domenica 23 luglio 2017

Il vento di Pachino che risospinse Brancati


Vitaliano Brancati visto da Bruno Caruso
Salvatore Pantano era un piccolo signore che per tutta la vita aveva insegnato agli alunni di scuola media. Di quella Pachino d’antan vista da Vitaliano Brancati bianca, polverosa e piena di sole, “mucchio di casette rannicchiate”, era rimasto l’ultimo testimone. Aveva insegnato nella scuola Brancati, dove un piccolo busto campeggia a memoria dello scrittore del riso e del pianto. Del quale Pantano sapeva tutto.
“I ricordi quando sono molto vivi diventano pensieri” diceva Brancati. Che a Pachino non è più né un ricordo né un pensiero sebbene abbia scritto pagine di tenero struggimento dettate da quel mito dell’infanzia che in lui ha agito come un balsamo. Nel 1934, l’anno del disinganno e del disincanto, del ritorno in Sicilia, del ripudio del fascismo e dell’esecrazione di se stesso in orbace, scriveva dei suoi primi anni: “In nessuna circostanza della mia vita è accaduto mai che si ripetesse anche per un attimo quel senso di equilibrio felice. Ogni gioia, ogni ora di sicurezza non è che la felicità di quel tempo che torna sempre meno chiara e forte, come l’eco di una tromba che lentamente si spegne in mezzo alle montagne”.
Scrittore della memoria, Brancati ha avuto in sorte di essere dimenticato presto dai suoi compaesani. Un trattamento che Corrado Di Pietro (artefice negli anni Novanta con Pantano di un Comitato pro-Brancati durato il tempo di una polemica con il Comune) attribuisce alla “maldicenza”. Che ha trovato posto fisso nella piazza grande del paese, dove tutto può starci, anche questo genere di “piacere”. Ma se l’opera dello scrittore è lì a testimoniare un attaccamento quasi morboso al paese, il bilancio delle iniziative in sua memoria è più rosso dell’orologio d’inizio Novecento della chiesa madre con il quale il nonno e il bisnonno di Vitaliano regolavano la propria dieta.
A Pachino le tracce di Brancati sono labili. In periferia, nel quartiere San Corrado Pianetti, balugina una piccola strada chiamata ”Via V. Brancati”. È lunga non più di venti metri ed è difficile da trovare. La casa natale, in Via Lincoln, è stata abbattuta per fare spazio a una banca. La farmacia del prozio Corrado in Via Garibaldi (la mitica farmacia di Singolare avventura di Francesco Maria) è diventata un negozio. Lo scrittore ilare e icastico secondo il quale “una volta o l’altra un architetto sarebbe venuto ad aggiustare i quartieri e fare di Pachino il più bel paese del Sud”, non ha avuto soverchi riconoscimenti nella sua cittadina, pure della quale il 10 aprile del ‘51 così scriveva alla moglie: “Domani parto per Pachino a bere la medicina che i libri consigliano: il cosiddetto bicchiere di aria natia”.
Dei Brancati è sopravvissuta a Pachino oltre i novant’anni la cugina Graziella Ciavola, che per anni si era detta la ragazza di cui Vitaliano si era innamorato e che lei avrebbe pure sposato se non avesse avuto, al contrario del fratello Corrado, quel caratteraccio sempre nero. Di Vitaliano la cugina Graziella conservava un sonetto che Brancati le avrebbe scritto appositamente - anche lei, come gli altri, personaggio da romanzo brancatiano, magari una delle sorelle-signorine di Giovanni Percolla; anche lei degna attrice di quel teatro aristofanesco che da sempre è Pachino, ribalta di una commedia umana che propone granguignoleschi replicanti. Tutt’oggi i pachinesi sembrano sempre sulla scena, preda del gusto per l’arte più sopraffina che è la finzione.
“I pachinesi - ha lasciato scritto Brancati nel racconto più nativo, Singolare avventura - come i siciliani in genere, ma con qualcosa di particolare, avevano tutti una grande vocazione all’arte, cercavano tutti la Bellezza”.
