domenica 7 ottobre 2018

Piero Guccione, una vita finita nel mare grande

 Guccione a Sampieri dove ogni mattina andava per respirare iodio

Dopo Severino Santiapichi se n'è andato anche Piero Guccione. Non solo Scicli ma tutta la Sicilia è più povera. Entrambi hanno rappresentato innanzitutto il rigore morale e nella loro attività (così diversa e così omologa nello spirito dell'arte: uno anche scrittore e l'altro pittore) non hanno che rilanciato la questione etica, assumendo pure incarichi pubblici: Guccione come assessore, Santiapichi liquidatore dell'Ato.
Legati alla loro terra da tornarci per restare dopo una vita di diaspora, riservati, introversi, un po' timidi, sono stati dei "buoni siciliani" nell'accezione che Sciascia ne dà parlando di Ettore Majorana nel libro sulla sua scomparsa: «Come tutti i siciliani “buoni”, come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della “cosca”».
Appartatissimo Guccione e appartatissimo Santiapichi. Li univa il mare di Scicli, un grande solitario anch'esso. Il "presidente" si trasferì negli ultimi anni stabilmente a Donnalucata accompagnandosi a pochissimi amici di gioventù nelle sue passeggiate sul lungomare dove lo si poteva incontrare nella stranezza di vederlo, verrebbe da dire finalmente, senza più la scorta armata. Anche lui da solo, il "maestro" alle prime ore del mattino, ogni giorno, andava sulla spiaggia di Sampieri per ionizzarsi, come diceva, nella sua tuta del colore dei suoi occhi che non smetteva mai. 
Sono stati entrambi miei amici e ho goduto della loro stima. Di Piero ricordo le chiacchierate nella sua casa di Quartarella e la celebrazione da parte del Comune dei suoi sessant'anni quando con Paolo Nifosì ebbi la gioia di parlare di lui in una sala affollatissima che mi diede prova non tanto della sua statura di artista quanto dell'attaccamento degli sciclitani alla sua figura.  
Piero Guccione viveva nella sua casa di campagna a Quartarella, naturalmente lontana da tutto, ma trascorreva gran parte del giorno nella dependance che era il suo studio. Non so quanti altri, ma io vi fui ammesso più volte, con la circospezione di chi venga accolto nella stanza segreta: tutti a giro facevano da cornice i suoi quadri completati, in via di ultimazione e in abbozzo, sotto una luce così intensa, spiovente dal tetto a vetri da sembrare di essere all'aria aperta. Non amava mostrare i suoi lavori incompleti e perciò ne minimizzava la presenza e l'importanza. Ricordo che di fronte a una enorme tela che copriva quasi per intera una parete, ovviamente una veduta marina, mi disse che ci si stava rompendo la testa perché non aveva ancora trovato il modo come fare muovere le acque: come darne l'impressione.
Nelle ore diurne si chiudeva nel suo studio, senza telefono e senza rispondere nemmeno se chiamato, lasciando che a ricevere il postino o chi venisse fosse la sua compagna, Sonia Alvarez, anche lei pittrice, ma di interni, mentre lui teneva lo sguardo rivolto quasi sempre fuori, perlopiù verso il mare. Voleva il silenzio assoluto, ma l'abbaiare dei suoi cani gli era di compagnia. E sapendo che di giorno era irraggiungibile, Vittorio Sgarbi lo andava a trovare la sera, a volte a notte fonda, nella certezza di disturbarlo di meno. 
Negli ultimi cinque anni, dopo lo scandalo nel quale fu coinvolto per una questione di evasione fiscale che lo amareggiò e prostrò, Guccione ha sempre più perso interesse verso la pittura e dunque verso la vita, abbandonandosi a un invecchiamento progressivo che lo ha portato all'incoscienza e alla morte, al culmine dello scontro interiore (che gli ha minato prima lo spirito e poi il corpo) tra la sua intransigenza e le sue colpe. Non dipingeva più e si era andato via via chiudendo in un recesso della sua esistenza nel quale voleva tenersi lontano da tutti, rifiutando il mondo che voleva cambiare e che ha finito per cambiarlo, tuffandosi nel mare dell'oblio che voleva realizzare e che non ha mai finito. 
