mercoledì 11 aprile 2018

Il populismo al tempo dell'astroturf


Nella definizione di “populismo” siamo ancora al punto di doverne precisare la sostanza, com’è per una norma di diritto che, prima di acquisire un’esatta natura giuridica e trovare formale applicazione, viene sottoposta al vaglio della dottrina e poi della giurisprudenza.
Nella sua vicenda semantica il passo che il vocabolo ha compiuto è stato un salto di categoria, diventando “termine” e smettendo di essere “parola” (Foucault), trasferendosi così da un campo nel quale l’espressione operava in funzione letteraria a un altro dove è diventata tecnico-scientifica, in altre parole mutando la veste sociale in una politica.

Abbiamo anche la prova della presa estetica tenuta dalla voce “populismo” negli anni in cui non sottendeva ancora un “ismo” di significato tutto sommato negativo, una prova che ci viene dall’uso che, restando in Italia, se n’è fatto in una determinata stagione della nostra storia, quella coincisa negli anni Settanta con l’insorgenza terroristica, la sola in cui i termini erano anche parole per via del combinato ed esplosivo intreccio tra scienze sociali e morali. Il progetto, coltivato già nella Russia prerivoluzionaria, di “andare verso il popolo” si precisò in un sogno e in un programma, sintetizzando appunto parole e termini, che trovarono esito in movimenti extraparlamentari come “Servire il popolo” e consacrazione massima in occasione del sequestro Moro – prigioniero del popolo nella “prigione del popolo” – quando le Brigate rosse teorizzarono il principio di non dover nascondere niente al popolo e ne resero perciò pubblica la lettera a Cossiga contro la sua volontà.

Il popolo (titolo peraltro dell’organo della Dc, gravido di sfumature costituzionali) era comunemente visto nella forma di un totem astratto al quale conferire ogni contributo, anche violento, per la sua emancipazione e la liberazione dal giogo borghese, lontano dai modelli che successivamente questo pensiero ideologico ha suggerito nel duplice aspetto, uno proiettato al futuro e l’altro retaggio del passato, di affermazione dell’identità nazionale (con derive persino razziste cavalcate in Italia dalla Lega) da un lato e di ricerca di un leader carismatico, un duce alla maniera di Mussolini, nei modi divenuti di Beppe Grillo, da un altro.

“Andare verso il popolo” implicava invece l’idea di movimento, di un progetto da farsi, già prima degli anni di piombo, nel tempo in cui Antonio Gramsci analizzava gli svolgimenti nazional-popolari e trovava nel mondo rurale e contadino l’istanza più genuinamente popolare, protopopulista, alla quale ricondurre la lotta di classe: ciò che potrebbe spiegare il curioso risultato alle scorse elezioni del 4 marzo dei due fronti cosiddetti populisti, Lega e Cinquestelle, trionfatori nelle campagne, nelle periferie e nella provincia, ma in ritardo nelle grandi città dove sono prevalsi invece i partiti tradizionali, spia di un contrasto acceso tra malcontento sociale spinto al ribellismo e fiducia nelle ragioni della continuità e del mantenimento degli assetti consolidati.

