giovedì 15 settembre 2016

I Mille in Sicilia, le orme rimaste e quelle cancellate


Servizi usciti ogni domenica in nove puntate dal 17 luglio all’11 settembre 2016 su la Repubblica di Palermo

MARSALA
L’ultimo garibaldino caduto sul campo è stato un maestro elementare di Marsala, Giuseppe Caimi. La notte del 6 giugno 1982, sul treno che lo portava a Vimercate per una celebrazione del centenario della morte di Garibaldi, anziché la porta dei servizi igienici infilò quella d’uscita e rimase maciullato. Lo chiamavano “il maestro dei Mille” perché da oltre vent’anni, aiutato dai suoi scolari della quinta classe, raccoglieva in tutta Italia e in quaranta faldoni le biografie, le foto e le lettere dei 1089 “garibaldesi” (come i volontari erano chiamati dai borbonici nei primi giorni) sbarcati a Marsala. 
Oggi questo patrimonio è custodito in quello che i marsalesi chiamano “monumento” e che invece è un centro culturale, un info-point, un museo, un auditorium, un mausoleo, un archivio e un punto panoramico, costato alla fine seicento milioni di euro e una plurisecolare vergogna cittadina.
Il monumento a Garibaldi
Il monumento è stato inaugurato l’11 maggio scorso, per il 156° anniversario dello sbarco, dopo un uguale periodo di rinvii, fermi, ritardi, colpi di scena e pessime figure. Il sindaco Alberto Di Girolamo sa bene dunque che passerà alla storia per averne tagliato il nastro: “L’anno scorso il ministero ci assegnò 233 mila 700 euro da spendere entro il 2015 come risarcimento, dopo la crisi libica, dei danni all’aeroporto e al territorio. C’era chi voleva destinarli a spettacoli all’aperto. Io invece li ho spesi per completare il monumento, da decenni incompiuto e diventato una discarica”.
Il sindaco Alberto Di Girolamo
Ma il risultato non è piaciuto a tutti. Gaspare Li Causi, uno storico di Marsala quasi novantenne e lucidissimo, lo definisce “una barzelletta”. Elio Piazza, vice presidente ultraottuagenario del Centro studi garibaldini, dice che “esteticamente vale zero ma storicamente mille”. E Vittorio Sgarbi non è stato meno lapidario su facebook: “Non evoca nulla e invoca pietà”.
Elio Piazza
Nei propositi dovrebbe evocare i due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, approdati l’11 maggio 1860. Due grandi lastre frontali, a simboleggiarne le vele, riportano incisi i nomi delle camicie rosse e sono sormontate da altrettante terrazze chiamate “poppiere” che richiamano il retro delle navi e dividono al centro un lungo pennone. È in cima a questa asta che Silvio Forti, avvocato fieramente fascista, si è ripromesso fino a qualche giorno prima di morire di inalberare la bandiera italiana e quella siciliana, nonostante un cancro al fegato e 82 anni suonati: “Uno schifo, non un monumento” ha detto nel suo ultimo giudizio.
Silvio Forti nel suo museo "Militaria"
Forti gestiva un museo chiamato “Militaria” che espone reperti della Prima e della Seconda guerra mondiale nonché cimeli garibaldini, per cui ha allestito una collezione che da un duce arriva ad un altro e dall’Italia fatta porta a quella disfatta. “Su quel pennone - ha fatto appena in tempo a riaffermare inascoltato, tra una camicia rosso scolorito e una Balilla nero traslucido - ci voglio pure la bandiera gigliata perché anche i napoletani erano italiani”. Non ce l’ha fatta.
Tuttavia a Marsala non sono molti quelli che tifano per i “regii”. Del resto la città non pullula nemmeno di ferventi patrioti. “La politica post-unitaria - dice Piazza - ha lasciato una tale delusione che dura fino ad oggi. La maggioranza dei marsalesi è tiepida e dopotutto i tempi che viviamo non incoraggiano certo idealità e accoramenti”. La sensazione è diffusa. Il poeta Nino De Vita ha ricordo solo da giovane di accanimenti su questi temi: “Oggi la memoria cittadina tende a cancellare la storia”. Così Piazza può lamentare il fatto che il Comune non concede da anni alcun contributo al Centro studi, che è dunque costretto all’inattività, tanto che il presidente, Romano Ugolini, costretto a muoversi a sue spese da Roma, non si è più visto. Il sindaco fa spallucce: “I finanziamenti a pioggia di un tempo sono da dimenticare. Vedremo quel poco che possiamo dare”. Cioè briciole.
Ma il disinteresse non è solo frutto della crisi economica. Nel caso del monumento concepito nel 1910 (di cui è rimasto soltanto il basamento oggi posto in Piazza Piemonte e Lombardo), sebbene su un lato balugini ormai sbiadita un’iscrizione che profetizza beffardamente “un più degno monumento”, in 106 anni neppure una classe di studenti si è mai impuntata perché l’auspicio fosse avverato. Né lo scorso maggio, per l’inaugurazione, il lungomare del Salato si è riempito di folle inneggianti all’evento storico. Ma d’altronde nemmeno quel pomeriggio dell’11 maggio 1860 Marsala corse dietro a Garibaldi, che infatti si sorprese non poco alla vista sui balconi delle bandiere inglesi. “La popolazione ci ricevette freddamente” annotava un volontario nel suo diario. La storia è tuttavia ambigua: mentre Forti diceva che i picciotti marsalesi furono non più di mezza dozzina, interessati a impossessarsi di una baionetta anziché a liberare l’Italia, Piazza parla di trecento picciotti, fra cui una donna vestita da uomo.
Gaspare Li Causi
Secondo Li Causi “solo gli aristocratici erano contrari a Garibaldi, tanto che quando i borbonici sparsero la voce che il suo esercito era stato sbaragliato, i nobili esultarono in festa: per poi trovare all’ingresso del loro circolo teste mozze di topi a evidente ammonimento”. 
Non sono serviti a tenere acceso lo spirito garibaldino le tantissime strade e piazze intitolate a figure del Risorgimento in una città che dal porto a Porta Nuova offre un ininterrotto itinerario ispirato ai Mille. Per esempio non è bastato avere intestato la piazza principale alla Repubblica giacché continua ad essere chiamata Piazza Loggia: la stessa dove il 25 aprile 1982, in una sera di pioggia battente, Bettino Craxi invitò la Regione a costellare la Sicilia di monumenti a Garibaldi, salvo rendersi conto nel 1986 (tornato da premier per porre la prima pietra del monumento - inaugurato solo 34 anni dopo) che, a cominciare da Marsala, nessun siciliano impazzisce davvero per Garibaldi. L’unica statua che Craxi trovò era stata relegata nel Parco archeologico, un mezzobusto oggi pressoché ignorato anche dai turisti: al punto che, quando l’8 maggio 1924 Mussolini sentì di dover promettere un grande monumento, quello in costruzione da quindici anni era stato coperto di teli per nasconderlo ai suoi occhi.
Luigi Giustolisi
La sezione risorgimentale del Museo civico (curata da Luigi Giustolisi che ha 93 anni ed è il proprietario dei tanti cimeli) è oggi l’unica meta turistica di vero interesse, ancorché per anni ogni forestiero in arrivo abbia chiesto solo di vedere il monumento. E sebbene sia segnalata da una lapide, pochi conoscono la casa, in Piazza della Vittoria, dove Garibaldi pernottò e l’altra da dove uscì “Marsala”, il cavallo donato da un possidente al generale, anch’essa punteggiata da una epigrafe murale. 
Ben noto è invece il vino “Marsala superiore Garibaldi dolce”, un liquoroso al quale si deve forse l’unità d’Italia, perché caro agli inglesi che a Marsala tenevano depositi e perciò interessi tali da giustificare la presenza di loro navi da guerra che fu sufficiente a scoraggiare la flotta napoletana a bombardare per tempo i Mille. I quali a Marsala furono una meteora, mentre Garibaldi ci tornò due anni dopo per ricominciare l’impresa, stavolta per Roma. Fece due cose il liberatore: disse “Picciotti, credete forse che vi abbia dimenticato?” e bevve, su una poltrona oggi conservata al museo, un bicchiere di marsala segnandone così la fortuna. Poi radunò un manipolo di nuovi volontari e ripartì. Esattamente come la mattina del 12 maggio 1860: in mezzo a due colonne di camicie rosse ai lati della strada polverosa. 