Troppo mare nella ricerca pittorica di un artista quanto più insoddisfatto tanto più celebrato. Pittore del visibile, Guccione ha sempre cercato l’invisibile. Nelle sue tele sul mare sono le linee a contare, quelle che si vedono ma che non sono reali. L’orizzonte per esempio. Molti dei suoi dipinti riproducono il cielo nello stesso spazio del mare, come a fissarne l’inizio e la fine o la linea di congiunzione. Un’ossessione appunto. Ma non di solo mare è fatta la sua invenzione artistica.
In una conversazione con Moravia e Siciliano Guccione disse che la storia della sua ricerca si può fare anche secondo le case che ha abitato, più esattamente in base a quanto dalle sue case gli era possibile vedere. Per questo Guttuso disse che lui dipinge sempre ciò che vede. Oltre ai panorami, Guccione ha visto molti paesaggi, soprattutto quelli iblei che costituiscono un filone di ricerca autonomo. Quella che segue è un'intervista realizzata dieci anni fa. Sembrano passati dieci secoli a ripensare all'ultimo Piero così amaro e così dolente.
Avendo visto scorci di periferia romana e paesaggi siciliani, a lei manca l’esperienza neorealistica. Ma le manca perché non ha visto un certo tipo di realtà, che so, l’occupazione delle terre”, o perché non l’ha cercata?
«Credo che pesi il fatto che si è trattato di tempi diversi - risponde Guccione. - La generazione di Guttuso ha raccolto pittori che hanno perseguito una visione realistica, pittori che fondavano il loro lavoro sì sulla visibilità, ma una visibilità molto contaminata da una logica ideologica; mentre per noi più moderni, vissuti in anni diversi, il problema ideologico non si è posto più, almeno non in quei termini. Ci è venuta insomma a mancare l’ideologia come elemento dominante».
Eppure aderendo alla corrente “Il pro e il contro” lei prese parte a un gruppo formato da pittori solo di sinistra.
In effetti, se penso a quadri di quel periodo, i “Deterrent” e altro ancora, trovo che trasparisse una certa implicazione ideologica. Se vogliamo, anche le periferie romane tradiscono uno sguardo più popolare, più reale. Ma stiamo parlando degli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, perché il mio lavoro col tempo è diventato principalmente legato alla visibilità e alla forma, o meglio alla ricerca della forma attraverso la mediazione del visibile. Erano gli anni, quelli a metà del secolo scorso, quando io andai a Roma, in cui un giovane artista poteva scegliere tra l’astrattismo, che cominciava a farsi ben notare, o il realismo. Io, evidentemente perché un po’ mi interessava il lavoro di Guttuso, accolsi un’idea realistica della pittura insieme con Vespignani e altri.
L’idea di realismo di Guttuso era tale da fargli dire che vedeva la Sicilia anche disegnando una mela. Il suo mare non è però l’equivalente della mela di Guttuso.
In realtà la sua non era una pittura solo ideologica, ma in buona parte legata al dato riconoscibile e identificabile.
Quando una volta le dissero che i suoi temi conciliavano bellezza e qualità lei precisò: qualità sì, ma anche verità. Ricorda la bella espressione di Siciliano che parlando di lei si pronunciò nei termini di “invenzione della verità”. Cos’è per lei la verità?
Per un pittore è quello che si riesce ad affermare, pur con tutti i dubbi e le contraddizioni che una forma comporta: la sostanza dell’essere oltre il visibile insomma, che sia una mela o un paesaggio.
Lei ha dimostrato che il mare, insieme di immobilità e movimento, non è mai vero. È sempre un dato transeunte. Come coglie questo dato fenomenico nei modi della verità?
