domenica 26 aprile 2015

E arrivò il giorno del "bel romanzo" di Adamo



Quando quattro anni fa Mario Luzzatto Fegiz scriveva che trovava incredibile come un cantante così dotato come Salvatore Adamo potesse essere siciliano non esprimeva solo un vieto pregiudizio ma liquidava spicciamente una questione che bene avrebbe dovuto invece interessarlo dal momento che definiva il cantante di Comiso un raffinato “affabulatore”.  
Essendo già dal 2001 uscito in Belgio il romanzo intitolato “Il ricordo della felicità è ancora felicità” (oggi arrivato in Italia col titolo, scelto dallo stesso autore, La notte… l’attesa, pp. 286, euro 17,50, Fazi) non avrebbe certo durato fatica il critico musicale triestino a ricondurne la prima prova narrativa, opera di un autentico affabulatore, a una temperie, quella comisana, che di incredibile non ha l’anagrafe siciliana ma la concomitanza di altri scrittori, Gesualdo Bufalino innanzitutto, Salvatore Fiume e poi Nunzio Di Giacomo, accomunati dal gusto insistito per storie d’amore tormentate, fuori canone e un po’ cerebrali: come se l’appartenenza alla genealogia comisana fosse il viatico per una cifra letteraria di sapore circolare, elusiva, povera di azione ma ricca di bello stile, nonché il lievito per un tema, l’amore, così frequentato da potersi declinare - in una canzone, una tela o un testo - nei modi più inattesi, epperò quasi sempre in combinazione con la morte: a mutuare per tal modo una mediazione eros-thanatos che non può non essere vista a presidio di quella ricerca di matrice comisana, tutta da fare, entro la quale la morte è l’elemento dominante e ricorsivo. 

Non è perciò per caso che Adamo pensi a una disperata storia d’amore i cui protagonisti sono un assistente becchino e una ragazza malata che, nel delirio della sua mente svampita, vorrebbe liberarsi di se stessa al termine di un viaggio nella notte all’inizio del quale è una donna sans merci figlia di una società continentale troppo moderna e guasta perché il ragazzo siciliano emigrato possa fare valere - luce contro lutto o sole contro bruma - il retaggio di una Sicilia immota e remota, mito dell’infanzia e crisma di innocenza. “Perduto amore” avrebbe intonato il cantante di un tempo riferendosi a una Sicilia che sul suo orizzonte culturale appare ancora oggi come un ideale di bellezza: al punto da non riuscire a parlare il dialetto imparato dai genitori e rimasto quello di sessant’anni fa se non con siciliani entrati con lui in un rapporto intimità. «Con uno sconosciuto» dice in un italiano rotondo e arrotato come nelle sue canzoni «non riuscirei mai a farlo, forse per pudore».