SALEMI
Rampingallo è un baglio sperduto e abbandonato da cercare non certo lungo la statale per Salemi costruita negli anni Cinquanta ma nel dedalo delle vecchie provinciali di un feudo immerso, annotava Cesare Abba, in “un’interminabile landa ondulata dove l’erba nasce e muore come nei cimiteri”.
Foto d'epoca di Rampingallo
Una lapide cadente e ormai illeggibile ricorda che vi dormì Garibaldi con i suoi Mille sfiniti, assetati e affamati, provenienti sotto un sole “che pioveva addosso liquefatto” da un breve bivacco a Buttagana, dieci chilometri dopo Marsala. E mentre un volontario scriveva nel suo diario “Ma quanto erano buone le fave di Rampingallo”, un ufficiale emiliano diceva a Bixio: “Si direbbe che siamo venuti per aiutare i siciliani a liberare la loro terra dall’ozio”. La desolazione del posto era totale. Oggi lo è ancora di più. 
Rampingallo (mancato monumento nazionale) non esiste nemmeno nelle carte geografiche, eppure fu teatro della prima trattativa che la mafia strinse con lo Stato italiano ancor prima che fosse costituito.
Pippo Scianò
Il palermitano Pippo Scianò, leader storico indipendentista, strenuo revisionista della spedizione garibaldina, ha una sua versione: “Garibaldi stava andando a dormire, aiutato dal suo attendente Giuseppe Bandi, quando uno dei baroni Sant’Anna entrò nella stanza e gli chiese una commissione scritta che lo autorizzasse ad assumere i ‘picciotti di mafia’ che aveva portato con sé in nome e per conto di Vittorio Emanuele, sicché Garibaldi ordinò all’attendente di scrivere la lettera. La mafia allora era piccola cosa: si occupava di disciplinare i turni dei mendicanti e assegnare ai spigolatori le mietiture che i baroni lasciavano dopo la prima passata. A comandare era la camorristeria, che però non era invadente. Ma con quell’atto di reclutamento la mafia si nobilitò”. 
Francesco Crispi scrisse che tra i picciotti portati dai Sant’Anna a Rampingallo vi erano soprattutto pacecoti, mazaresi e alcamesi. In realtà erano venuti da tutti i paesi: divennero poi “i squatri”, le squadre armate, e parteciparono alla conquista della Sicilia a fianco dei carabinieri genovesi, dei cacciatori delle Alpi, delle truppe ungheresi e delle camicie rosse. “Era difficile capitanare quella gente - lascerà scritto un volontario settentrionale. - Mista ai buoni v’era certa feccia di cui solo chi fu in Sicilia può dire come si conviene”. Non piacevano granché. Più tardi, sulla via per Palermo, con il fiato dei borbonici attorno, Garibaldi rimanderà indietro tutti quelli che erano a cavallo e molti fanti, accusati di non sapere tenere il silenzio: i primi perché non avevano castrato, per abitudine tutta siciliana, i loro animali che dunque nitrivano e si cercavano, i secondi perché da buoni siciliani non facevano che schiamazzare.
A Rampingallo l’ultima manifestazione celebrativa è stata dell’ex sindaco Vittorio Sgarbi, che il primo maggio del 2010 vi allestì una festa con tanto di attori nei panni di garibaldini.
Il sindaco Domenico Venuti
L’attuale primo cittadino, Domenico Venuti, non sembra molto sensibile al fascino di Rampingallo, una fattoria privata oggi crollata che fece da vestibolo e briefing all’ingresso trionfale dei Mille a Salemi, la prima capitale d’Italia. Più che altro un gioco. Murata all’ingresso del municipio troneggia la targa con la quale Garibaldi assunse “la dittatura di Sicilia”: “nel nome di Vittorio Emanuele re d’Italia” e “sulle deliberazioni prese dai Comuni liberi dell’isola”. Nessuno obiettò che l’Italia ancora non c’era e che non un solo Comune era stato per il momento liberato. 
La lapide al castello svevo

In tale gioco di infingimenti è caduta un’altra lapide, quella affissa nel 1902 all’ingresso del castello normanno-svevo: volendo ricordare il tricolore piantato dal novello duce, esordisce con le parole “sulla torre del castello” che però non indicano il punto in cui la bandiera piemontese garrì al vento ma quello dove la lapide doveva essere murata. La scritta è finita per mano dell’incisore in testa all'epigrafe e c’è rimasta mentre la lapide riluce ai piedi del castello. “Ormai è una curiosità - dice il sindaco. - Dovremmo forse correggerla, ma pochi sanno dell’errore. Come pochi sanno purtroppo di ciò che conta molto di più: la conservazione a Salemi del primo decreto dello Stato italiano, quello firmato da Garibaldi”. Non importa che sia stato un atto totalitario in stridente contraddizione con il sogno di nascente democrazia, perché a Salemi quel documento è così importante che la piazza principale è chiamata, unica in Italia, Piazza Dittatura. “E così rimarrà - giura Venuti. - Anzi, per tenere vivo lo spirito garibaldino quel che voglio fare è invitare il capo dello Stato a promuovere iniziative perché sia dato risalto e fatto conoscere anche nelle scuole l’atto numero uno dello Stato italiano”.
Un presidente della repubblica è tuttavia già stato a Salemi. Sgarbi invitò Napolitano l’11 maggio di sei anni fa proprio in ragione del primo atto della Gazzetta ufficiale.
“Fu quella volta - dice l’ex sindaco, che giudica un fallimento l’impresa di Garibaldi, vista la divisione in due dell’Italia di oggi - che nella coscienza nazionale si insediò il primo pensiero italiano. Napolitano accettò il mio invito proprio per questo”. Per l’occasione Sgarbi si esibì in una metafora che, per qualche motivo, colpì non tanto il presidente quanto la moglie: osservò che Garibaldi era venuto nel 1860 in Sicilia per ingravidarla, cosicché circa nove mesi dopo nascesse l’Italia. I salemitani interpretarono fin troppo alla lettera l’immagine perché credettero davvero che i loro progenitori fossero stati ingroppati per primi da Garibaldi. Cosa che l’attuale sindaco ritiene piuttosto un privilegio: “Salemi non fu scelta a caso quale prima tappa della spedizione dopo Marsala, dove l’accoglienza fu fredda. 
La lapide al municipio

Salemi, protagonista della rivoluzione del 1848, aveva conservato uno spirito rivoluzionario tollerato anche da Napoli, perciò Garibaldi sapeva che poteva venire qui sicuro di trovare terreno fertile”. Infatti reclutò tutti i picciotti che poté lanciando un appello alle armi al quale risposero in duemila. E il decurionato gli offrì il comando della città. Che con un nuovo infingimento votò, come ricorda un’altra lapide, “primiera fra tutte dell’isola l’annessione al regno italico”. Solo un vagheggiamento a quel tempo. 
A volere il comando assoluto fu Garibaldi, che passò due giorni a organizzare al meglio il suo esercito di “filibustieri”, com’erano noti ai borbonici i garibaldini, reclutò padre Pantaleo che lo avrebbe benedetto ad Alcamo e per due notti dormì a Palazzo Torralta. La casa avrebbe fatto la fine del baglio di Rampingallo se la vicesindaco di Sgarbi, Antonella Favuzza, farmacista, non l’avesse acquistata facendone un resort con i pavimenti in resina ma lasciando la struttura esterna intatta, lapide compresa: a ravvivare la quale provvide in quel fatidico 2010 personalmente Sgarbi, munito di pennello nero e in camicia rossa.
Sgarbi ripulisce una lapide
Altri tempi e altri infingimenti in una città che lascia scolorire i suoi busti e le sue lapidi risorgimentali e che alle due stanze del museo dedicate al 1848 e al 1860 ha voluto annetterne altre dedicate alla mafia, anche questa opera di Sgarbi. Una città dove il più grande infingimento è però lo spirito che ancora oggi aleggia a Palazzo Torralta e che, si narra, lumeggiò le notti insonni di Garibaldi annunciandogli l’imminente vittoria di Calatafimi. Naturalmente, con bella trovata, lo chiamano da allora “lo spirito della vittoria”.

CALATAFIMI
Seguendo l’itinerario garibaldino da Salemi a Calatafimi, nemmeno Napolitano si fermò l’11 maggio 2010 a Vita, che è a metà strada ed è passaggio obbligato lungo l’attuale statale 188 come lungo l’antica consolare che serpenteggiava più a sud e che oggi ricalca la provinciale 61, tanto mitica quanto ignorata. Qualche garibaldino ha trascritto Vitri nel suo diario, segno che Vita era proprio destinato a rimanere fuori dalla storia. Maria Scavuzzo, presidente della Proloco, non sa spiegarsi perché si parli solo di Calatafimi: “Eppure qui era attivo un ospedale, il San Giuseppe, oggi in ruderi, dove molti garibaldini feriti nella battaglia di Pianto romano furono soccorsi e alcuni morirono”. In quello che Cesare Abba chiamò “piccolo borgo, case rustiche, molte catapecchie, una chiesa” il variopinto esercito di Garibaldi vi reclutò nuovi “picciotti” ricordati oggi in una lapide murata nel municipio.
Vito Tibaudo

