venerdì 14 luglio 2017

E Sciascia smascherò il fascismo ibleo

Mussolini con Pennavaria al suo fianco a Ragusa nel 1924

Quando nel 1985 Leonardo Sciascia visita il palazzo del governo di Ragusa, le tempere di Duilio Cambellotti (provvidenzialmente scampate a un farneticante progetto di distruzione e da poco restituite alla luce con la rimozione dei drappi neri che per decenni le hanno tenute nascoste a un pubblico evidentemente disposto a tollerare tombini con fasci littori ma non opere d’arte sia pure del Ventennio) gli si rivelano come pagine di una storia che egli sente di dovere assolutamente ricostruire e raccontare: la storia non solo delle tempere e del loro “valoroso artista pittore”, ma anche del palazzo che le ospita, nonché della prefettura che vi ha trovato sede e più ancora della città e dei suoi abitanti che quelle tempere e quella prefettura hanno voluto.
La visita spinge Sciascia a scrivere la nota-saggio che due anni dopo Bompiani assocerà alle foto di Giuseppe Leone nel volume Invenzione di una prefettura e che più che una riflessione sulla fabbrica e sull’opera del maestro romano ci appare una disputa sul fascismo, quello ibleo, che fu il primo a nascere in Sicilia e che come tale fece guadagnare a Ragusa la “dignità” di capoluogo di provincia e quindi il “blasone” di sede di prefettura.
Sciascia decide di vedere le architetture di Tarchi, il progettista del palazzo, e le decorazioni a fresco di Cambellotti per indagare, attraverso le loro opere, il ruolo avuto da Filippo Pennavaria, il gerarca fascista ragusano al cui impegno presso il Duce la tradizione attribuisce il merito dell’istituzione del capoluogo oltre a quello di committente dei due artisti romani, Tarchi e Cambellotti. 
A Sciascia interessa Pennavaria per via di una mistificazione della storia certificata dalle tempere di Cambellotti al quale lo scrittore rivolge un biasimo pari a quello riservato a Pennavaria per essersi piegato a considerarsi un mero “collaboratore artistico” del gerarca. Che nell’opera di Cambellotti risulta anche il padre del fascio ibleo. Questa pretesa paternità Sciascia la certifica alla vista del pannello centrale del Trittico dedicato alla Marcia su Roma che decora il salone d’onore, dove Pennavaria appare in divisa di miliziano: raffigurazione, nota Sciascia, che “come Hitchcoch nei suoi film e gli antichi committenti nelle pale d’altare” tradisce quanto pressante sia stata la sua ingerenza e la sua presenza. Lo scrittore suppone che se la celebrazione di Pennavaria in figura di rais locale fosse stata lasciata alla libertà di Cambellotti, sarebbe finito nel Trittico della Vittoria anziché in quello della Marcia, perché al fronte Pennavaria c’era stato davvero mentre alla Marcia su Roma non aveva partecipato affatto. Ancora di più la raffigurazione appare la consacrazione di un titolo storico osservando il gerarca dipinto in una posizione di evidenza più alta rispetto a tutti gli altri, inferiore solo al troneggiante e supremantico Mussolini. 
Cambellotti dunque è costretto a tributare al suo committente (che a sentire Sciascia ha praticamente truccato l’appalto per favorirlo) una indebita e certamente pretesa patente di fascista della prima ora che a Pennavaria, “fascista della seconda ora”, “fascista della sesta giornata”, manca invece con suo grande disdoro. La storia dell’arte conosce già questo tipo di imposture. In Consacrazione di Napoleone I, l’artista Jacques-Louis David dipinge la madre dell’imperatore al centro della tribuna d’onore e della grande tela esposta al Louvre. Ma in realtà alla cerimonia di incoronazione lei non è stata presente. Nondimeno a lei importa che lo sia agli occhi della storia. Allo stesso modo, Pennavaria inganna il mondo e strizza un occhio alla storia.
Sciascia non ci sta e dunque dà conto della vera storia della nascita del fascismo a Ragusa. Nega a Pennavaria il riconoscimento di esserne stato il padre e ne smaschera il protervo tentativo di intestarsi un’iscrizione al partito fascista anticipata di tre anni perché corrisponda alla data di fondazione del Fascio di combattimento. Senonché l’iniziativa non è stata di Pennavaria quanto di giovani fascisti che però l’apologetica ufficiale ragusana si occuperà di relegare nell’ombra in modo da magnificare la figura e l’azione del benemerito gerarca. Un “fascista all’acqua di rose” lo battezza Sciascia, “di quelli che si erano adoperati al bene generale” per distinguerli da “quelli che avevano perseguito il proprio”.
Non è Pennavaria dunque a portare il fascismo a Ragusa, prima città siciliana, ma per Sciascia responsabile è il dannunzianesimo, di cui si fa alfiere un giovane ardente ragusano reduce dall’impresa di Fiume, Totò Giurato, che assieme a un altro dannunziano ibleo, Totò Battaglia, si rende protagonista di una “singolare avventura” che richiama quella stessa del Francesco Maria di Brancati e che integra, a Ragusa come a Pachino, quello spirito fascista che così recupera scaturigini addirittura letterarie. La singolare avventura è quella di finire martiri e vittime sacrificali di una volontà generale che dannandone la memoria vuole riconoscersi nel fascismo attraverso il solo Pennavaria. Il destino dei due veri fondatori della sede ragusana del fascismo richiama in Sciascia quello di un altro martire fascista, Pietro Bolzon, giornalista molto legato alla sezione di Ibla: “Come i due Totò dalla vita del fascismo ragusano, scompare Pietro Bolzon dalla storia del fascismo nazionale. Più da fidarsene erano venuti fuori i Pennavaria, i notabili di ogni notabilato. La gente insomma che aveva qualcosa da perdere: e cioè qualcosa, col fascismo, da guadagnare”.
E non solo col fascismo. Pennavaria, fascista in doppio petto, uomo di tante staffe, sarà eletto dopo il 25 aprile, con vasto consenso, deputato nelle file monarchiche e sopravvivrà, con grande meraviglia di Sciascia, alla stessa forma di Stato la cui caduta avrebbe dovuto travolgerlo per primo. A Sciascia in effetti non piace né l’ultimo Pennavaria né il primo, quello che, sostenuto dagli “industriali del caciocavallo”, viene designato ad assumere la guida del neonato fascismo ibleo improvvidamente e pericolosamente caduto nelle mani di due giovani di tendenze socialiste come Giurato e Battaglia, che amando D’Annunzio non più di Rapisardi sono perciò tenuti in sospetto dalla borghesia locale.
Ma Sciascia, a ben vedere, più che a Pennavaria, è alla cultura ragusana che rivolge l’accusa di essersi bagnata come l’Italia nell’acqua di rose: “Del resto - dice caustico - al momento che serviva ecco la testimonianza dello storico a certificare che Pennavaria c’era stato; del che possiamo non meravigliarci poiché la piccola e la grande storia, per imposizione o per adulazione, di testimonianze simili abbondano; e specialmente sotto le tirannie”.