quelli della Procura. "Era difficile farli lavorare insieme" scrive Fontana. Non era difficile. Era impossibile.
Sorvoliamo sul fatto che un magistrato che fumi come un pensionato la pipa vada in bagno e si faccia come un bambino la linguaccia allo specchio (perlomeno deve soffrire di disturbo bipolare) e rinunciamo a capire come di un luogo possa Fontana dire che a Colnaghi "la mitologia della zona gli era opposta" o come si possa camminare "nella luce sfatta per liberare le idee" o come ci si possa perdere "nelle gradazioni di grigio". Alla fine può trattarsi di licenze di chi voli rasente il vocabolario. Ma non possiamo non inchinarci davanti al pizzaiolo pugliese nato in America, "almeno stando alla vulgata": cioè secondo la tradizione scritta risalente almeno al Rinascimento o secondo forse la versione più comune della Bibbia. Che volesse invece dire "secondo la voce popolare"? Né possiamo restare indifferenti di fronte a due Pater Noster e due Ave Maria che sono "il minimo sindacale per il buon sonno" o ai giovani cattolici "in bilico tra grandi riforme e bei tempi andati", giovani più che altro in stato confusionale perché animati da ispirazioni socialiste e nello stesso tempo da opposti rimpianti reazionari.
A questo punto non sono riuscito ad andare più avanti nella lettura e non so quindi quante altre perle si possano trovare proseguendo. Molte, se solo queste sono nelle prime 35 pagine. 
A questo libro è andato, con largo margine di voti, il Premio Campiello 2014. Dio salvi l'Italia e la letteratura.