Vito Tibaudo, storico di Vita, precisa che il generale ristette molte ore in cima a Pietralonga, che sorge all’uscita del paese: “Da lì si osserva uno spazio enorme sicché fu proprio da quell’altura che Garibaldi decise lo schieramento in battaglia. Alcune compagnie le tenne peraltro vicino a Vita per proteggere l’ospedale e una eventuale ritirata”. 
Pietralonga, Calemici e Pianto romano sono le tre colline dell’orgoglio risorgimentale e del disonore borbonico. Disposte come la cintura di Orione, costituiscono il teatro del giorno più celebre e celebrato della spedizione dei Mille: la battaglia divenuta leggenda per la vittoria di 1200 uomini “raccogliticci” (come li definì il generale napoletano Landi) e male in arnese conseguita su 3600 soldati regolari armatissimi e disciplinatissimi.
L'ossario di Pianto romano
“Ma non erano motivati, a differenza dei garibaldini - osserva Francesco Fiorello, storico di Calatafimi e studioso dei Mille. - Tanto fu l’ardore che non fece alcun danno l’improvvida e antimilitaresca iniziativa dei picciotti partiti all’assalto in maniera così improvvisa che Garibaldi dovette ordinare alle camicie rosse la carica immediata”.
Francesco Fiorello
La 61 passa ai piedi di Pianto romano, dove l’Italia emise col sangue il primo vagito e che il garibaldino Giuseppe Capizzi intese come il luogo di “una vittoria dei segestani sulle coorti dell’antica dominatrice del mondo”, ma in realtà prende il nome da una certa famiglia Romano che vi piantò i “chianti”, cioè le prime pianticelle di vite, e lo fece risapere. A piangere sui crinali della collina sono stati invece i volontari e i borbonici. In cima sorge il sacrario che conserva le ossa dei 34 garibaldini e dei 35 “regii” caduti, benché solo dei primi siano riprodotte le foto. Il mausoleo si scorge biancheggiante da lontano e corona un doppio filare di cipressi chiamato “Viale della rimembranza” che porta a una stele con su inciso la famosa frase “Qui si fa l’Italia o si muore” che, come l’altra altrettanto famosa “O Roma o morte”, echeggia da decine di balconi siciliani, a stare alle sottostanti lapidi.
I cippi lungo il viale sono in rovina, l’ossario è preda di continue infiltrazioni d’acqua la cui umidità lo sta consumando, il decoro del posto è minato da arbusti ed erbacce, l’impressione generale è di incuria e abbandono.
Il sindaco Vito Sciortino
“Occorrono almeno 400 mila euro per il ripristino e la Sovrintendenza ha ormai deposto le armi - dice il sindaco di Calatafimi Vito Sciortino. - La proprietà è dello Stato ma la gestione è della Sovrintendenza che ha chiesto la sdemanializzazione e l’affidamento ai Beni culturali della Regione così da poter costituire con il Comune e un’associazione di tecnici una società di gestione, un po’ come è stato per Segesta. Ma siamo in una fase di stallo mentre il sacrario è ridotto in condizioni pietose”. 
Starebbe molto peggio se non ci fosse Girolamo Amato, che ha 73 anni e vive in una casa a cento metri. Quando vede gente avvicinarsi lascia la zappa e si offre come custode e cicerone: anche lui da volontario, visto che non è pagato se non con qualche mancia dai visitatori più generosi.
Girolamo Amato
Dal ’54 all’80 fu custode il padre, agricoltore anch’egli, con la differenza che era retribuito grazie a contratti a termine rinnovati ogni anno. Poi l’incaricò passò a Girolamo fino a quando, nel ’93, la Sovrintendenza nominò dei custodi, che trovarono fin troppo comodo il lavoro tanto da farlo a piacimento. Perciò non è durata e l’Ossario è tornato nella disponibilità di Girolamo, che è diventato custode abusivo e dice di avere avuto le chiavi sei anni fa dal Comune, quando era atteso il capo dello Stato, ma il sindaco smentisce: “Noi non c’entriamo niente con il sacrario”. Di fatto è però Girolamo a ricevere i visitatori. Non è certo un viavai. “A sette chilometri c’è Segesta - dice - dove ci vanno pullman ogni giorno. Qui vengono invece non più di una ventina di turisti la settimana, da soli e perlopiù d’inverno. L’Ossario non è pubblicizzato ed è una vergogna oltre che un disastro tenerlo così”. Qualche tempo fa è andato dal sindaco intendendo rappresentare la necessità di alcune lampadine nel sacrario. Appena il sindaco lo avverte che il Comune non si può permettere nemmeno una lampadina se ne va dicendogli: “Continuo a comprarle io”.
Leonardo Vanella
“Tutte le amministrazioni comunali sono state indifferenti - si rammarica Leonardo Vanella, il secondo e ultimo studioso locale di Garibaldi - per cui la gente non è sensibilizzata. Sono finiti i tempi di primo Novecento quando insegnanti come Vito Vasile portavano per obbligo scolastico i loro alunni a Pianto romano illustrando dal vivo la battaglia”. Ma per la verità, fino a qualche decennio addietro, sia Vanella che Fiorello, entrambi insegnanti, hanno fatto la stessa cosa con i loro scolari, cosa oggi impossibile giacché la data coincide con la festa della Regione e con un giorno di vacanza. L’anniversario del 15 maggio è dunque diventato un’occasione festaiola e mangereccia per pochi gitanti.
Raduno maggio 2016
Quest’anno appassionati di cavalli hanno indossato la camicia rossa, hanno scalpitato un po’ sul piano dell’Ossario e poi, seguiti da strapaesani in macchina, si sono ritrovati nel bosco Angimbé per distribuirsi prodotti tipici trovati già imbanditi. Della memoria dei caduti non è rimasto che lo stereotipo. Nessuna impressione ha destato la recente scoperta, fatta da Vanella rovistando tra i documenti dell’Archivio comunale, che i cadaveri furono lasciati per giorni a decomporsi sotto un cielo di scirocco sulle falde di Pianto romano.
Nuccia Placenza
“Il fatto che comunque venga scelto Pianto romano come punto di ritrovo - osserva Nuccia Placenza, responsabile della Pro loco calatafimitese - dimostra l’attaccamento al luogo”. La Pro loco si è impegnata nella qualificazione di Vicolo dei Mille e prova a tenere vivo un sentimento popolare che nei fatti non risponde più all’idea di grande legame che con gli eroi nazionali offrono le decine di vie e piazze eponime. Casa Garibaldi, ricavata dalla donazione di don Antonino Pampalone e adibita a museo risorgimentale, non conserva che pochi cimeli ed è insignificante meta di visitatori, sebbene il generale vi abbia dormito sia nel 1860 che due anni dopo. Del resto le stesse testimonianze garibaldine sparse in paese richiederebbero un pronto restauro, a cominciare dal monumento bronzeo di Garibaldi nella Villa comunale intestata a suo nome per proseguire con le lapidi murate in municipio e Piazza Plebiscito, dedicate all’insurrezione del 12 maggio e alla vittoria di Pianto romano. Ma la memoria oggi costa troppo.

ALCAMO
“Io sono dell’Ordine costantiniano di San Giorgio e quindi legato ai Borbone. Come potete chiedermi di festeggiare il 150esimo dell’Unità d’Italia?”. Nel 2011 l’allora sindaco di Alcamo Giacomo Scala zittì con vivo disappunto quanti gli ricordavano l’importanza del paese nella spedizione dei Mille e il dovere di tenere viva la flebile fiammella risorgimentale. Della buona causa si lasciò nondimeno sensibilizzare - merito di un pittore locale autore di alcuni dipinti dei luoghi garibaldini - l’assessore alla cultura che allestì perciò una sobria serata “riuscita graziosa” secondo Erina Baldassano, già insegnante al liceo classico e autrice di un libro sulle donne del Risorgimento. 
I mezzibusti dei fratelli Sant'Anna

Quella sera venne pure declamato un poema intitolato “I Sant’Anna a Caprera”, opera dialettale dell’ottavo anno dell’era fascista da recitare con ispirato amor di patria. E di patrioti. E così fu: in omaggio a Giuseppe e Stefano Triolo di Sant’Anna, fratelli, baroni e patrioti vibranti, che ad Alcamo contano più di Garibaldi. Anzi contavano. Fino al tramonto del fascismo ogni anno gli alcamesi andavano con spirito tirtaico in pellegrinaggio alla loro tomba, ma oggi molti non sanno neppure chi furono e altri non vogliono saperlo, nonostante una via del centro, due busti marmorei, una lapide nel corridoio del liceo Ciullo, altre due murate nel prospetto del municipio e ancora un paio sulla facciata di Palazzo Triolo. 
Roberto Calia

