martedì 10 luglio 2018

Quello Sbarco ha lasciato detriti


Il 2 aprile scorso, per Pasquetta, grande fu la costernazione di Alan Batty, ex militare inglese, alla vista di gitanti tra le lapidi del cimitero britannico di Catania. La legge votata all’Ars il 26 giugno dovrà impedire simili atti di profanazione e di oltraggio. Intesa a valorizzare i siti legati alla Seconda guerra mondiale, interessa in particolare i dirigenti del Museo storico dello sbarco in Sicilia, attivo dal 2002 a Catania e da cinque anni senza finanziamenti. Dice di esso lo storico palermitano Leonardo Salvaggio, autore del documentato libro “Sicilia. Quell’estate del ‘43”: «Lì dentro c’è tutto quello che occorre sapere sullo sbarco». Ricco di oltre 3300 pezzi, il museo registra una media di 25 mila visitatori l’anno, fra cui moltissimi americani. 
L’interesse dei turisti d’Oltreoceano è anche dovuto alla mancanza di cimiteri americani in Sicilia: nonostante gli oltre 2700 morti, Washington ha scelto sin dall’inizio di concentrare a Nettuno tutti i caduti in Italia o di riportarli in patria. Gli inglesi invece ne curano due: quello a sette chilometri da Catania e l’altro di Siracusa. Quanto ai canadesi, hanno voluto raccogliere le loro salme ad Agira mentre i tedeschi hanno edificato il grande cimitero di Motta Sant’Anastasia, dove riposa anche Luz Long, il celebre olimpionico tedesco che, secondo recenti ricerche, fu ucciso con altri prigionieri dell’Asse nel massacro di Pietro Paolo compiuto dagli americani. 
Proprio sulla condotta degli uomini di Patton vanno emergendo negli ultimi tempi rivelazioni sconcertanti. Secondo lo storico gelese Nuccio Mulè, autore del libro appena pubblicato “Nel corso della Battaglia di Gela”, gli americani utilizzarono i prigionieri come scudi umani per aprirsi la strada verso Palermo: «La prova è nel minor tempo percorso rispetto all’armata di Montgomery per coprire una distanza molto più lunga». A stare a Mulè, gli americani si macchiarono di un’altra atrocità, comportandosi come i marocchini a Caronia: «Ho raccolto testimonianze che provano gli strupi di moltissime donne gelesi che abortirono volontariamente». Nunzio Lauretta, storico di Comiso (autore di un imminente libro basato sul diario inedito di una ragazza che riporta quanto vide dalla sua finestra nei giorni convulsi dell’arrivo degli Alleati per la conquista dell’aeroporto), non crede, in mancanza di documenti, che gli americani commisero crimini di guerra così efferati, sebbene convenga che l’ordine di Patton fu di passare per le armi quanti non si arrendessero, ma ridà al contempo credito al teorema, che ha perso via via forza, del contributo della mafia allo sbarco: «Già da un anno Lucky Luciano aveva preparato l’elenco, Comune per Comune, di chi fossero addirittura i parroci e quanti carabinieri presidiassero ogni caserma». 
Un altro teorema ha intanto prese piede e riguarda proprio Patton, che in Sicilia si sarebbe giocato, con il ceffone assestato a un soldato, la sua corsa alla Casa Bianca. Basilio Maniaci, presidente di Unitre Messina e autore del libro “Operazione Brolo Beach”, è del parere che se in tutto il Messinese mancano testimonianze sullo sbarco (a esclusione del recente museo polivalente “Messina nel ‘900”) è stato per via degli americani che hanno sempre soffocato la verità: «A Brolo sorgeva, allora come oggi, il monumento al soldato triste della Grande Guerra. Dopo il ceffone, il partito che sosteneva Eisenhower fece rimbalzare in America la notizia assieme a una foto che ritraeva un soldato americano fatto sedere sotto la statua del soldato triste nella stessa posizione desolata. La reazione dell’opinione pubblica americana fu di condanna di Patton, del quale venne anche minimizzato il successo su Montgomery dell’arrivo a Messina e ignorata in Sicilia ogni sua prodezza bellica». 
Ma nel tempo nemmeno gli enti locali più interessati come Troina e Centuripe hanno preso iniziative alla memoria, lasciando, come in tutta la Sicilia, che i monumenti ai Caduti della Prima guerra mondiale ricordassero anche quelli della Seconda. Del resto continua a pesare tutt’oggi il discrimine ideologico se lo sbarco fu una liberazione o un’occupazione. Il movimento Lambadoria, molto attivo a Siracusa, ha programmato per il 75esimo una serie di celebrazioni, da Ragusa ad Avola, nello spirito patriottico dell’Italia ardimentosa. Il presidente Alberto Moscuzza indica, tra i luoghi più significativi e meno noti, la batteria navale di Capo Murro di porco (abbattuta prima dello sbarco perché vista dagli Alleati come l’arma nemica più temibile puntata sul mare fino a Noto) e la masseria fortificata San Michele di Santa Teresa Longarini dove fu realmente negoziato l’armistizio poi firmato a Cassibile. 
Nei fatti molte verità devono venire ancora allo scoperto. La nuova legge regionale (arrivata in enorme ritardo, quando oltre la metà dei bunker, delle casematte e dei rifugi antischegge sono andati distrutti) dovrà rilanciare le ricerche ma anche immaginare itinerari e parchi alla maniera di quelli letterari che però non hanno avuto grande fortuna. Un parco tutto personale lo gestisce sul ponte Dirillo, teatro di una ingloriosa operazione americana, un contadino di Gela, Cristoforo Ventura – e prima di lui dal ’51 il padre – che nelle terre avute in affitto dal Comune ha ricreato attorno ad alcuni bunker uno scenario sormontato da una lapide e coronato dalle bandiere dei Paesi in guerra: «Faccio gratuitamente da cicerone alle scolaresche e ai tantissimi turisti. A maggio, per la prima volta, è venuto anche un numeroso gruppo di ufficiali e soldati tedeschi in borghese curiosi di scoprire come fecero i parà americani ad atterrare a cinquanta chilometri dall’obiettivo». 
Opera anche di due privati appassionati, Antonio Montalto e Andrea Blefari, è il Museo della memoria di Modica che ogni anno richiama circa seicento visitatori, mentre provento di una donazione interamente privata è il Museo militare di Chiaramonte Gulfi. La sfera pubblica fatica invece a schierarsi. Emblema di questa ambiguità è il Monumento al legionario di Siracusa, opera fascistissima donata al Comune e dopo il Referendum divenuta per decenni fonte di imbarazzo circa il nome e la collocazione. Oggi guarda, in solitudine e abbandono, il mare oltre il quale perse l’impero e dal quale giunsero in una notte di luglio i nuovi legionari.

Articolo uscito il 10 luglio 2018 su la Repubblica-Palermo