sabato 3 marzo 2018

A Caltagirone i Borboni sono rimasti in carcere




Curiosa ventura quella dell’ex carcere borbonico di Caltagirone, sede del Museo civico, di essere visitato come contenitore più che per il contenuto, che pure è notevole ospitando una ricca pinacoteca, una significativa sezione archeologica e una ragguardevole raccolta di documenti storici.
L’interesse è tutto per la camera della tortura (ripristinata l’anno scorso dov’era la cucina del custode) e le sue due diverse entrate, una per ufficiali, giudici e avvocati, e l’altra per boia, medico e detenuto, l’infelice destinato alla corda che era l’unico supplizio previsto dalla legge borbonica, oltre a quello eccezionale del fuoco per quanti non potessero essere... sospesi. La separazione degli ingressi giovava ai giudici per evitare il contatto con gli altri detenuti, al fine di tenere le distanze e non certo per non farsi suggestionare o intimidire. 

Le diversità riguardavano del resto anche le condizioni di vita in carcere, giacché la giustizia non era davvero uguale per tutti: i gentiluomini occupavano la parte più luminosa, raggiungibile lungo un largo scalone al servizio di stanze fornite di alcova e cucina, dove era ammessa pure la servitù al seguito, mentre i rei sventurati, in un’altra zona del carcere, penavano dentro angusti dammui creati in cima a irte e strette scale a torciglioni. L’intero carcere era dopotutto concepito come un itinerario che dalle sale ariose sui cortili portava all’interno asfittico e umido, via via che cambiavano ceto, censo e colpe: dalla grande camera criminale, che radunava i detenuti minori nello spirito allora imperante della reclusione collettiva e non ancora cellulare, passando dall’elegante sala dell’udienza della Corte capitaniale, si iniziava una discesa agli inferi - più esattamente una risalita al terzo piano sotto il tetto - nei penetrali della pena, fino ad arrivare in ambienti remoti fatti (per chi segue oggi le indicazioni apprestate da Giacomo Pace Gravina, lo studioso calatino di storia del diritto incaricato dal Comune di recuperare l’ex carcere dopo il ritrovamento del progetto originario del costruttore) per mettersi i brividi e farsi prendere dall’angoscia. 

Davanti alle celle soffocanti e basse, buie e prive di finestre, la scala segreta, il passetto dei dammuselli, la cappella dei “pazienti” chiamati a confortare i condannati a morte, la sezione femminile e quella dei debitori, quel che si respira è l’aria tetra di un tempo in cui i carceri borbonici erano sinonimo di disumanità, definiti da William Gladstone “la negazione di Dio eretta a sistema” e, senza andare lontano da Caltagirone, da Serafino Amabile Guastella tanto esecrati da fargli dire che “le dieci piaghe d’Egitto sarebbero paruti confetti”. 

Già da fuori, pur essendo il massiccio edificio a pianta quadrata e ideato “a guisa di castello” stato adibito a Manifattura tabacchi, a Monte di prestamo, a centrale telefonica e infine a museo, l’aspetto è rimasto, nonostante i pesanti rimaneggiamenti interni, quello apparso per un secolo esatto, dal 1798 al 1898, di un severo reclusorio profilato di lesene in taccia di colonne simili a stendardi nazisti sormontati da fregi uguali a catene, l’ingresso e le finestre come antri medievali protetti da inesorabili gangli meccanici pronti a serrarsi nel canglore, il basamento bugnato somigliante a un insormontabile muro di cinta: il migliore esempio di carcere borbonico che in Sicilia sia arrivato dal Settecento ad oggi in condizioni pressoché integre. Tale che può essere guardato con gli stessi occhi degli aristocratici calatini che ne varcarono in catene il portone per essere nel 1799 reclusi nello sconcerto cittadino e il tumulto generale; o con quelli altrettanto sbarrati dei tanti liberali, grassatori e passatori che nei muri delle celle hanno lasciato a futura memoria rudimentali disegni di strani animali, pesci volanti, soldati con il fucile e giudici con la sciabola, figure umane tremebonde come uomini primitivi rintanati nelle caverne, quali dovevano loro sembrare gli irrespirabili buchi scavati nell’arenaria e nel dolore.

Articolo uscito il 2 marzo 2018 su la Repubblica-Palermo