Roberto Calia, per anni direttore della Biblioteca comunale e autore di non meno di quaranta libri su Alcamo, dice che “i nobili del tempo avevano in odio i Sant’Anna perché avevano parteggiato prima per i Borboni e poi si schierarono contro per non aver ottenuto che fossero risollevati dalla miseria più squallida nella quale caddero a seguito della vita dissipata che conducevano”. 
Garibaldi però stravedeva. “Dove sono i Sant’Anna?” chiedeva con ansia già da Rampingallo, solo per essere rassicurato della loro presenza e partecipazione. La retorica alcamese del 1901 ne fece degli eroi a imperitura memoria e in una lapide volle celebrare in Giuseppe lo stratega che “dietro al gran capitano la balda squadra alcamese condusse alle vittorie di Calatafimi e Palermo”. 
Carlo Cataldo
“Retorica, appunto” osserva Carlo Cataldo, 83 anni, il principale cultore trapanese del Risorgimento, autore di una decina di libri specialistici. “A Pianto romano i picciotti fecero da spettatori e non da attori. E a Palermo il loro contributo fu più appassionato che determinante”. Quanto alla “balda squadra” non si trattò che delle cosiddette “squadre armate” o “picciotti di mafia” agli ordini dei capimafia: i Sant’Anna di Alcamo, che portarono inizialmente cinquecento uomini, e poi i Coppola e gli Adamo di Erice che ne guidarono ottocento. “Furono loro gli artefici della prima trattativa Stato-mafia” dice Cataldo. “Quelli che si unirono a Garibaldi erano in pratica i campieri di fiducia”. Che due anni dopo si guadagnarono in Aspromonte l’alloro di martiri appresso a Garibaldi. Talché i piemontesi posero Alcamo in stato d’assedio e, su ordine del commissario del governo, consumarono una repressione col piombo delle fucilazioni. Per questo nel 1893 gli alcamesi distruggeranno in piazza la bandiera sabauda, chiudendo i conti con l’epopea garibaldina. Anche perché uno dei cinque decreti pronunciati dal dittatore dal balcone di casa Sant’Anna, quello sull’abolizione dell’imposta sul macinato e dei dazi sui cereali, unito al divieto di pagare i tributi ai borbonici, era rimasto inapplicato: o meglio, era inteso che le tasse non andassero più versate a Napoli bensì a Torino, come dopotutto era pure scritto nel decreto (“Appartengono alla Nazione”) ma gli alcamesi, come tutti i siciliani, pensarono a una franchigia. E se l’ebbero per l’inganno.
La lapide al municipio
L’avversione garibaldina, nella quale si è mutato l’originario fervore che entusiasmò le camicie rosse la mattina del 17 maggio al loro arrivo ad Alcamo, è forse alla base di un episodio che ancora oggi viene dato da molti per certo: secondo una notizia riferita alla popolazione da un gesuita del tempo, i volontari colpirono a pietrate la statua della Madonna dei Miracoli posta in una nicchia sul prospetto della chiesa del collegio dei gesuiti e carissima agli alcamesi. Andò invece un po’ diversamente, perché i garibaldini per indurre i gesuiti ad ospitarli spararono dei colpi in aria che qualche linguaccia loyolana vide esplosi alla Vergine incoronata e al suo Bambino. 
Del resto il 13 maggio 1982, per il centenario della morte di Garibaldi, quando un centinaio di nuovi volontari salparono da Quarto e ripercorsero in Sicilia l’itinerario del generale, da Mazara a Milazzo, gli alcamesi non fecero ala alla loro marcia da bersaglieri (vestiti più da yudoka che da garibaldini) lungo Corso VI Aprile e sotto il palazzo comunale pavesato di tricolori, applaudendo festanti quella che oggi la ricordano per qualche motivo come “la staffetta”?
Manifestazione del 13 maggio 1982
Ma la storia alcamese ha seguito mene ondivaghe e se oggi i busti dei Sant’Anna appaiono mutilati e aspettano il restauro, come Garibaldi attende che gli sia eretto un monumento, mai realmente voluto, al voto di annessione al regno piemontese Alcamo fu il solo Comune del Trapanese dove si ebbero quattordici voti contrari, un’enormità rispetto alla generale totalità dei sì. Non che gli alcamesi se la presero perché furono requisite loro le scarpe, necessarie per dare ai liberatori calzature non più da passeggio, perché si prestarono anzichenò senza protestare (e forse se la risero dopo aver saputo che sortirono peggiore risultato, sicché un garibaldino, definendole “scatole di cuoio”, annotò che “alcuni dovettero continuare le marce sui carri dell’ambulanza”), ma certamente covarono da subito un risentimento soffuso e diffuso tale che quando il 18 giugno 1860 il Consiglio comunale, nell’enfasi e nel sussiego del momento, decise di intitolare a Garibaldi la piazza fuori Porta San Francesco dove il dittatore di Sicilia aveva arringato il popolo, non fu dato alla delibera seguito alcuno, salvo settant’anni dopo intestare una piazza che però sarebbe stata un’altra.
L’attuale Giunta grillina, appena insediata dopo un anno di commissariamento, non sta pensando certo a Garibaldi. Né del resto le precedenti amministrazioni si sono prodigate in celebrazioni.
Lorella Di Giovanni
L’assessore alla cultura Lorella Di Giovanni indica del programma elettorale il recupero dell’identità comunale e la valorizzazione della storia patria, comprendendo così anche Garibaldi e i garibaldini alcamesi come Liborio Vallone e Giuseppe Fazio che diedero la vita in battaglia, ma di specifico non c’è nulla in calendario. L’ultima iniziativa si è avuta quattro anni fa quando il Comune restaurò le lapidi affisse all’esterno il cui testo era divenuto illeggibile. Artefice fu il sindaco Scala, il cavaliere borbonico. Che si addisse solo perché stavano per cadere in testa a qualcuno. Ma non emise nemmeno una delibera, né naturalmente convocò una cerimonia pur ristretta. “Glielo dico con la massima serenità, ancorché alcamese - confessa Calia. - Garibaldi ci ha lasciato solo un brutto ricordo”. 
Eppure nel luglio del 1990, sfilando per il paese, i veterani della Seconda guerra mondiale invece delle loro uniformi pensarono di vestire proprio i panni garibaldini. Vorrà pur dire qualcosa. Come anche il fatto che un giovane insegnante, Francesco Melia, oggi faccia da guida ai turisti e rinnovi, forse per ultimo, lo spirito risorgimentale e la storia municipale.