La lettura che nel 1931 ne dava Gramsci, commentando un articolo di Alberto Consiglio su “populismo e nuove tendenze della letteratura francese”, nella chiave quindi di un rapporto interno tra politica e cultura tutto fatto di “parole”, era improntata al sospetto. La tesi di Consiglio postulava una manovra dell’intellettualismo francese intesa, contro la crescente forza del proletariato, ad andare verso il popolo nell’idea di assicurarne alla borghesia l’egemonia, pur facendo in parte propria l’ideologia proletaria. Gramsci si chiese se tale fenomeno non rappresentasse piuttosto «una fase necessaria di transizione e un episodio dell’educazione popolare indiretta», ragionando poi in questa prospettiva: «Una lista delle tendenze “populiste” [populiste non a caso fra virgolette] e una analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe “scoprire” una di quelle che Vico chiama “astuzie della natura”, cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario».
Il populismo che montava in Francia era quindi per Gramsci da osservare con la massima diffidenza, anche quando davvero fosse stato, come sosteneva Consiglio, un prodotto della cultura al servizio della borghesia e non un episodio, un incidente naturale e fisiologico, una febbre di crescita, quale invece lo credeva.
Gramsci però si correggerà due anni dopo quando ammetterà che il fascismo è il modo migliore per esercitare, attraverso la civiltà (non la cultura), il «sistema di controllo e di direzione che sviluppa nel modo più rigogliosamente economico la massima potenzialità del popolo»: con ciò riconoscendo che l’istanza populista, vista nel senso di andare verso il popolo, non può muovere dal basso ma deve promanare solo dall’alto.
Questa concezione che fa del populismo un astroturf anziché un grassroots, un movimento studiato a tavolino e non nato spontaneamente come radici, arriva fino agli anni Settanta e, mentre si carica di un dippiù di significati volendo soddisfare, a opera della lotta armata e delle rivendicazioni della sinistra extraparlamentare non più che della destra nazionalista, bisogni e ideali del popolo, assicura all’ambito culturale la titolarità della sua azione di perseguimento.
Nel 1975, accusando l’industrializzazione di aver trasformato gli italiani in un popolo “degenerato e ridicolo”, Pier Paolo Pasolini scrive sul Corriere della sera di aver pur amato gli italiani «sia al di fuori degli schemi del potere (anzi in opposizione disperata ad essi) sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari». Populismo e umaniterismo si coniugano quindi entro una visione cordiale che conferma l’origine intellettualistica, di civiltà o di cultura, del percorso “verso il popolo” che di sua volontà e per suoi interessi intraprende la borghesia al potere o il potere tout court. L’umanitarimo milita fortemente anche nei giorni del rapimento Moro quando alla “linea della fermezza”, attestata sulla ragion di Stato, si oppone la “linea umanitaria” aperta alle trattative con le Br: quella linea umanitaria che in una lettera a Zaccagnini Moro connette a un apparato reale e ben presente quando scrive: «Se questo crimine fosse perpetrato si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo Paese». Le forze umanitarie: non solo il Vaticano e il Partito socialista, ma anche tutti quegli ambienti istituzionali e sociali capaci di sensibilizzare l’opinione pubblica, cioè il popolo, il vero destinatario sia delle lettere che dei comunicati brigatisti, dal momento che vengono divulgati perché nulla sia nascosto al popolo – Moro perseguendo l’intento di fare leva sulle forze umanitarie (e pasolinianamente populistiche), le Br vagheggiando l’ideale di rappresentare gli interessi e le aspettative delle stesse forze.
A questa sfera di interazioni, non solo italiane ma dell’intero mondo occidentale, agli inizi degli anni Ottanta darà sistemazione Michael Novak con la sua teoria del “capitalismo democratico”: attribuendo alle classi agiate e imprenditoriali un compito di solidarietà umana nei confronti dei ceti deboli, al fine del bene comune e dunque a vantaggio del popolo, consoliderà l’idea di derivazione ottriata della spinta “verso il popolo”, nell’affermazione di un concetto di populismo che oggi ha perso le virgolette e che da aggettivo si è fatto sostantivo, a designare un principio di democrazia diretta destinato tuttavia a rimanere a metà tra l’applicazione completa avuta nella polis greca, che affidava al sorteggio l’incarico di governo, e le risacche demagogiche di oggi sia nazionalistiche che oligarchiche.
Ancora in età romana, figure come Mario in lotta contro Silla erano ritenute populiste, da eleggere a tribuni della plebe, in un significato contrario a quello odierno: di un leader che non si mette a capo degli elettori ma che dagli elettori viene chiamato a mettersi al loro servizio. Addirittura con il sotterfugio trovato proprio da Mario di far conoscere la decisione di non candidarsi, cosicché un amico complice potesse additarlo al popolo per la sua ritrosia e la mancanza di senso di responsabilità, e poi venire dallo stesso popolo incoraggiato e convinto a correre. Quello spirito greco-romano che ha cullato un’accezione di populismo tutta in positivo e si è poi fatto carico di una sensibilità a contenuto umanitario oggi si è trasfuso in un atteggiamento politico sospinto a stabilire non più patti di alleanza ma di sudditanza, un atteggiamento di corto respiro che già tradisce la sua mutazione, ben prevedibile, in un’altra forma fanerogama, quella del gentismo: la disordinata presa d’assalto e di coscienza delle fasce sociali masscult non più disposte a dipendere dagli atteggiamenti prevalenti ma decise, pur risultando Kitsch e popolane, a fare sentire la propria voce, anche solo commentando e recensendo – senza limiti nemmeno grammaticali – ogni prodotto culturale sui social e online.