venerdì 6 aprile 2018

Le sorprese del Picasso di Noto


Mancano i grandi capolavori, ma Picasso c’è tutto nella mostra aperta fino al 30 ottobre al Convitto delle arti a Noto, remake di quella di tre anni fa allestita a Catania. Grazie a una scelta paziente operata nel suo vastissimo repertorio, il pittore andaluso si offre intero nell’accostamento ai linguaggi espressivi più frequentati in età matura: la ceramica, per esempio, che ne fece anche un vasaio, la grafica e le incisioni. E con i linguaggi, i piaceri: la tauromachia, l’erotomania, la politica, il bestiario, la natura morta. 
Sono lontani i periodi blu e rosa, dell’avvilimento e dell’ebrezza, così come i migliori esiti della ricerca cubista, ma in questa mostra ne sono arrivati echi significativi e sorprendenti. Se ci si ferma davanti a “Deux femmes”, che è del 1920, la stagione delle figure umane e degli ammicchi anche omosessuali come in questo caso - la mano sulla gamba dell’altra, le teste ravvicinate, una seminudità che è una svestizione: a suscitare un brivido proibito -, si scopre che le venature azzurre e rosa, qui e là tradotte in assaggi di pointillisme, sono le stesse della grande tela “Les demoiselles d'Avignon”, l’altrettanto scandaloso momento di voyeurismo elevato a capodopera assoluto che è del 1907, quando il blu è appena diventato azzurro e si coniuga con il rosa. Basta questa stretta consonanza a fare di “Deux femmes” una presenza preziosa per seguire di Picasso la transizione da un gusto vagamente espressionista all’affermazione della rivelazione cubista, passaggio che questa gouache testimonia nella sua incedente gradualità, segno di una ricerca artistica che ha richiesto i suoi tempi lunghi di maturazione. 
Il quadro è posto dunque come un varco cruciale, una pista verso la parcellizzazione cubista, ancor di più perché proprio in questa mostra è stata portata un’acquaforte del 1939, compresa nel ciclo di 23 litografie intitolate “Dans l’atelier”, che si chiama proprio “Deux femmes” e che sullo stesso soggetto si costituisce nei modi di un cubismo dichiarato e compiuto come punto di arrivo del percorso iniziato 19 anni prima, dove se omosessualità c’è è appena accennata entro una nudità complice e suggerita. La sua composizione in bianco e nero connota la stagione cosiddetta “grigia”, nella quale massimamente si distingue “Guernica”, che è di due anni prima: un grigio assunto da Picasso per scolorire il mondo e rovesciarlo nel contrario dello spirito di festa fortemente cromatico che denotava “Les demoiselles d’Avignon”. 
Eppure non si tratta di una meta finale, tanto più che la mostra netina ci riserva un’altra sorpresa. Del modello cubista più picassiano c’è traccia infatti in un’altra gouache, datata al 1967, “Tête d’homme”, considerata un autoritratto, che a suo modo sintetizza e lega i due poli di partenza e di arrivo, raccomandandosi al visitatore come signum individuationis dell’esposizione: l’azzurro del volto, il rosa pallidissimo dei capelli e la scomposizione della forma indicano non un ritorno ma un recupero della vecchia maniera innestata qui nella rivoluzionaria cifra cubista, che è la più duratura e riconoscibile in Picasso, ma non è la sola. 
La curatrice della mostra Lola Durán Úcar è stata molto attenta a disegnare questo percorso, nella consapevolezza, come scrive sul catalogo, che la vicenda artistica di Picasso si configura al pari di un “viaggio di andata e ritorno nel proprio linguaggio tra le fasi anteriori e posteriori alla propria pittura cubista propriamente detta”. E’ dunque intenzionale l’aggiunta, agli oltre duecento pezzi esposti, di opere che non appartengono all’età in cui Picasso si dedica prevalentemente alla decorazione dei piatti e alla ceramica. Ne abbiamo prova assistendo a un altro momento di ritorno, quello rappresentato dalle 66 acquetinte del giocoso ciclo intitolato “La Celestina” del 1968 che riprende una tela del 1904, l’anno di introibo al periodo rosa. E convince questa lettura data alla mostra per la ricorrenza di un tema, la tauromachia, che per Picasso è stato una passione costante e irrinunciabile, un vero e proprio andirivieni tra passato e presente, un’ossessione vitale.

Articolo uscito il 6 aprile 2018 su la Repubblica-Palermo