Ce n’è una nel suo repertorio classico che nel 1967 cantava così: «Un giorno amore scriveremo un bel romanzo». Quel romanzo non è però La notte… l’attesa perché non viene esaltata la vita ma celebrata la morte nella sua soffocante incombenza, quasi una ineluttabilità di cui lo stesso titolo, richiamando uno dei brani più famosi del cantautore, è metafora di un’esistenza buia e di un’attesa distopica e ansiogena. Il romanzo di Adamo sorregge una trama labile dipanandosi per digressioni sparse e disaggregate una parte delle quali ha carattere autobiografico riconducendosi alla Sicilia dell’infanzia, vittorinianamente mitica, alla morte per annegamento del padre, all’omicidio commesso dal nonno, all’aria di fiaba che aleggia su una terra “tramata di strade sulle quali cavalieri misteriosi corrono verso grotte sospese tra cielo e terra”. 
È questa la sicilianità di Adamo, quasi musicale, quali sono del resto il prezioso linguaggio solfeggiato di Bufalino e lo stile fortemente cromatico di Fiume, tutti come sospesi tra cielo e terra, a metà di onirismo e disincanto, antirealismo e autocoscienza. 
Adamo non fa comunque mistero del suo debito verso Bufalino. «La mia è una sicilianità» dice «che ho scoperto leggendo il libro di Bufalino Essere e riessere nel quale mi sono ritrovato e riconosciuto moltissimo. È evidente che abbia ereditato qualcosa da lui». Questo “qualcosa” è il senso di rigenerazione che da oltre cinquant’anni fa delle canzoni di Adamo un lungo dialogo appunto con l’essere e il riessere. Che sono poi la consistenza del presente nella forma di una lunga notte e il vagheggiamento di un continuo ritorno nei modi di una logorante attesa.
Romanzo profondista, un po’ gnomico, tuttavia venato di un umorismo schietto e risospinto fino alla barzelletta sapida, capace di divertire e inquietare, La notte… l’attesa conferma la capacità decisamente affabulatoria di Adamo, del tutto letterariamente attrezzato per creare suggestioni ed evocare stati di memoria: proprio perché siciliano che non nonostante tale, come pretende Luzzatto Fegiz. Siciliano di Comiso per la precisione, enclave culturale dove la realtà è sempre stata in rotta di collisione con l’invenzione letteraria.
"È un romanzo di fantasia il mio" dice, "che racconta una storia raccolta pezzo dopo pezzo e che volevo scrivere già da molto tempo. Nel ’67 non ci pensavo affatto: allora cantavo l’ideale della vita che può diventare romanzo. Ci ho messo tanto tempo perché temevo di non farcela nella misura di trecento pagine essendo abituato a scrivere canzoni massimo di quattro minuti. 
Nel romanzo lei colloca la morte di suo padre, avvenuta per annegamento a Punta Braccetto nel Ragusano, nel ’57 all’età quindi di quattordici anni ma poi scrive che avvenne nel 1970. 
Nella mia storia non ho la mia età. E’ vero che la parte siciliana è autobiografica ma nel libro ho spostato i tempi per adeguarli a quelli del protagonista, Giuliano Croce.
Si disse che suo padre morì in circostanze rimaste oscure, ma lei rivela che fu una beffa del destino perché morì per una congestione, subito dopo aver mangiato anguria, nel tentativo di salvare due bambini che fingevano di stare per annegare.
Morì di idrocuzione infatti, il 7 agosto 1966, e non in circostanze oscure, perché avvenne davanti a tutta la famiglia e in pieno giorno. Mancavo solo io essendo rimasto in Belgio.
Dopo la morte di suo padre lei non è più voluto tornare per molto tempo in Sicilia. Non solo: ha anche chiuso il famoso night “La Notte” che furoreggiava a Marina di Ragusa. 
Era mio padre a condurre il locale. Morto lui, lo diedi in gestione a una famiglia che fece il possibile per tenerlo in vita, ma senza riuscirci, forse perché era troppo lussuoso per quei tempi. Si veniva come in un museo e non si consumava. Finché, dopo un’altra gestione sfortunata, decisi di venderlo e per quindici anni non sono più tornato in Sicilia anche per colpa di amici di mio padre che negarono di avere ricevuto da lui soldi in prestito. Ho rivisto la Sicilia solo nell’81 perché una regista belga aveva organizzato un concorso il cui primo premio consisteva in un viaggio in Sicilia con me. Così guidai una trentina di turisti a Taormina e sull’Etna, approfittando anche di rivedere la sorella di mia madre e altri parenti. Fu in quella occasione che mi resi conto di essere stato sciocco ad avercela contro la Sicilia quando avrei dovuto serbare rancore solo con gli pseudo amici di mio padre che non erano stati degni di lui. Nuovi amici mi fecero quindi conoscere un aspetto della Sicilia che mi ha sedotto. Scoprii per esempio che la mia Comiso era una città di cultura. E così da allora sono tornato quasi ogni anno, con un piacere sempre maggiore. Lo scorso maggio ho anche trascorso una settimana vicino Noto portando con me la famiglia e la nipotina di un anno.
Si sente ancora un rital, come sono chiamati in Belgio in senso dispregiativo gli immigrati italiani? Nel romanzo Julien dice: “Voglio onorare la mia Sicilia. Sì, sono siciliano”.
Per me è un punto d’onore non perdere la cittadinanza italiana. E mi sento siciliano al punto che lo parlo benissimo, anche se è quello di sessant’anni fa, ma solo con amici intimi. Con uno sconosciuto non oserei mai farlo, forse per una specie di pudore.