venerdì 28 luglio 2017

L'impostura siracusana del colera di Stato



Non è mai stato accertato se Mario Adorno fingesse di essere convinto che il colera del 1837 fosse un veleno sparso dal governo borbonico in combutta con potenze straniere per controllare l’espansione demografica.
Solo supponendo un tale infingimento è possibile continuare a considerare il patriota siracusano una delle migliori intelligenze siciliane e non un oscurantista credulone non diverso dal volgo più infimo. Se cercò di dimostrare che il colera era un veleno e non un morbo così da spingere la popolazione a ribellarsi, pur sapendo con ciò di passare per il più crasso degli ignoranti, i suoi meriti di liberale sono senz’altro fulgidi, degni del tributo che la città di Siracusa gli ha riservato inaugurando per il 150° dell’Unità d’Italia una lapide nel luogo in cui fu fucilato.
Ma tutto lascia pensare che il brillante, facondo, influente e attraente avvocato credette davvero nel veleno-colera, tant’è che non c’è una sola traccia che lasci immaginare il contrario. E tanto ne fu convinto da avere trascinato il figlio nella sventura incaricandolo di occuparsi della stampa del suo “manifesto” e portandolo in questo modo con sé davanti al plotone di esecuzione. I borbonici non ebbero dubbi sulla sua colpevolezza, perché reo principale dei disordini avvenuti in città e culminati con la giustizia sommaria da parte della folla, da lui sobillata, di autorità statali, fra cui l’intendente, accusate di avere contribuito allo spargimento del veleno. Mario fu fucilato alla schiena come i traditori mentre il figlio e gli altri non ebbero la benda perché guardassero la morte in faccia. Con estrema crudeltà, il padre fu fucilato dopo aver visto il figlio morire.
Adorno non fu il solo della Siracusa-bene a dare mostra di credere al veleno. Diversamente che nelle altre città anche siciliane, il sospetto di veneficio fu più delle classi abbienti che di quelle popolari. Come sia stato possibile che una città così illustre e avvertita possa essere caduta nella credenza più retriva e medievale rimane un mistero. Le menti più lucide, a cominciare da Adorno, avrebbero ben dovuto considerare che il re borbone non avrebbe avuto nessun motivo per spargere un’epidemia che, anziché fiaccare le spinte risorgimentali, distraendo la popolazione su mali certamente più gravi e urgenti, non avrebbe piuttosto che moltiplicato il risentimento popolare già latente offrendogli ragioni capitali, addirittura di sopravvivenza. Contribuì a creare una coscienza collettiva così guasta, che fu causa di funeste conseguenze, una serie incredibile di circostanze che mentre rinfocolarono nei siracusani un’avversione crescente contro i Borbone inducevano gli abitanti di Noto ad assumere un atteggiamento strategico contrario nella reale prospettiva di ciò che sembrava inevitabile: la severissima punizione che sarebbe venuta da Napoli su Siracusa e il vantaggio che Noto avrebbe potuto ricavarne ostentando fedeltà al re. E in realtà Siracusa sarebbe stata ridotta a capo della circoscrizione e Noto elevata al rango di capoluogo di provincia. E mentre a Noto il quadro fu chiarissimo, a Siracusa le menti migliori furono invece confuse da una macchinosa e fumosa congettura che non poteva realisticamente avere alcun fondamento.
Il primo motivo di sospetto, supposto senza alcuna ragione concreta, si ebbe quando le autorità siracusane - dopo la notizia che il colera era arrivato a Palermo - disposero misure immediate come la costruzione di barelle e lettighe, la raccolta di medicinali, la creazione di fosse. Sarebbe stato naturale pensare a una sollecitudine accorta e gradita, ma il pensiero corrente fu un altro: l’intendente e gli altri si preparavano a spargere il colera anche a Siracusa o sapevano che sarebbero arrivati da fuori emissari della morte con le bocce piene di veleno.
Ma questa opinione comune non sarebbe nata se Mario Adorno, un liberale amato dal popolo e di ottima famiglia, non avesse fatto che dirsi pubblicamente e ripetutamente convinto dell’esistenza di una setta agli ordini della corona che aveva il compito di angeli sterminatori. La polizia provò ad arrestarlo ma lui lasciò Siracusa e si nascose in una villa di campagna, ottenendo un calore ancora maggiore da parte della popolazione, propensa a credere ciecamente alla sua assurda teoria. Del resto, come non credere a un tribuno della plebe che rischiava la vita per denunciare una strage di Stato?
La situazione diventa grottesca se non comica quando entra in scena suo malgrado il titolare di un cosmorama, Giuseppe Schwentzer, francese, a Siracusa con la moglie, la figlia piccola e un giovane garzone napoletano. Diede nell’occhio per il suo aspetto rachitico e per le sue arti magiche che tanto avevano pur affascinato i siracusani attratti dal suo cosmorama. Non meno stregona fu considerata la giovane moglie, una provetta cavallerizza che si faceva vedere sfrecciante per la città. Trattandosi di stregoneria, in qualche modo a loro furono imputati gli stranissimi bagliori che si accendevano in aria di notte, come razzi che solcassero il cielo, tanto più che sembravano cadere dove era posto il cosmorama. Si trattava dei bengala che le autorità avevano, fra le altre misure, fatto preparare e che erano finiti alla mercé di tutti che di notte si trastullavano con essi.
I sospetti sullo stregone straniero si accrebbero, tanto più che la polizia ne tollerava la permanenza a Siracusa, certamente perché in combutta. Qualche giorno dopo la folla irrompe nella casa dove dimora lo straniero e stanno per linciarlo se egli non li ferma promettendo di rivelare tutto davanti alle autorità. La gente urla «Viva Santa Lucia!» ed esulta perché è stato finalmente trovato l’untore e soprattutto perché ha avuto ragione a sospettare del veneficio. Nessuno sospetta che “il cosmorama” vuole semplicemente salvare la pelle. Viene legato, nel piano del Duomo, a una delle colonne di granito chiamate “pilieri”. Il sindaco Francica nomina una commissione di sessanta siracusani e fa convocare Adorno, che, molto commosso e compreso, si compiace di avere avuto ragione. La folla ha intanto perso il controllo di sé: l’intendente viene ucciso con una fucilata, decine di poliziotti vengono arrestati e portati alle Carcerci vecchie mentre nelle loro case la gente si dà alla ricerca di ampolle e veleni.
Adorno prende la situazione in mano e, anziché a Siracusa che ribolle, pensa all’Europa, proponendo che tutto il mondo sappia della scoperta fatta. La scoperta è tutta nelle dichiarazioni del “cosmorama”, uno che ha girato il mondo e che si fa letteralmente beffa dei siracusani. Ma non durerà a lungo in vita, perché sarà con la moglie una delle successive tante vittime. Rivela di essere un agente della Francia mandato a studiare lo spirito siciliano sotto le vesti di un cosmorama. Il colera è opera di una setta segreta agli ordini di una potenza che fa credere possa essere l’Austria collusa con corti come quella napoletana, tanto che vi è implicato pure il ministro di polizia Francesco Saverio Del Carretto.
Quando il re nomina Del Carretto suo alter ego e lo spedisce a Siracusa a ripristinare l’ordine, i siracusani si ricordano delle parole del “cosmorama” e, di fronte alla violenza della repressione, pensano a una vendetta per averlo smascherato. Mai li sfiorerà il dubbio di essere stati sempre in errore. Né alcun dubbio ha Mario Adorno che anzi promulga ai siciliani un “manifesto” di rivelazioni colmo di farneticazioni infondate e diretto a determinare la rivoluzione.