venerdì 9 giugno 2017

Il male non diagnosticato di Mariannina Coffa



Il convegno di tre anni fa a Noto, il concomitante libro di Marinella Fiume e Biagio Iacono Voglio il mio cielo, il romanzo, riedito ancora nel 2014, di Maria Lucia Riccioli, Ferita all’ala un’allodola, non sono bastati a restituire di Mariannina Coffa un quadro definitivo neppure della sua stessa biografia oltre che della sua ricerca poetica, l’una e l’altra percorse da cesure, rivolgimenti e ricominciamenti ancora avvolti entro un quadro di interrogativi. 
Chi fu davvero la poetessa netina è domanda che resta pressoché un mistero, né il suo epistolario, in parte reso pubblico da Fiume e Iacono, aiuta a comprendere un carattere pesantemente condizionato dalle circostanze non si capisce se più ambientali o esistenziali. Fu dunque una isterica, seriamente affetta da turbe mentali finita nelle mani di mesmerici praticoni locali, che maneggiando sieri omeopatici, la portarono alla morte ad appena 37 anni? E, prigioniera soprattutto di se stessa che dei suoi parenti, poté davvero farsi massona e occultista rimanendo nella remota Ragusa e poi nell’appartata Noto, al punto da mutare la sua vena poetica in una impronosticata fede verso l’occultismo, quando dapprima appare interamente volta a un sentimento tirtaico (anche questo da definire ancor più perché nutrito senza che nella pratica si sia avuta alcuna azione pubblica) e poi diviene intimistica nelle forme più estenuate e svenevoli, così da assecondare lo spirito del secondo Romanticismo?Ancora oggi la critica la chiama “Saffo netina” e “malmaritata”, nel primo caso mancando di ricordare che fu una donna decisamente eterosessuale, tanto da dire al suo amato di essere pronta a lasciare il marito e nel secondo caso reiterando un cliché che relega la poetessa dentro un milieu tutto ottocentesco e siciliano nel quale il matrimonio comandato è un istituto accettato e osservato per il maggior credo dell’unità familiare. Mariannina dice sì al rozzo proprietario terriero ragusano e si rassegna a perdere il suo Ascenso non per obbedienza ma per amore nei confronti soprattutto del padre-despota. Che, secondo le ricerche della Fiume e Iacono, lei disprezza e odia fino a meditare la vendetta e maledirlo, ma che pure in una poesia del 27 dicembre 1861, quando avrebbe da due anni maturato la ribellione alla sua famiglia e a quella coniugale, è teneramente visto come “voce dell’anima”, destinatario di versi struggenti nella consapevolezza del dolore di una vita che soprattutto rimpiange il passato: “No, mio diletto Genitor, non muta / L’anima con gli eventi e la fortuna: / Presso al suo dipartir, cerca e saluta / Il primo sogno che infiorò la cuna; / Un nome cerca, una speranza, un detto, / Un fido pegno dell’antico affetto”.
Alla luce di parole così filiali, la famiglia che, rientrata Mariannina a Noto per i primi segni di instabilità mentale, la abbandona e non le presta nessun aiuto economico, strappandole anche il figlio, appare un’accozzaglia di turpi retrogradi che nella figlia non vedono nemmeno la pazza ma la disonesta, così come viene dipinta, o rappresenta invece la casa che è lei a lasciare preferendo vivere presso un medico che la cura con le formule, che chiederà di essere rimborsato e che sarà accusato della sua morte? Una più approfondita ricerca potrebbe portare a stabilire che la scelta della poetessa di votarsi alla medicina naturale di nuova moda, agli esperimenti protoanalistici e di studio della psiche, all’ipnotismo e al sensitivismo non fu frutto di una scoperta nell’ambito delle nuove conoscenze intraprese, ma il tentativo non del tutto convinto di evadere dal suo stato di prigionia, di farsi sognatrice, anche estatica ed isterica, perché poetessa: nel proposito di trasfondere la sua vocazione lirica anche e persino nella materia, più scientifica che spirituale, delle neuroscienze e delle nuove frontiere della medicina alternativa.E se avessero avuto ragione i parenti a ritenerla quantomeno bipolare se non schizofrenica? Certamente non conducente né in linea con il suo tempo appare una donna che ottempera al verbo della volontà paterna in fatto di matrimonio, poi scrive per decenni lettere e poesie d’amore al fidanzato che ha dovuto lasciare e infine parla di divorzio, che invoca e di fatto ottiene lasciando, per il suo stato di salute, la casa coniugale. Occorre saperne di più. Solo allora è possibile godere della sua poesia, ottocentesca e classicista, a volte pesante e pedante, ma anche illuminata spessissimo dal genio dell’ispirazione.