martedì 18 luglio 2017

Fenomenologia della Sicilia babba


Si narra che quando i catanesi decisero di darsi il titolo di sperti, dovendo trovare un contraltare necessario a legittimarli, convennero di affibbiare ai siracusani il nomignolo - avrebbe detto Verga - di babbi, il cui significato dopotutto non è molto diverso da quello  di  malavoglia.
E siccome Ragusa era parte della provincia siracusana, nacque d’emblée la Sicilia babba, come Minerva già in armi dalla testa di Giove, cioè bell’e pronta. Una volta creata, i catanesi si raffermarono nel giusto trovando nell’agiografia che pure Lucia di Siracusa divenne santa dopo un viaggio a Catania sulla tomba di Sant’Agata a pregare per la madre malata e compiere insomma atto di sottomissione. Che per essere avvenuto nella sfera celeste non poteva non portare il crisma della parabola.
Ma anche la mitologia, oltre che la natura, dava loro ragione in fatto di diversità, essendo ninfe, giganti e divinità uguali al paesaggio: nero a Catania e bianco a Siracusa, cavandosi lì la pietra lavica e qui il calcare tenero. Che forse infatti l’estenuata Aretusa non è il contrario dell’orrorifico Tifeo, e il mite Cyane il contrappunto del focoso Etna? E il placido Dafni o la languida Lighea non sono l’opposto del malmostoso Efesto? E un Polifemo innamorato può mai avere qualcosa da spartire con uno svenevole Alfeo?
Ma siamo poi sicuri che la Sicilia babba sia nata da un moto di grandigia dei catanesi decisi ad alzare muraglie di Semiramide a nord e a sud per crearsi una enclave che nulla sentisse del messinese e del siracusano e che niente avesse di una vagheggiata Mekone siciliana dove tutti i siciliani potessero vivere in uguaglianza e felicità come gli dei e gli uomini nella piana di Corinto? Sciascia, qui cadendo in taglio, nota che anche Catania, vista da Palermo, fa parte della Sicilia babba figurando tra “le province orientali”; talché, giungendo dai territori dell’Ovest, alle porte di Vittoria si ha l’impressione di “valicare un confine”, di arrivare all’”argine contro cui si spengono, non senza qualche impennata, le ondate mafiose”. 
Sperta, anche se “sedicente”, risulta quindi a Sciascia la sola Sicilia occidentale. Senonché anch’egli si lascia irretire nel gioco sempre di moda del nord e del sud, dove vince chi riesce a trovare un ennesimo sud, o in quello ancor più di moda del cannocchiale, che premia chi come Sciascia vede da lontano più cose insieme. Alla fine l’uno e l’altro gioco si rivelano un ribobolo di idées reçues, idee, direbbe lo stesso Sciascia, “ricevute e poi ripetute”, che corrono grasse in Sicilia creando luoghi comuni capaci di sfidare gli articoli di fede e diventare verità storiche: come quella secondo cui Giuliano fu ucciso a Castelvetrano o l’altra che Pisciotta morì con un caffé avvelenato. Imposture che, come “consigli d’Egitto”, in Sicilia vivono pure fino a mille anni.
Non è forse un’impostura fare passare, da catanesi e palermitani stavolta inopinatamente d’accordo, Siracusa per babba? Altro che babba, storicamente parlando. Gelone, tiranno di Siracusa, quando negò il suo appoggio ad ateniesi e spartani nella guerra contro i Persiani (arrivando a dire che, non avendo egli il comando supremo, “l’anno perdeva la primavera”), costipò una nave ammiraglia di ricchissimi doni e la fece ancorare tra le procelle dove le flotte nemiche si sarebbero scontrate, con l’ordine che fosse data in regalo alla potenza vincitrice. Anche i catanesi, che hanno aperto la porta brancatiana al commercio e all’inganno, si sarebbero complimentati, perché se una dote i siracusani vantano come lascito degli avi greci questa è la metis, che è l’intelligenza unita alla premunizione: ieri sbertucciavano gli ateniesi assalendoli quando erano assediati e oggi riempiono la costa di ville, nate tutte abusivamente, per anticipare i vincoli paesaggistici. Chiamali babbi.
E se oggi vive a stecchetto, ieri Siracusa poteva fare il pavone signoreggiando su una Catania che ogni tanto spopolava per il solo piacere di ricordarle chi era a comandare. Dimodoché Seneca non avrebbe mai potuto immaginare che la città da lui indicata nella Lettera a Marcia come paradigma mutevole e multiforme della vita, descrivendone le bellezze nello stesso tempo in cui ne rilevava le brutture - e con esse i personaggi di cangevole carattere come Dionigi - sarebbe un giorno potuta diventare stolida.
Certo deve essere molto decaduta Siracusa se si è guadagnata una condizione di cui uno come Bufalino, vivendo nella zona più babba di tutta la Sicilia babba (“particolarmente babba”, tiene a precisare Sciascia), è stato costretto ad ammettere l’esistenza, non vergognandosi però di riconoscersi in essa, stimandosi anzichenò abitante di un’Arcadia dove occorre essere intelligenti per arrivare: “Una provincia che gli altri siciliani chiamano babba con un sorriso. Babba vuol dire bonaria, innocente, ed è epiteto meritato se è vero che qui negli ultimi dieci anni il numero dei morti ammazzati è vergognosamente basso rispetto a qualunque altro sito dell’isola”.