PARTINICO
Salvatore Salomone-Marino, forse perché di Borgetto, il paese attiguo e rivale, aveva una idea precisa del partinicese: “Adora un solo dio, l’omicidio. Par nato dal sangue e pel sangue”. Elencando episodi di bestialità e crudeltà, il demopsicologo dimenticava il più efferato: il massacro dei soldati borbonici, che ebbero la sciagurata iattanza di rispondere con un eccesso di difesa all’accoglienza riservata loro (uguale a quella che stavano preparando i monteleprini) a suon di schioppi e misero a fuoco sessanta case, trucidarono bambini e stuprarono donne. “I partinicoti designati dai siciliani - scriveva un garibaldino - siccome ardenti di patrio amore e assai belligeri” ne sterminarono quaranta gettandone alcuni vivi nelle fiamme delle loro case, altri dandoli in pasto ai cani e lasciando poi i resti, dopo le danze a circolo delle donne trasformate in erinni, ammucchiati all’ingresso del paese, dove due giorni dopo i garibaldini li videro facendo facce di ribrezzo.
Gaetano Russo
Secondo Gaetano Russo, studioso partinicese, “Garibaldi si abbassò la visiera e disse schifato che quello era un paese dal quale non avrebbe voluto più ripassare”. Salvo poi promettere da un balcone che i danni provocati in Sicilia dai borbonici sarebbero stati risarciti dai municipi e gridare che “Partinico occuperà la pagina migliore nella storia del Risorgimento”, parole che oggi si leggono appena nella lapide murata accanto al balcone e rialbeggiata in qualche modo per il 150esimo. 
Fu per quell’elogio che il Comune offrì al generale la cittadinanza onoraria che lui accettò con orgoglio, perché Partinico “diede il vero esempio del come si trattano gli oppressori della patria”: così nobilitando il massacro pur alla vista del quale, narrano i garibaldini, ordinò la sepoltura dei cadaveri e deprecò la disumanità. Nello slancio il Consiglio comunale commosso si prestò pure ad erigergli un monumento, ma Garibaldi stavolta rispose no: “Lasciate di pensare a statue e impiegate il denaro in compra di armi e munizioni”. Non volendo addirsi a belligero ma ad ardente di patrio amore, il Comune allora lasciò cadere la proposta e molti anni dopo, dimentico del gran rifiuto, inaugurerà a Villa Margherita non più una statua ma il mezzobusto che oggi, alquanto malconcio, guarda a distanza l’altro altrettanto malmesso di Vittorio Emanuele, entrambi bisognosi davvero di una rinfrescata.
Il mezzobusto di Garibaldi
Non si ricordano a Partinico iniziative per tenere vivo l’entusiasmo avito. “L’ultima - dice Russo - è del 1960, per il centenario: mi ricordo una gran festa con una sfilata di vecchietti in camicia rossa e noi scolari in piazza”. L’assessore alla Cultura Giusy Di Trapani taglia corto: “Abbiamo altre urgenze, creda”. Fra queste la “Notte bianca” popolata di cantanti e artisti. Perciò Garibaldi è il trapassato remoto.
L'assessore Giusy Di Trapani
“Del resto - osserva Tommaso Aiello, uno degli intellettuali più attivi in paese - forse nemmeno i giovani sanno chi fu. Gli studiosi come Michele Gulino e i poeti come Antonino Oliveri, che gli dedicò un poema, sono scomparsi spazzando ogni sentimento garibaldino”. La verità è anche, come conferma Aiello, che si tratta di un sentimento contrastante: “Per molti Garibaldi fece scempio della Sicilia”. Sicché la risposta è stata una certa dissacrazione.
Tommaso Aiello
Piano di Renda, già in territorio di Monreale, è uno di questi luoghi demitizzati, sebbene sia tra i più significativi, perché ospitò i Mille per tre giorni e servì a Garibaldi per osservare dall’alto le manovre dei borbonici tra Monreale e Palermo ingaggiando schermaglie a San Martino delle Scale, Casa Lenzitti e Villagrazia. Cesare Abba scrisse di “un luogo, a dire dei siciliani, infame per storie truci di masnadieri”, ma oggi il vasto altipiano a forma di anfiteatro chiuso, dalla cui cima si gode l’irripetibile panorama della Conca d’oro che stregò le camicie rosse, è cosparso di case di villeggiatura tra le quali non c’è una sola testimonianza del passaggio garibaldino.
Piano di Renda
Eppure quassù, sopra Pioppo e sotto Casaboli, l’esercito arrivò a 4000 volontari e Garibaldi fu visto sorridere ottimista. Fu qui che un garibaldino, nel momento in cui provò a trascrivere su un foglio gli indirizzi di due palermitani in visita, si vide afferrare alla mano per sentirsi dire: “Che fate? Quelle cose lì si tengono a memoria”: gesto commentato con ammirazione dai prodi e ingenui volontari settentrionali perché nessuno di loro “aveva pensato al pericolo di essere trovati con addosso un indirizzo di un altro”. In compenso aguzzarono l’ingegno trovando come mangiare il riso servendosi delle pale di fico d’india al posto dei piatti.
Piano di Renda fu il punto di partenza della marcia che strabiliò il mondo, dallo stesso Garibaldi definita “prodigiosa” e molti anni dopo meta di Cesare Abba che volle ripercorrerla per ritrovare il tracciato e l’emozione: lungo la cresta di un sentiero scosceso e acquitrinoso, più che altro uno sterpeto tra Pioppo, l’allora Misilcandone, e Parco, l’attuale Altofonte, con i cavalli e i cannoni, in fila indiana come su un filo sospeso nella traversata che fu detta “la cavalcata sulle nuvole”. In ricordo di quella marcia notturna, sotto la pioggia e sopra le voci concitate dei nemici che salivano dalla valle, con Bixio che spara al suo cavallo per non farlo nitrire, ad Altofonte una via è chiamata Corso Piano di Renda. Un’altra Cozzo di Castro, a indicare il luogo dell’accampamento dei garibaldini prima e dei borbonici dopo.
L'obelisco al Calvario, Altofonte
Pochi lo sanno perché niente le ricorda, mentre è ben visibile al Calvario un obelisco, abbattuto da un fulmine e poi ricostruito (oggi gestito da un’associazione), che forse Garibaldi non avrebbe voluto in un posto così mistico e vicino pure a una chiesa, bastandogli la lapide sulla facciata del più laico Palazzo Vernaci dove secondo l’opinione prevalente pernottò. La storiografia locale non è unanime, anche perché rinunciataria. Tuttavia ad Altofonte si è avuto il fatto più straordinario degli ultimi anni, anche per merito di un’addetta della biblioteca, Anna Marfia: il ritrovamento delle due guide garibaldine di Pietro Merenda del 1910 ripubblicate due anni fa in forma anastatica dalla Regione nel libro “Da Renda a Palermo”. Anche questa ricerca deve molto alla mobilitazione generale per le celebrazioni del 2011, quando ad Altofonte si è tenuto un convegno del quale è però attesa ancora oggi la pubblicazione degli atti. 
Colpito anch’esso da un fulmine ma non più ricostruito è il cippo del palermitano Rosolino Pilo, caduto alla Neviera, sulle alture di San Martino delle Scale.
Il cippo a Rosolino Pilo
Una lapide (che secondo la Forestale, dopo essere stata divelta, è curiosamente conservata nell’abbazia, ma i benedettini negano) declamava non l’eroismo del soldato ma la “religione d’amore” che lega “la generosa anima siciliana all’unità e alla gloria della nazione”. Di questa generosa anima il generale diffidava alquanto, perché a un generoso contadino di Parco che gli offrì della ricotta fresca ingiunse che a mangiarla fosse prima lui. Della stessa generosità d’animo, proprio a Parco, si fece interprete un monaco che parlando dei picciotti chiese ai garibaldini: “E chi vi dice che non si aspettino qualcosa di più dell’unità d’Italia?”. Qualcosa di meno se l’aspettava invece Monreale, roccaforte borbonica. Padre Giovanni Vitale dell’Archivio diocesano ricorda le chiese della Madonna della croce e del Collegio di Maria, costruite da Carlo III di Borbone: “Qui Garibaldi non sarebbe stato il benvenuto”. Infatti non ci andò.

MARINEO
A un certo punto, di fronte al bivio dopo Piana dei Greci, dove ripiegò da Parco, Garibaldi si fermò come Forrest Gump ed ebbe l’idea passata alla storia come “la diversione”. Che dunque non fu frutto di una strategia a tavolino, ma di una trovata avuta nella trazzera e consacrata come prova di genio militare. Talché disse a Orsini di proseguire per Corleone mentre con il grosso girò a sinistra per una mulattiera verso Marineo. Orsini obbedì, ben consapevole del rischio, e si mise alla testa di un centinaio di soldati tra artiglieri, feriti, malati e meno giovani nonché di mezza dozzina di cannoni buoni per ingannare i borbonici alle calcagna. La verità è controversa, giacché a Piana degli Albanesi sorge un obelisco che indica proprio il posto in cui Garibaldi escogitò come liberarsi della soldatesca nemica attirata fuori da Palermo.
L'obelisco di Piana degli Albanesi
Se il cippo dice il vero, perché allora giusto a Piana, a chi gli chiese cosa fare, il dittatore rispose come il più frastornato dei condottieri: “Quel che pensa la mia testa non lo sa nemmeno il mio cappello”? 
Fatto fu che con la diversione Garibaldi lasciò supporre che stesse fuggendo e che valesse inseguirlo. E incredibile ma vero, nessuno tra le “guerriglie” siciliane fece la spia ai borbonici, che mangiarono dunque la foglia e la polvere appresso a Orsini. Il quale li trascinò prima a Corleone, poi a Campofiorito, Bisacquino, Chiusa Sclafani, Giuliana e Sambuca, finché i “napolitani”, forse presaghi o forse illuminati, si fermarono anch’essi e tornarono indietro a rafforzare Palermo, cosa che fece anche la colonna Orsini che praticamente li seguì in un gioco al rovescio. E lo fece volentieri dal momento che, tranne che a Sambuca, fu ovunque accolta con distacco, anzi scansata, salvo essere poi acclamata alla notizia della presa di Palermo. Cesare Abba se n’era già accorto: “Ho notato una cosa. Se un popolo ci accoglie con gioia, l’altro che troviamo subito dopo ci sta contegnoso e freddo”. Successe così pure nella breve distanza tra Giuliana e Sambuca, fatto che Sciascia riconduceva all’apertura “alle nuove idee” che animava la classe dei notabili della sola Sambuca: in tal modo mortificando tutti gli altri paesi. Quando infatti nel 1963 scrisse “Il silenzio”, immaginò Orsini tra i paesi a sud di Piana interrogarsi sui contadini dignitosi e poveri che lo guardavano passare muti.
Oggi non è diverso. A Chiusa Sclafani e Giuliana non c’è un solo toponimo che ricordi i Mille, Garibaldi o Orsini, mentre a Sambuca, come a Bisacquino e Corleone, il colonnello dell’artiglieria compare meglio e più del generale. Anche se furono non più di cento, da Piana in giù i Mille figurano solo a Corleone, dove la memoria è stata un po’ meglio celebrata: nel 2006 con una rappresentazione garibaldina in costume e nel 2011 con un convegno. In generale, nei Comuni attraversati da Garibaldi, i Mille intestano corsi e vie che figurano a ovest, sul lato del loro ingresso, e appaiono lunghi e centrali, mentre nei paesi toccati da Orsini le stesse strade cominciano prevalentemente a nord e sono corte e secondarie. 
Le planimetrie sono fatte dalla storia ma anche dal sentimento popolare. Marineo ne è la prova. Corso dei Mille è centralissimo ed è la strada più lunga.
Ciro Spataro
Secondo Ciro Spataro, autore nel 2011 di “Garibaldi a Marineo”, ricalca proprio la via nella quale sfilarono i garibaldini diretti a Gibilrossa, attesi dalle squadre di La Masa. Per strada il generale si sentì osannare da un bambino che prese in braccio per sentirsi tirare la barba e dire: “Che bello questo generale, pare proprio Gesù”. Il massone che era in lui - cosa che non gli impediva di circondarsi di preti e monaci, purché patrioti - non dovette sentirsi granché lusingato, tantomeno quando il Consiglio comunale gli rivolse un saluto festoso chiamandolo “angelo tutelatore dei popoli”. Fu il suo destino a volere che fosse paragonato al Salvatore, tant’è che Luigi Capuana nel 1861 compose un poema nel quale rese l’assimilazione definitiva, come la somiglianza. Ma quando una bambina di Misilmeri gli domandò se era vero che non credeva in Dio, il “salvatore” della Sicilia disse beffardo: “Ma non vedi che assomiglio a San Giuseppe?”. Dunque non rispondendo.
A Marineo non c’è una sola testimonianza che ricordi Garibaldi: forse perché è invalso maggiormente lo spirito del compaesano Antonio Salerno che nel 1862 si rifiutò di seguire il generale a Roma, disilluso delle promesse non mantenute. “La grande delusione - si chiede Spataro - è forse la causa del disinteresse di oggi verso Garibaldi?”. A Misilmeri il disinteresse è diventato addirittura abbandono: una lapide anni fa è stata tolta dalla piazza e quelle del convento di Gibilrossa, dove Garibaldi fece quartiere, sono fatiscenti.
IL monumento di Gibilrossa
Il grande obelisco è forse il monumento tenuto peggio in tutto l’itinerario siciliano. Mutilato anch’esso da una saetta e poi ricomposto con un parafulmine in cima, è meta di gitanti e coppiette che lo hanno deturpato con ogni tipo di spray. Ma su una lapide resistono le parole di Garibaldi a Bixio: “Nino, domani a Palermo”, pronunciate pur dopo averne disposto gli arresti, subito revocati, per essere il luogotenente arrivato quasi a sparare a un soldato che si era rifiutato di dargli tre fucili avendo ricevuto ordine dal generale di non cederli a nessuno. In un’altra occasione Bixio stava per uccidere un picciotto per una questione di cavalli ma aveva abbassato il revolver vedendone un altro con il fucile puntato e l’aria di fargli fuoco, Bixio o non Bixio. 
Fabrizio Ferrara
“Rinverdire le lapidi e l’obelisco? E perché piuttosto non abolirli?” fa l’assessore alla Cultura Fabrizio Ferrara, testimoniando un sentimento diffuso. Scomparsi Santo Platino, generoso studioso di Garibaldi, e Agostino Azzaretto, già bersagliere e artefice di sfilate e manifestazioni risorgimentali, la memoria è affidata oggi al solo Salvatore Messina, settantasettenne collezionista di cimeli garibaldini, fra cui una quarantina di libri dell’Ottocento sui Mille, che tre anni fa allestì una mostra a sue spese: “Chiesi al Comune un contributo, ma mi dissero che non c’erano soldi”.
Salvatore Messina
Eppure nella stanza del sindaco, accanto al gonfalone, campeggia da molti anni un ritratto di Garibaldi, che dieci anni fa venne trafugato (da qualcuno cui parve di qualche valore economico, non certo artistico o storico) e fu poi ritrovato da Messina, già comandante dei vigili urbani. Non solo: fa mostra anche uno stucco dello scultore locale Giovambattista Portanova intitolato “Il campo di Gibilrossa”.
Ma si tratta di apparenze. La verità è che Garibaldi che ha fatto la storia non fa più storia, a Misilmeri come in altri paesi da lui liberati o conquistati. Non ne parla più nessuno. Per fortuna nemmeno nel maggio del 1860 qualcuno parlò in giro della presenza delle camicie rosse a Gibilrossa, per cui i borbonici non ne seppero niente: al contrario di tre ufficiali inglesi che resero visita al generale forse più come fratelli massoni che emissari imperiali. Anche loro percorsero quella che ancora oggi si chiama Discesa dei Mille, che dalla vetta di Gibilrossa porta a valle. Da qui nottetempo, cadendo uno sull’altro e molti fuori pista, i Mille che divennero più di quattromila presero la strada per Palermo con in testa i picciotti per l’onore concesso loro di essere i primi a liberare la capitale. Naturalmente, per l’impeto e la gioia, non riuscirono a marciare zitti. Con le camicie rosse appresso invermigliate per la rabbia. 

