lunedì 19 febbraio 2018

Il trattato sull'amore di Perroni


Il minuterismo sta al minimalismo come il rococò al barocco. Ne è uno svolgimento e un superamento. Più che guardare all’essenza delle cose ne coglie la quotidianità più minuta, esercitando un’acribia che arriva a scrutare anche il banale e l’impercepito, come il giallo del semaforo o il dito racchiuso in un libro dopo un colpo di sonno. Lo ha inventato il taorminese Sergio Claudio Perroni, traduttore, agente letterario ed editor, che ha scritto uno spicilegio di petits poèmes en prose tentati dall’aforisma che molto sarebbero piaciuti a Baudelaire e anche a Bufalino.
Entro a volte nel tuo sonno (La nave di Teseo, pp. 192, euro 12) si costituisce come introibo a una visione del mondo, ma soprattutto della vita, cioè dell’elemento materiale unito a quello spirituale, che pone le cose – e cose sono tutto ciò che accade e che si vede, il fatto e la descrizione, dromenon e legomenon per dirla con Pasolini – alla base del divenire umano. Chi ha mai fatto caso che le cose crescono quando non ci siamo, che è a cosa diamo importanza ciò che ci distingue e unisce, che il passaggio delle nuvole cambia le cose e che i pensieri nidificano nelle cose quotidiane, come una chiazza sull’asfalto che ci sembra un profilo? E chi si è davvero reso conto che camminando nel buio c’è un attimo, un solo attimo, nel quale usciamo dallo smarrimento? E che noi tutti propendiamo a lasciare in asso persone “appena cominciate e bambini da finire”, nel senso che deponiamo naturaliter per le cose incompiute, nelle quali cose rientrano anche gli esseri umani? Come pensieri pascaliani, i brevissimi testi di Perroni, composti al massimo da una ventina di righe e simili a haiku giocati sulla ridondanza anche lirica del dettato e sull’uso minimalista, alla Saramago, di un solo segno di interpunzione, la virgola, oltre che di rari punti interrogativi, stimolano l’inconscio e stringono con la fisica quantistica un’alleanza tesa a scrutare l’infinitamente minuto nell’ottica di uno scandaglio in profondità, quasi atomistico, dell’animo umano: per esprimere inaspettato un prorompimento immediato uguale a una collisione di moti interiori, un’illuminazione dell’anima che d’incanto riflette una particella del mondo e ne rivela il segreto. 
Il profondismo di Perroni, portato a recessi sconosciuti, si traduce in un processo di reificazione che (seppure esplori il vasto sistema dei sentimenti – e madrigali sono chiamate le intermittenti manifestazioni amorose rivolte come orazioni stilnovistiche a una donna idealizzata fatta oggetto di un trasporto di tenera e struggente devozione: una mise en abyme che agisce da risonanza alla partitura del testo) vuole riscrivere il mondo e descriverlo di nuovo, entro una prospettiva che delle cose, del loro corso e della loro multiforme natura, intende fare il principio originario, il più misterioso prime mover: la nostra materia oscura e nello stesso tempo la nostra energia oscura, ciò che ci allontana e ciò che ci avvicina. Esattamente quali sono i sentimenti di attrazione e repulsione dell’amore e dell’odio.
Che libro è allora questo di Perroni se non un trattato sull’amore reale, fondato sulla sostanza delle cose, sulla nostra circostanza per dirla con Gasset? Anche un breviario di religione laica, un panopticon che scruta l’uomo da ogni lato e soprattutto una prova letteraria che recupera modelli primonovecenteschi, da Svevo a Pirandello, entro i quali l’introspezione dell’io si ricongiunge a suggestioni ottocentesche che si ritrovano nell’arte di un Gauguin o di Cézanne, di un modo cioè impressionistico di vedersi proiettati nel mondo.

Articolo uscito in un’altra versione il 4 febbraio 2018 su la Repubblica-Palermo