Anche Graziella Ciavola ha dedicato la vita all’arte studiando e insegnando musica: una musa, quella del suono e del canto, che ha ammaliato generazioni di pachinesi e scandito la belle époque di una Pachino “più allegra che mai con quel frastuono di campane, stecche di persiane, stoffe, scatole di latta, voci, grida, canzonette e suoni di chitarra”, popolata di farmacisti-poeti e barbieri-orchestrali (“questi barbieri che non sono mai solo barbieri”), riempita di serenate e serate goliardiche. Brancati osservava questo mondo con i suoi occhi di bambino, uno dei quali gli si chiuse per sempre quando, morto il nonno Vitaliano, “il più bel signore dal pizzo grigio”, scoprì che “le età dell’uomo sono due, “la fanciullezza e la maturità”, e che la sua vita non era più “sotto il dominio” della prima.
Vita come teatro nella Pachino dei Brancati. Nel 1904 il fratello del padre, lo zio Marino, dovette sostenere un duello finto e procurarsi una ferita vera perché la moglie gli accordasse il ritorno a casa, ignorando che il duello vero dal quale si aspettava che il marito uscisse vincitore era stato da lui annullato con una conciliazione uguale a una resa. 
Ma più di Graziella, a dedicare la vita alla musica, fino a morire a 29 anni, era stato suo fratello Saverio, un geniale compositore da duecento brani, morto a Roma nel ‘46 arrotato da un tram dove stava salendo per andare alla Società dei diritti d’autore e depositare le sue canzoni già richieste dall’Eiar di Catania. Saverio si era rivolto al già affermato cugino Vitaliano perché spendesse a Roma una parola in suo favore, ma lo scrittore non gli aveva dato nemmeno risposta. Ad ogni modo il fratello di Graziella non aveva avuto granché tempo per alimentare alcun rancore né la stessa Graziella ammetterà contrasti tra i due.
Ma a un altro cugino, Sasà Brancati, medico e anche lui naturalmente appassionato di poesia, Vitaliano fu profondamente legato, al punto che nell’aprile del ‘51 andò appositamente a Pachino per farsi visitare da lui perché soffriva, forse fin dalla nascita, di una cisti al polmone sinistro che col tempo gli si era gonfiata tanto da essere visibile anche sotto la giacca. Era decisamente benigna ma gli veniva fatto scrupolo di tenerla sempre sotto osservazione. Lui non dava soverchio peso al suo male: “I mali sono come i bambini: se si sentono osservati si ringalluzziscono”. Ma certamente doveva impensierirlo non poco l’ingrossamento progressivo di quella tumefazione. Tant’è che fece testamento. Un amico chirurgo si disse pronto ad operarlo asportando interamente la cisti, ma prima di dire sì Brancati volle farsi vedere da Sasà, un semplice medico di Pachino. Un gesto dopo tutto molto siciliano e molto pachinese, che prova peraltro quanto Brancati fosse legato ai suoi affetti e alle sue radici. Andrò a trovarlo, non più in diligenza o in vettoriale ma in macchina, e fu l’ultima volta che vide il suo paese. Il cugino medico confermò la diagnosi circa la natura benigna della cisti, ma suggerì un’asportazione non totale perché, essendo di grosse dimensioni, poggiata com’era sul cuore, avrebbe potuto determinare uno scompenso. Brancati si rivolse anche ad un altro lontano cugino, Raffaele Brancati, eminente oncologo che in estate soggiornava a Marzamemi dove, in una villa demaniale avuta in concessione dallo Stato, aveva pure avviato un misterioso centro di ricerca sul cancro. Il suo consiglio fu uguale a quello dell’altro cugino. Ma Brancati si risolse nel senso di mettersi nelle mani dell’amico chirurgo torinese Dogliotti, che asportando tutta la cisti provocò complicazioni cardiache tali da non potere evitare la morte, avvenuta sotto i ferri. Sasà avrà tutta la vita per rammaricarsi di non aver raccomandato prudenza.
Vitaliano non disse nulla ai genitori circa la data dell’intervento chirurgico, ma il fratello Corrado, con la scusa di voler assistere a una partita della Juventus, venne a conoscenza del giorno dell’operazione e andò a Torino. A vederlo morire. Prima di entrare in sala operatoria, Brancati da un balcone vide passare il numero 12 del tram e pensò a un segno augurale. Ma soltanto la moglie Anna Proclemer (che ammetterà di avergli fatto molto male sposando un uomo che non amava e che tradiva) lesse la destinazione del tram: il cimitero.
