lunedì 22 giugno 2015

Ma i siciliani discendono davvero dai Mori?

"Bagheria", foto di Ferdinando Scianna

Nel suo ultimo libro, Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio), Enrico Deaglio riporta il parere di un senatore della Louisiana espresso nel 1890: “Nel Nord Italia sono davvero celti, come i francesi e gli irlandesi, e infatti discendono dai lombardi. I siciliani e i calabresi invece sono un misto di discendenti di vecchi pirati, i Mori, e di razze latine degenerate, andate alla deriva dopo la caduta dell’Impero romano”.
Deaglio riferisce che i giornali americani del tempo spiegavano come i siciliani fossero esempi di una razza “che non era proprio bianca, ma di un colore inferiore; per essere più scientifici, il loro colore era il risultato di una commistione secolare con gli africani, qualcosa che era cominciato ai tempi di Annibale”.
Oltre un secolo dopo, in un film del 1993 scritto da Quentin Tarantino, Una vita al massimo (“True romance”), troviamo due banditi siciliani che a Detroit parlano tra loro in dialetto. La presenza di entrambi, del tutto pleonastica, diventa chiara al momento in cui un ex poliziotto parla a don Vincenzo, l’avvocato siciliano del boss, al quale, per disprezzarlo nella sua anagrafe, dice che i siciliani sono uguali ai neri perché discendono dai Mori i quali hanno diffuso a profusione i loro geni durante la loro dominazione. In sostanza il regista Tony Scott, per giustificare e preparare una tirata sui siciliani dagoes (come erano e sono tuttora chiamati spregiativamente negli Usa del Sud non solo i siciliani ma anche gli spagnoli e i portoghesi), recluta due gangster siciliani che facciano ambiente e trasforma un evidente avvocato americano in un improbabile boss siciliano. Una vera mistificazione.
Sia il senatore della Louisiana che l’ex poliziotto di Scott si pronunciano in un tempo in cui l’accezione di Mori è stata estesa a indicare i musulmani in genere, distinti per il colore più scuro della pelle. Storicamente però Mori furono detti in Occidente i musulmani berberi del Nordafrica appartenenti alla Mauritania che comprendeva l’intero Magreb e che certamente non erano neri di carnagione. Né è documentato che gli invasori arabi dell’Andalusia e della Sicilia unirono i loro geni con quelli delle popolazioni locali, anzi è certo che badarono attentamente a non confondere il loro sangue con i cristiani, che furono per questo sottoposti in Sicilia a un severo regime di separazione detto “Dimma”. 
Nell’immaginario statunitense, radicato già dall’Ottocento, prevale tuttavia la concezione dei siciliani quali esseri inferiori non diversi dai neri, cosa che può allora spiegare le stragi di siciliani perpetrate a New Orleans e nei dintorni alla fine del secolo in un clima da Ku Klux Klan: concezione che si credeva tramontata e che invece persiste tutt’oggi in forme sia pure meno radicali.
La conoscenza che Oltreoceano si ha dunque della Sicilia non è, nemmeno storicamente, appropriata. Non tiene conto di una distinzione necessaria tra la Sicilia orientale e quella occidentale che fa dell’isola, anche sotto il profilo etnico oltre che culturale e storico, una realtà con due facce o due profili diversi. La parte orientale propende per un retaggio di derivazione greca, quella occidentale invece inclina verso una discendenza araba. In Pirandello e la Sicilia, riferendosi a Girgenti, Leonardo Sciascia parla di “scarto geografico” con Catania, distinguendo “il Val Demone dove gli Arabi non riuscirono a penetrare con sicurezza e il Val di Mazara dove furono sicuri nei secoli della loro dominazione”. 
La distinzione si rifà a una ripartizione della Sicilia che evoca l’isola “favolosa” divisa tra Siculi e Sicani (popolazioni entrambe di origine occidentale e comunque attestate come autoctone, come del resto gli Elimi, i soli a provenire dall’Asia ma confinati in una ristretta aria) e più ancora l’influenza esercitata dalla presenza greca, maggiore nell’area di dominio di Siracusa e minore in quella sottoposta al controllo della più vicina Cartagine. 
Questo riferimento di distinzione razziale è arricchito dalla supposizione che in Sicilia abbiano pure soggiornato etnie lombarde e longobarde in genere, stanziate al centro dell’isola e intese a mitigare la prevalenza dell’elemento mediterraneo. Elio Vittorini, nella visione della Sicilia utopica che nutriva, così come suppose un deserto nella piana di Castelvetrano, quello di Calatamaura, arrivò anche a immaginare una irraggiungibile comunità lombarda misteriosamente insediata tra Madonie e Nebrodi. E molto si concentrò, volendo stabilire una discendenza, a individuare i topoi lombardi, prova di belle città, e quelli arabi, segno di città brutte nelle quali non avrebbe voluto né essere nato né vivere. 
Anche se la discriminazione razziale dei siciliani la ritroviamo in uno come Vittorini che amava la Sicilia solo se poteva farlo da Milano, la sua Sicilia lombarda è una realtà non meno concreta di quella greca, araba o spagnola. Leonardo Sciascia la riconosce come “un’astratta sintesi, un’illusione, un mito” ma non manca tuttavia di ammetterne l’esistenza, anche solo come punto di contraddizione dei siciliani migliori che non vogliono cadere nella follia lampedusana di ritenere la Sicilia perfetta. Anche per Sciascia dunque ci sono città aperte e ariose e città chiuse e opprimenti, distinguibili pure solo per i nomi tra lombarde e arabe. 
Le “cento Sicilie” contate da Bufalino sono quelle che cooperano al superamento della chimera del sicilianismo e, seppure certifichino una molteplicità etnica, allo stesso tempo testimoniano che non al solo elemento moresco può essere ridotto il patrimonio genetico siciliano. Anzi quello arabo è forse il meno presente e diffuso, per modo che possa dirsi che i siciliani hanno più sangue boreale che australe perché è più con i normanni che con i musulmani che si sono commisti, sempreché congiunzioni generazionali di tal tipo abbiano qualche importanza. Qualcuno dovrebbe in realtà ragguagliare meglio l’America.