PALERMO
Assumendo come alter ego del re il controllo militare della Sicilia, il generale Lanza proclamò, rivolto ai siciliani, di essere venuto anche per studiare i loro bisogni, parole alle quali il comitato insurrezionale palermitano rispose alla Rabelais che «i bisogni si studiano dopo l’evacuazione». Non aspettò molto: undici giorni dopo l’ingresso dei garibaldini, i borbonici lasciarono Palermo, chiudendo l’ultima pagina di storia locale scritta senza che la “maffia” ebbe avuto un ruolo e aprendo la prima in cui i “picciotti” venuti dalle campagne scoprirono la grande città, bella, ricca e da conquistare. Da quel momento le “squadre” si sarebbero via via mutate in cosche.
Tutto cominciò malissimo. Quell’alba del 27 maggio, giunti al bivio Scafa e credendo di essere ben dentro Palermo, i “picciotti di mafia” proruppero infatti in urla di vittoria allertando così la guardia borbonica che presiedeva il Ponte dell’Ammiraglio, oggi divenuto simbolo del sempre più minuscolo e rinunciatario movimento indipendentista e da un anno patrimonio Unesco.
Ponte dell'Ammiraglio
«Molti - scrisse Abba - si rovesciarono sui carabinieri genovesi cagionando il rigurgito di tutta la colonna». Finita la sorpresa, cominciò la battaglia: quella che segnò la presa di Porta di Termini, dove oggi, su Via Garibaldi, troneggia una delle decine di lapidi che pavesano la città insieme con busti, obelischi e monumenti. Posta a suggello del genio di Garibaldi non meno che del sangue dei martiri, picciotti malfidati compresi, la lapide presiede il luogo dove la spedizione dei Mille divenne una cosa seria. Entrare a Palermo significava infatti lasciare un sogno e prendere un progetto. Ma intanto un altro sogno si è fatto sempre più ricorrente: quello neoborbonico. 
Come Monreale (il cui attuale vescovo Michele Pennisi è priore dell’Ordine costantiniano siciliano), anche Palermo maschera infatti tentazioni passatiste: così come del resto Ficuzza, nel Corleonese, dove sorge la Real Casina di Ferdinando e i pochi abitanti si sentono ancora oggi fortemente legati ad essa; o come Castelvetrano, il solo Comune che nella Sicilia occidentale conti piazze e vie intitolate ai Borbone.
Antonio di Jannì
Antonio di Janni, cavaliere di gran croce e vicario dell’Ordine costantiniano, uno dei principali artefici del risveglio neoborbonico, sta da anni censendo le presenze architettoniche duosiciliane in tutta l’isola: «Volevo farne un libretto ma mi sono dovuto fermare perché sta venendo fuori un’enciclopedia. Sono tante anche a Palermo: su Monte Pellegrino la lapide di Carlo III, Villa Giulia, il pilastro vicino al Jolly Hotel, le lapidi all’Orto botanico… Molte sono sconosciute o dissimulate dalla propaganda unitaria». 
Il palermitano Vittorio Riera (autore di un seguito del poemetto “Za Francischedda” di Alessio Di Giovanni, dedicato alla popolana di Altofonte che diede la vita per nascondere un garibaldino) giudica non del tutto negativamente l’età borbonica né l’opera di revisione che da una decina d’anni ha ripreso vigore: «Qui a Palermo vi sono nuclei neoborbonici relativamente consistenti. Non si tratta di nostalgici o di gente sprovveduta; al contrario, si contano storici e scrittori di prima grandezza raccolti attorno alla rivista napoletana “L’Alfiere”. Ho partecipato anche a qualche loro incontro e devo dire di non essere rimasto entusiasta».
Ma la Palermo borbonica non è che una frazione di quella garibaldina. Il generale non vanta solo un superbo monumento equestre perché intesta anche vie, scuole, una villa, un hotel, un teatro e addirittura dei bar.
La statua equestre di Garibaldi
La città trabocca come nessun’altra di sue presenze, segno di un profondo legame. «Si tratta però di un sentimento che anima solo il palermitano più avvertito e di un certo livello sociale - spiega lo storico Pasquale Hamel, direttore del Museo del Risorgimento. - La massa invece immagina il periodo borbonico come il migliore della storia siciliana. Il suo giudizio è sostanzialmente negativo perché Garibaldi viene accostato all’unità d’Italia che è vista come una disillusione per la Sicilia. Tuttavia i neoborbonici palermitani, che sono tantissimi, parlano molto ma fanno poco. La loro è più un’esternazione che una ricerca reale di consenso». Non è d’accordo lo storico revisionista Tommaso Romano, autore di libri importanti su Garibaldi in Sicilia: «I palermitani non possono essere distinti per ceti. Se uno spirito comune hanno è quello ereditato da Tomasi di Lampedusa dell’immutabilità della storia. Io non me la sento di distinguere i fatti secondo le classi sociali o posizioni borboniche, monarchiche, repubblicane o garibaldine, perché gli studiosi che oggi rileggono la storia provengono dai ceti e dagli ideali politici più diversi. Prendiamo la rivolta del Sette e mezzo a Palermo, di cui a settembre ricorre il centocinquantesimo anniversario e che fu conseguenza dell’unità d’Italia: sotto quale spirito la vogliamo vedere?».
Lo storico palermitano Giuseppe Scianò, indipendentista della prima ora, respinge interamente la storia ufficiale e indica quale fu l’operazione piemontese di maggiore successo: «A chi combatté a Palermo contro Napoli o si distinse nell’azione di propaganda a favore di Garibaldi e di denigrazione nei confronti dei Borbone, Torino concesse una pensione immediata ed ereditaria per avere la quale si scatenò un’accanita gara popolare a chi sproloquiasse di più. Tanto è vero che nel 1866 la prefettura minacciò la revoca delle pensioni se la rivolta non fosse cessata». Furono dunque i “pensionisti” ad alimentare per loro tornaconto il mito di Garibaldi? E che ne è oggi a Palermo di questo mito? 
Un fatto è che mentre il retaggio neoborbonico in qualche modo dà segni di vita, il garibaldinismo ristagna da anni dentro un cono d’ombra. L’ultimo a risvegliarne gli ideali è stato un fotografo tedesco, Peter Amann, che nel 2012 diffuse una foto nella quale il dito di Garibaldi a cavallo in Via Libertà apparve curiosamente puntato verso l’amico Leoluca Orlando raffigurato in un manifesto elettorale. Sotto la foto campeggiava la didascalia “Anche Garibaldi raccomanda Orlando”. La trovata portò fortuna al sindaco, anche se è rimasto molto incerto il numero di quanti si lasciarono convincere dalla bizzarra sponsorizzazione.
La statua di Piazza Libertà
La febbre garibaldina palermitana è tutta nella “statua” di Piazza Vittorio Veneto, la più grande testimonianza in Sicilia di quella che Mario Rapisardi, dettando l’epigrafe sull’obelisco, chiamò “epopea”: non pensando che il monumento sarebbe stato condiviso con altri eroi, i caduti nella Grande guerra, celebrando così due vittorie e diventando una imponente erma bifronte di storie e tempi diversissimi. In realtà offre due aspetti: il prospetto integro e ben conservato, ma l’esedra ricoperta di scritte spray. Discretamente tenuti sono gli altri beni storici: dal pulitissimo Ponte dell’Ammiraglio alla Villa Garibaldi ai busti di Menotti Garibaldi, Orsini, Carini… Sembrerebbe quindi che il palermitano medio tenga di conto le vestigia risorgimentali, ma secondo Hamel “manca invece di memoria storica”. Il Comune non fa niente per rinverdirla mentre nelle scuole Garibaldi non circola che dentro i libri di testo. 
Dopo la scomparsa di Francesco Renda, le ricerche storiche si sono arenate lasciando campo aperto a quelle di tipo revisionistico. E con le ricerche crescono anche le iniziative di parte. Il prossimo appuntamento è la presentazione a Palermo, tra ottobre e novembre, di un libro di Roberto De Mattei su Francesco II. Precisamente sulla sua santità.