Ma babba, con riferimento alla Sicilia, come avverte ancora Bufalino, vuol dire anche “mite, fino a sembrare stupida, cioè tonta, come per dileggio ci chiamano gli spavaldi e i facinorosi”. Stupida Siracusa e “particolarmente” Ragusa? “Curiosa contraddizione - concede Sciascia - di considerare stupida, e particolarmente stupida, questa parte della Sicilia di cui contemporaneamente si riconosce e si esalta la tranquillità del vivere, il benessere, l’eccellenza dei prodotti. Evidentemente una sorta di masochismo presiede a un così contraddittorio giudizio”.
Un’Arcadia quindi la Sicilia babba, posta oggi, geograficamente e feudalmente, sotto Catania. Purtuttavia in questa Arcadia Goethe scelse di non posare il suo passo romantico, Consolo ha preferito rinunciare al suo progetto di viverci “per tutta la vita” trovando in Siracusa (la “screziatura d’oriente” di Sciascia) una città “marcia e putrefatta” e Vittorini risolse di non tornare pur essendoci nato e vedendo in essa giustappunto “un’Arcadia dove l’inverno aveva abitato”, ma le cui “bellezze che parevano eterne il capriccio degli uomini ha reso d’un tratto, dopo gloriosi secoli, così precarie”.
Eppure ci sono bellezze che hanno tutta l’aria di volere durare eterne come la porta di Dante: una è la tragedia greca, che è forse la sola proprietà siracusana sulla quale i catanesi non fanno che gettare occhiatacce di invidia. Ma la tragedia greca, a sentire Brancati, nato nel fondo della Sicilia babba e trapiantato imberbe nel capoluogo di quella sperta, ebbe un’origine etnea: il signor Giovanni Scalia, catanese, ottenne che il suo Agamennone (che fu guarda caso la prima tragedia del ciclo siracusano) fosse rappresentato al teatro greco di Taormina da una compagnia di attori catanesi che però il sottosegretario all’Istruzione pubblica sostituì insieme con “il primo ideatore degli spettacoli classici nei teatri antichi”. Che fu perciò un catanese.
Chi vuole può ravvisarvi le ragioni perché Messina e Siracusa uniscano le palme in un ideale abbraccio tra babbi al cui spirito però certamente non pensarono né Antonello né Paladino né gli altri artisti peloritani quando per quattro secoli sono andati dallo Stretto a bagnare i panni sulle rive dell’Anapo per lasciarvi i capolavori che hanno riempito il Bellomo.
Ma se nemmanco gli spettacoli classici, letterariamente s’intende, sono siracusani, come pure esogena è la tragedia, portata dalla madrepatria oltremare, il mimo è però interamente dei colori bianco e azzurro-rosa che hanno i monti siracusani, splendenti - lo dice Brancati - “fin sul mare di Catania”. L’ibridazione di tragedia e mimo ha creato quella particolare figura di “tragediatore” che è il siracusano, diverso da quello palermitano dipinto da Sciascia, “che tiene i familiari in triboli”, o da quello individuato da Camilleri, che “organizza beffe e burle”.
A stare a una definizione che i siracusani non amano molto, “Siracusa è piccola in sua cerchia, grande nel bel fare (o mal fare, secondo un’altra versione), e vi s’annidano astuzia greca e punica perfidia”, ciò che forma appunto il “tragediatore” siracusano. Il quale in questa veste appare tutt’altro che babbo, qualità che riesce nondimeno più sgradita perché non vi rientrano né l’astuzia né la perfidia. Brancati, per esempio, non poteva certo chiamare babba la Sicilia dov’era nato, e infatti non l’ha mai detta tale, ma quando si è trattato di mandare Francesco Maria da Pachino a Catania a prendere libri di D’Annunzio non ha usato eufemismi per bollare come “stupido provinciale” lui ed elevare un volgare cocchiere catanese al rango di “maffioso”, che è il superlativo di sperto.
Brancati non doveva avere però del tutto chiara la distinzione tra Sicilia babba e sperta perché andando a Palermo trovò che era “di peso uguale” a Catania, epperò si accorse di qualche differenza se auspicò al centro della Sicilia “una controdanza dei bell’ingegni” delle due Sicilie così da avere “l’incontro degli esseri più strani e diversi”.
Chi ebbe le idee tanto chiare quanto preconcette fu invece il comisano Salvatore Fiume, che si diceva siracusano perché alla sua nascita le province erano ancora congiunte. Fiume nutriva una indomita avversione nei confronti dei ragusani tanto da inventare addirittura un romanzo, I sogni di Luisa, per dire quali fossero “le doti del fesso”, cioè del babbo e pour cause del ragusano: “Gente moscia, lenta e indolente, con la mano molle e i piedi di piombo”. Per Fiume anche nella provincia più babba di tutte c’è un posto ancora più babbo che è Ragusa, perché “non succede mai niente e per fare accadere qualcosa occorre proprio qualcuno che venga da Palermo o da Comiso”.
Sarà babbissima Ragusa, a buon pro dei siracusani che pure non hanno che lo stesso sangue: di gente unita dalle montagne, dal miele, dalle buone maniere, dalla pasta fritta e dal caciocavallo, che alla fine finisce un po’ derisa come le vecchie nobildonne che si presentano in società con i trini e il cammeo - la testa reclinata sdegnosamente indietro come a specchiarsi nel passato - pretendendo il baciamano pur senza un solo anello ormai al dito; gente babbissima e tuttavia discendente di quei siracusani che, messo il mondo sotto il proprio ferro, si concedevano il fervore di coltivare le belle arti quando Catania e Palermo erano bivacchi di pastori sicelioti e caravanserragli di mercanti fenici, tanto che agli ateniesi prigionieri nelle latomie rendevano salva la vita solo se sapevano recitare Euripide. Ma questo succedeva nel quinto secolo avanti Cristo. Oggi, come i siciliani di Petrarca, “fur già primi e quivi eran da sezzo”.
(Da "L'isola che trema", Avagliano)