sabato 17 febbraio 2018

Vestivamo alla palermitana



In quel tempo di inizio Ottocento quando non si capiva bene se dovesse essere più bella a guardarsi la carrozza o la dama che ne scendeva vaporosa, la Marina di Palermo non era certo le Tuileries di Parigi, ma gli abiti femminili erano gli stessi e uguale, nell’una e nell’altra Promenade, menava anche il portamento delle signore che li sfoggiavano. Mai più Palermo sarebbe stata così vicina a Parigi dell’epoca in cui, un paio di volte l’anno, le donne più à la page, letti i romanzi e i giornali, visti soprattutto i figurini di moda che arrivavano d’Oltralpe, andavano trepide a bagnare i loro pizzi démodé nella Senna e tornavano, fatta la prova all’Opéra, per esibirsi ancora in età vittoriana al Massimo nell’ultima più moderna mise
Ma sebbene Alexandre Dumas potesse supporre, sbarcato al Foro, di trovarsi agli Champs-Élysées, gli sarebbe stato impossibile vedere un abito già circolato a Parigi, perché nel bel mondo siciliano che sarebbe giunto fino a Franca Florio mancava il genio creativo del couturier, prosperando invece un vivace e abile artigianato sartoriale che avrebbe indotto i mastri palermitani a incidere nelle loro insegne nomi smaccatamente francesi e, emigrando Oltreoceano, a portare i loro modelli sulla Quinta strada come fossero parigini. 
Quell’epopea è più che tramontata, ma un pittore palermitano, Raffaello Piraino, studioso del costume e appassionato collezionista, l’ha tenuta in vita creando un museo che è anche itinerante. Un campionario dei circa cinquemila articoli tra abiti e accessori custoditi a Palermo sono ora esposti fino al 22 aprile a Palazzo Moncada a Caltanissetta in una mostra proveniente da Bolzano che è stata anche negli Stati Uniti e negli Emirati Arabi, intitolata con alquanta enfasi “Magnificenza e trame d’arte”. Raccoglie capi principalmente dell’Ottocento e della Belle époque ma ci sono pezzi anche del Settecento e della seconda metà del Novecento: a ricostruire una storia del costume di uso e manifattura siciliana, epperò di ispirazione francese e di creazione anche continentale, che procede affiancata a quella europea, sia pure di rimessa, e rivela una capitale, Palermo, sempre attenta al quadrante del mondo e oltremodo rappresentata da famiglie puntualmente aggiornate sui capricci della moda. 
La mostra nissena si offre allora a uno sguardo che voglia per esempio ripercorrere l’evoluzione del giro-vita (regency all’inizio, cioè altissimo, appena sotto il seno, e andato poi sempre più abbassandosi insieme con il décolleté), della crinolina che si accorcia e del corpetto che si restringe, nonché delle tante sottovesti quanto più necessarie nel passaggio dal cotone alla seta e nell’uso della trasparente e audace organza. 
Ma non di soli abiti femminili è dotata la rassegna, perché oltre all’intimo più inaccessibile, tra busti e corsetteria, c’è spazio anche per l’uniforme militare che incarnava il più vivido ideale maschile di eleganza e bellezza, così affascinante che le fanciulle di casa Salina fecero cadere dietro il divano i loro romanzi proibiti alla vista di Tancredi e Cavriaghi in fregi e alamari, non più in severe redingotes e fracs funerei. E con le uniformi militari fanno parata anche quelle civili e i paramenti sacri, i vestiti popolani e gli abitini infantili, attorno a douillettes, paletots, manteaux, vesti da casa, robes volants, pizzi e merletti: tutto un mondo innanzitutto a colori (e dell’esuberanza del colore nell’abbigliamento si può fare un punto di attenzione nella mostra) che non integrava solo il costume ma anche la società siciliana. La quale guardava a Parigi ma pensava ancora a Madrid nell’obbligo dell’appariscenza e della pompa. Per modo che ci si può aggirare tra i capi della mostra giocando a immaginare quanti siano realmente francesi e quanti altri opera di sarti siciliani presi a ricopiare modelli avuti da frenetiche signore col ditino sul figurino da rifare uguale. 

Articolo uscito il 16 febbraio 2018 su la Repubblica-Palermo