MILAZZO
Anche lo scorso 20 luglio, ricorrenza della battaglia di Milazzo, circa cento filogaribaldini hanno attraversato a piedi la città col corteggio di attori, contastorie e musicanti in fogge ed esibizioni risorgimentali.
Manifestazione garibaldina a Milazzo
Lo fanno da sette anni e li chiamano “i camminatori” perché la passeggiata detta “Camminiamo sulle orme di Garibaldi” è promossa da un’associazione salutista presieduta da Luciana Di Gironimo che, insieme con Italia nostra e Università della terza età (e grazie a un insegnante di educazione fisica appassionato di storia patria, Pippo Geraci), ha riscoperto l’interesse per Garibaldi. Le cui vie, essendo infinite, hanno poi portato a Bartolo Cannistrà, uno storico impegnato a fondo, anche con continue pubblicazioni, sull’ultima tappa in Sicilia della spedizione dei Mille, divenuti a Milazzo quasi seimila e costata più di 800 morti lasciati nella Piana contro gli appena 60 dei Borbone. 
Bartolo Cannistrà
La Piana è quella oggi tagliata dall’autostrada che corre tra Milazzo e Barcellona, le due piazzeforti dai cui pressi i “napolitani” del colonnello Beneventano Del Bosco e i garibaldini del generale Medici si mossero per scontrarsi in mezzo. Finché arrivò Garibaldi che, sbarcato a Patti Marina, prese il comando, vinse la battaglia e compì azioni sul cui fondamento ci si interroga ancora. Fece arrestare 39 tra milazzesi e “birri” ordinandone la fucilazione per avere lanciato dalle finestre olio e acqua bollente sulle camicie rosse? Fece bombardare dalla sua nave la città colpendo la popolazione? Permise il saccheggio dei suoi uomini che poi punì? Partecipò alla battaglia o riparò lesto sul piroscafo? 
La disputa su questi interrogativi è aperta da decenni. Per chiuderla, respingendo tutte le ricostruzioni di chiaro stampo neoborbonico, Cannistrà ha pubblicato su un periodico locale un lungo pamphlet a puntate sotto il titolo “La battaglia che non c’è stata” e ora riafferma che «non esiste alcun documento che dimostri le insinuazioni. Non ne parla nemmeno Buttà, che era il cappellano borbonico, né Brandi né Dumas né altri». 
La targa a Garibaldi
Eppure almeno una fonte c’è: un autore che scrive subito dopo i fatti, Nicola Roncalli, ha rivelato in Cronaca di Roma particolari sia sul bombardamento che sulla fucilazione. Ma Girolamo Fuduli, autore di due libri sulla battaglia di Milazzo, non ritiene attendibile nessuna delle fonti contrarie e ciò per una precisa ragione: «Nei giorni successivi al 20 luglio si ebbe un’altra battaglia, che fu però mediatica: i giornali settentrionali rilanciarono con lena queste dicerie su Garibaldi, tanto che il Times di Londra pubblicò l’8 agosto un’intera pagina riprendendole interamente. Ma sono rimaste semplici illazioni in quanto prive di documenti». Senza una prova certa sono in particolare le circostanze del bombardamento che Garibaldi ordinò dalla pirocorvetta Tūkory: secondo alcuni mirò alla fortezza, secondo altri fece sparare invece sulla cavalleria nel momento in cui essa usciva dalla porta occidentale. 
Le numerose incognite che ancora oggi aleggiano su Milazzo sono colpa non tanto di una storiografia perlopiù sbrigativa quanto delle posizioni preconcette sia di parte unitaria che revisionistica: più che analizzare ipotesi, la ricerca si è addetta infatti a dimostrare tesi, utilizzando i documenti al fine di sostenerle. Inevase sono rimaste molte questioni. Una per tutte: Garibaldi rischiò la disfatta perché per la prima volta non poté studiare il territorio, sicché ne incolpò pure Medici? In realtà, attento ogni volta a risalire un’altura e osservare a lungo il panorama prima di dare battaglia, nella Piana di Milazzo Garibaldi non poté che accontentarsi del tetto di una casa e dunque di una visuale ristretta. Gli errori strategici che commise, ordinando confusi assalti alla baionetta in campo aperto che costarono una carneficina, furono dunque conseguenza delle scelte di Medici e Bosco di attestarsi in pianura? Gli storici tacciono. Ma intanto litigano.
In una città divisa da sempre tra sostenitori e detrattori di Garibaldi, il caso è riesploso due anni fa quando l’allora sindaco Carmelo Pino, sollecitato dai neoborbonici, decise di intitolare una via centrale del Borgo a Ferdinando Beneventano Del Bosco, perché - secondo Pino - «ebbe il massimo riguardo per Milazzo». Diversamente che a Capo d’Orlando dove il sindaco Enzo Sindoni aveva cancellato dalla carta topografica Piazza Garibaldi, per essere poi sconfessato dal Tar che l’ha ripristinata, a Milazzo l’intestazione della via al capo nemico è diventata ufficiale. Fuduli ricorda di avere assistito alla cerimonia, ma dice che scappò via sentendo un noto docente universitario denigrare pesantemente Garibaldi «con toni da esaltato». Per quanto ha potuto, Fuduli si è opposto come altri alla decisione, definendola quantomeno inopportuna, mentre Cannistrà chiosa oggi che «l’iniziativa, dovuta a motivi elettorali nell’imminenza del voto, non premiò certo l’ex sindaco che alle urne fu bocciato». 
Le proteste di due anni fa si sono oggi del tutto tacitate. L’attuale primo cittadino, Giovanni Formica, dice di non aver ricevuto alcuna segnalazione e perciò ritiene che Via Del Bosco debba rimanere in vita: «Del resto non fu contestualmente intestato un piazzale al martire Alessandro Pizzoli?». È il posto da dove il 20 luglio è partita la passeggiata garibaldina, una cui tappa obbligatoria lungo la Marina è ogni anno la Statua della libertà, pur oggetto costante di imbrattamenti.
La statua della libertà
Ai lati sono murati due bassorilievi che ricordano i momenti milazzesi sui quali la retorica garibaldina ha steso un alone di epica leggendaria: il sonno del generale sul sagrato della chiesa di Santa Maria Maggiore e la morte scampata da Garibaldi in battaglia sull’ardore della sua spada o grazie forse all’accorrere di alcuni volontari che ne protessero la fuga. La ricerca non è nemmeno riuscita a stabilire se il generale quella sera mangiò pane e cipolle o, per lusingare Milazzo, la tipica “tunnina” salata. Si tratta di un piccolo quesito, è vero, che però neppure l’opera capillare di uno storico locale, Giuseppe Piaggia, arrivato subito dopo la battaglia per raccogliere testimonianze, è servita a chiarire per fugare il dubbio di un eccesso di garibaldinismo.
I bassorilievi della chiesa S. Maria Maggiore
Il napoletano Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento neoborbonico, considera la battaglia di Milazzo una mistificazione orchestrata nel quadro di una pregiudiziale massonica antiborbonica per la quale i siciliani erano da considerare tutti dalla parte di Garibaldi: «Ma è falso. La stessa popolazione di Milazzo non lo sostenne affatto, anzi lo avversò al punto che lui fu spietato con essa. Se la fece bombardare? Certo che sì. Non lo dico io, lo dicono storici come Giacinto de’ Sivo». Il quale però era borbonico. 
Il ruolo dei milazzesi non è stato in realtà indagato a fondo. Dice Cannistrà: «Una decina di anni fa ho avuto la possibilità di constatare la sopravvivenza nei vecchi contadini della Piana “rossa” di Milazzo del mito di Garibaldi liberatore tradito dai politici». Questa coscienza, che salva l’impresa garibaldina e condanna l’azione politica unitaria, nasce nell’immediato Dopoguerra con il Blocco del popolo, la lista di sinistra che per simbolo scelse il volto di Garibaldi. Nel tempo l’immagine è però sbiadita. Il generale addormentato sul sagrato nell’ultima icona della galleria siciliana assurge così a simbolo del sonno che Tomasi di Lampedusa tacciava come il male endemico dei siciliani.