Sasà Brancati dirà a Salvatore Pantano che il cugino Vitaliano aveva, quella volta che lo vide, un aspetto ancora più lugubre del solito. Era molto diverso dal nonno paterno e dal prozio Corrado, due fratelli di bons mots uno più bizzarro dell’altro. La compagnia di buontemponi che orbitava attorno alla farmacia organizzò pure una festa in loro omaggio perché incidessero un disco, musica di Corrado e parole di nonno Vitaliano, che fu l’uomo più amato dal futuro scrittore. Il quale guarderà a loro facendone due suoi personaggi e riportando nei libri le barzellette sentite nella spezialia del prozio dove le prove serotine di chitarra, violino e violoncello trasformavano i “veleni” in giulebbe, alla presenza di costernati clienti che reclamavano medicine urgenti ed erano costretti ad aspettare la fine del concerto o la lettura dell’ultima tragedia. Le barzellette erano del tipo: “Si è suicidato Marconi e sai perché? Perché non ha potuto inventare il yo yo senza fili”. Cose così.
Divertito conteur de sornettes, attentissimo osservatore dei costumi borghesi del suo tempo, convinto fautore di quel sentimento del comico che sarà il segno più maturo del suo impegno civile e la prova del suo senso di rigore morale, Vitaliano Brancati ha fatto ridere, ma poche volte nella sua non lunga vita ha sorriso. E ancor meno è stato spiritoso. “Io lo spirito voglio vederlo nei saggi, mentre nei romanzi ci voglio trovare la comicità” diceva immaginando quindi l’indifferenza che i suoi libri trovavano nel pubblico inglese. 
Il libro della disperazione, Paolo il caldo, il più amato e sofferto, è quello dove il crescente incupimento dello scrittore tocca il punto nel quale giunge per altre vie il senso di congenito amor fati che gli derivava dal sapersi permanentemente esposto a una possibile maliscenza della sua cisti. Autore in realtà da andamento drammatico anziché umoristico, avendo usato la parodia per irridere il fascismo prima e la morale comune dopo, Brancati è da bambino che impara a cogliere vizi e pregiudizi di una società conformista e votata alla convenzione. Una scoperta che fa a Pachino osservando il vento, l’elemento presente in gran parte dei suoi titoli fino a diventare in Gli anni perduti il protagonista del romanzo, nell’allegoria che di esso l’autore fa circa il fatto nuovo capace di abbattere il regime fascista. Il vento come forza naturale prorompente e metafora di uno spirito collettivo incontrollabile e ondivago è per Brancati il segno distintivo non solo del suo paese ma, suo tramite, di un carattere nazionale.
Il vento è connaturato a Pachino, secondo una tradizione che rimanda a Virgilio e Dante e secondo l’etimo fenicio di Pachino che significa “quantità di vento”. “Quel vento - scrive Brancati - è legato in modo intimo alla mia infanzia”, tanto da essere definito “bellissimo”. I venti di Pachino sono due, due essendo i mari, Ionio e Mediterraneo: “Il caldo dell’Africa e il freddo dell’Europa si azzuffano e rincorrono con molto rumore, cedendo ora l’uno ora l’altro”. Ma Brancati, tra la tramontana e lo scirocco, preferisce “il selvaggio Simun”, “il vento che ha suggerito agli uomini le più belle poesie, i più bei pensieri del mondo”, anche se di esso non farà che lamentarsi, perché rallenta la vita. 
Allora è il vento di Pachino il suggeritore occulto di Brancati, buono come il suo mosto che “rende l’aria vinosa e densa” e che dà sogni “gravi e felici”. Da bambino Brancati è convissuto con il vento, “che spazza continuamente il paese, fa brillare i ciottoli come diamanti” e glien’è rimasto il senso arcano del suo mistero, il sapore d’Oltremare e di terre lontane, portatore di fortuna o cattivo presagio, motivo di inconscia paura e simbolo epifanico del nostro incerto destino. “Il destino è il destino. E sugli uomini soffia quello stesso vento che fa correre le nuvole: tu non lo senti mai, tranne che nei momenti in cui esso cerca di strapparti, come una foglia, dal ramo dell’onestà, della tranquillità, della famiglia, della vita; e tu capisci che il vento batte solo su di te, e non sul ramo, e che già fai la ruota sul grembo, e fra poco l’albero rimarrà dentro di te, e Dio sa fino a quando, e tu solo volerai chissà dove col vento”. Un destino, quello di Brancati, tenuto sempre dentro un senso di precarietà molto siciliano. Impetuoso e impietoso come i venti di Pachino.