BRONTE
Niente si è saputo a Bronte del processo a Bixio celebrato il 5 febbraio dell’anno scorso a Milano, trent’anni dopo quello tenuto al collegio Capizzi. Padre Giuseppe Zingale (già rettore dell’istituto nel quale il luogotenente di Garibaldi avrebbe pernottato), costretto a 97 anni su una sedia a rotelle, ama lasciarsi condurre, unico inquilino, tra i lunghissimi corridoi ormai semideserti e sempre torna a sostare nel vasto auditorium che rivede gremito come nell’ottobre 1985, quando una giuria di storici e giuristi assolse Bixio del massacro di cinque rivoltosi, così come un anno fa ha sentenziato l’altrettanto autorevole tribunale milanese. Non poteva finire diversamente: nell’una e nell’altra assise l’imputato è stato quello sbagliato, perché Bixio non applicò che il codice di guerra e non obbedì che a una precisa disposizione. Il vero accusato avrebbe dovuto essere semmai Garibaldi, che l’ordine di una punizione immediata ed esemplare impartì senza scrupoli ubbidendo a sua volta a una perentoria imposizione del consolato inglese cui si rivolsero i proprietari della britannica Ducea di Nelson nel timore che le terre rivendicate dai “villici” fossero anche le loro.
Il proclama di Bixio
Don Zingale ricorda bene i giorni del “processo”, che fu appassionato, clamoroso e dagli echi nazionali. A ricordarglielo dopotutto, all’ingresso dell’auditorium, campeggiano ancora i poster a muro dell’evento insieme con l’Avviso e il Proclama che Bixio fece affiggere in paese e i cui originali biancheggiano a bella vista nella Biblioteca borbonica annessa al collegio. Se non bastassero, troneggia anche un pezzo unico in Sicilia: il ritratto gigante di Ferdinando II che mani sicuramente borboniche portarono da Palermo a Bronte e che qualche anno fa seguaci duosiciliani sono venuti religiosamente a visitare celebrando pure un rito. «Tanta gente ci fu allora qua dentro» ricorda don Zingale. La stessa gente che in verità, se processo doveva essere, non poteva che salire essa stessa sul banco degli imputati raggiungendo Garibaldi, perché fu il notabilato di Bronte a consegnare a Bixio i capi della rivolta, né supposti né sospettati ma scelti tra i reprobi, fra cui l’avvocato liberale Nicolò Lombardo e lo scemo del paese, reo di dileggiare tutti, galantuomini compresi. 
La biblioteca borbonica
Grazie a loro, a perpetuo monito contro nuove jacquerie, venne intestata a Bixio una via, non a caso proprio di fronte la chiesa di San Vito, sul cui piano i presunti rivoltosi furono fucilati. Naturalmente anche Garibaldi ebbe la sua via, ben più centrale, nonché re Umberto che intitola addirittura il corso principale. Una parte di Bronte scagionò dunque Bixio già 125 anni prima che venisse sottoposto al giudizio della storia Ma l’altra metà lo ha ritenuto, a ragione, colpevole quantomeno di lesa umanità, la stessa accusa che Bixio mosse al paese e che «brucia ancora», a dire del giovane presidente della Proloco Dario Longhitano, per il quale il processo a Bixio non è mai finito. Un po’ anche per questo, permanendo la divisione delle coscienze, Via Nino Bixio - istituita per puntiglio proprio lì, nel luogo del martirio e della sepoltura in Via Campo dei fiori - non poteva durare. E così quattro anni fa l’allora sindaco Pino Firrarello l’ha fatta rinominare (ancorché nella zona venga ancora chiamata come prima) mettendo fine a un affronto diretto anche al monumento in ferro inaugurato nel 1985 in concomitanza del “processo” e posto ai piedi della collina di San Vito, in faccia alla via stretta e famigerata. Opera dell’artista locale Domenico Girbino, il monumento raffigura in uno stato di totale abbandono, di ruggine e in mezzo alle erbacce, un uomo cadente appena fucilato, chiuso in una gabbia di cerchi, metafora della libertà mancata. 
Libertà è una parola chiave a Bronte. Nel film del 1972 di Vancini Bronte, cronaca di un massacro, l’avvocato Lombardo spiega a un ufficiale garibaldino che in Sicilia è sinonimo di pane e di giustizia: «Quando voi dite di portare la libertà, la gente intende la terra». In nome della terra promessa da Garibaldi i brontesi massacrarono infatti sedici “sorci”: Pensarono di ribellarsi ai loro oppressori e di meritare senz’altro l’elogio del dittatore, ma non capirono che, al pari della libertà, anche il concetto di oppressione si prestava a significati divergenti, come quello di rivoluzione. 
Furono certamente le interpretazioni date alle parole a segnare “i fatti di Bronte”, deliberatamente mai meglio definiti perché rimanessero nel generico. L’equivoco non è cessato. La vecchia Via Bixio è stata infatti capziosamente chiamata “Via Libertà”: a perpetuo fraintendimento dunque - come del resto suonano le epigrafi del monumento ferreo e delle lapidi murate nel 2010 a San Vito.
Le lapidi nel piano di San Vito
In una delle due i nomi di “cappelli” e “berretti” sono riportati insieme perché riconosciuti tutti “vittime del cruento eccidio”, dando perciò pure alla parola “eccidio” un ulteriore duplice riferimento: salvo nell’altra lapide specificare che “vittime di una giustizia sommaria, applicata in guerra in nome di una presunta ragione di Stato”, furono i cinque brontesi fucilati. Che in sovrappiù sono ricordati nel cippo monumentale con parole altrettanto ambigue ed enigmatiche: “Ad perpetuam rei memoriam, che nell’agosto 1860 donò di cittadini brontesi la vita in olocausto”. Parole dettate dall’intento di non irritare la vecchia classe “ducale” contrapposta a quella detta “comunista”, le due anime storiche di una città che ha avuto allo stesso tempo vittime e carnefici con i cui spettri non ha smesso di confrontarsi. Ma per Franco Cimbali, storico del Risorgimento e ultimo erede di una cospicua famiglia di fede regia, «nessuno oggi ha interesse a riesumare quei fatti. Nemmeno la scuola». Se ne è occupato invece uno studioso revisionista catanese, Placido Altimari, che quest’anno ha pubblicato un libro, Bronte, dove riconduce “i fatti” alle multireiterate ragioni di una crudele guerra di sopraffazione della Sicilia. 
Per un altro aspetto se ne è occupato anche Leonardo Sciascia che ha letto in una nuova luce la novella intitolata in maniera antifrastica giustappunto “Libertà” di Giovanni Verga. Lo scrittore etneo spacciò lo scemo passato per le armi per un nano e ignorò del tutto Nicolò Lombardo: due colpe gravi, secondo Sciascia, mistificazioni intenzionali montate a tutto vantaggio del suo ceto di appartenenza, perché parlare di nano e non di pazzo significava, «dissimulando in una menomazione fisica una menomazione mentale», incolpare un «essere pieno di malizia e di cattiveria» e non chi è «investito di sacertà» e perché tacere di Lombardo significava tenere all’oscuro i catanesi che ben lo conoscevano come fervente antiborbonico, a differenza dei suoi delatori tutti legati ai nemici di Garibaldi.
Dopo 156 anni rimane dell’eccidio l’opinione condivisa che, conquistata ormai la Sicilia e sul punto di lasciarla, Garibaldi avrebbe ben potuto mostrarsi indulgente con i siciliani non solo di Bronte ma di molti altri Comuni etnei che si erano sollevati usando i suoi mezzi e confidando sui suoi decreti. Quando due anni dopo il generale tornerà in Sicilia, il processo ai veri rivoltosi (che diede apertamente al primo il senso di una decimazione) sarà in pieno svolgimento e si concluderà l’anno dopo con 37 condanne anche all’ergastolo. Naturalmente Garibaldi si guarderà bene dal passare da Bronte e dagli altri paesi normalizzati da Bixio, forse perché consapevole o forse no di aver posto la sua firma alla prima strage di Stato della nuova Italia.