Lavorandoci per trent’anni e prendendo coscienza non solo che una data realtà non ha mai fine e determinazione ma anche che l’approfondimento in senso formale è un lavoro senza termine. Quando diciamo che un pittore dipinge lo stesso quadro non vediamo che a cambiare non è mai il quadro ma l’artista, ogni volta diverso. Ecco cosa significa invenzione della verità: inventare una forma che di per sé è il segno di una contraddizione ma che riesce a dare un’identità alle cose. 
La verità è la società, è la politica. Lei ha detto una volta di essere insofferente nei confronti della politica e che a un’Italia pasticciona arruffona opportunista preferirebbe un’Italia severa e intelligente. È dello stesso parere anche oggi?
Oggi più che mai. Viviamo in una sorta di pantano strano e melmoso, dove tutto diventa in qualche modo pretestuoso, privo di una forza reale, tutto in una sorta di guazza sotto la quale si può dire tutto e non si dice niente. Non trovi fermezza, serietà, impegno. 
Ci sono mai stati?
Secondo me sì, non dimenticando però mai che la politica italiana è fatta di chiacchiere. Ma trovo che in passato gli uomini avevano un maggiore senso della responsabilità individuale che era molto più incisivo ai fini dei programmi da realizzare. Mentre oggi è tutto un ciarlare, una retorica del presenzialismo dove non ha alcun valore quel che si dice. È vero: invecchiando si rimpiange il passato, ma il dato c’è: tutto diventa teatro, appariscenza.
Ha anche detto che nello stato di attuale appiattimento della cultura l’artista deve lavorare fuori dalle convenzioni e dalle imposizioni del mercato. Si può fare?
Si può, se si vuole, assumere pienamente la responsabilità del proprio sentire, agire indipendentemente da profitti economici o vantaggi materiali, avere un senso di severità e di coerenza dei propri atti, delle proprie idee che si tramutano in opere. 
Può davvero un artista lavorare ignorando il principe e il mecenate?
È possibile. Tutta l’arte moderna ha lavorato in maniera autonoma rispetto anche a quella che era una volta la committenza. Certo ne ha pagato il prezzo che è stato alto.
Però quando lei realizzò il “Tondo” per il Teatro Garibaldi di Modica lo fece gratuitamente. Forse per non avere a che fare con l’ente pubblico?
A questo non ho pensato, anche se nei fatti è così. Lo realizzai per generosità, perché mi sembrava di doverlo fare.
Poi crollò, ricorda?
Per fortuna la tela non subì gravi danneggiamenti. Le cornici, che furono la causa del crollo, erano state ancorate con dei chiodini.
Una scelta che rientra in una logica di insipienza dell’ente pubblico?
In maniera assoluta. L’ufficio tecnico non eseguì i lavori a regola d’arte.
Tra attualità e contemporaneità, che significano presenza e distacco dal quotidiano, lei sembra propendere per la seconda. Sogno di ogni artista, disse una volta, è di perforare il secolo piuttosto che essere legato al contingente. Questo però significa essere assenti.
Oggi non so dire cosa è importante. A questa età una quantità di illusioni sono spacciate. Resta la felicità del lavoro, a prescindere se perfora o no il secolo. Questa è la realtà forte e consolante.
Non conta dunque testimoniare il proprio tempo?
Il modo di testimoniare l’attualità è fatto di tante specie. Quanto alle arti figurative, non si può più dire che si dipinge il palazzo o il ritratto del principe perché sono cambiate le forme. Sinceramente non saprei dire quale forma si identifica con l’attualità e cosa la esprime.
In quella che Kundera, da lei citato in un suo scritto, chiamava “l’età della bruttezza totale dell’umanità” quanta responsabilità è della politica?
È un’età che viene da lontano. Si hanno età di massima bellezza ed età di massima bruttezza. Adesso, diceva Kundera, stiamo entrando nella seconda: basta vedere come ci concia la gente, la devastazione delle coste, lo sconvolgimento del territorio, il disordine urbanistico. Ma è una questione di cultura, non politica. È una visione del mondo. Un assessore decide di intervenire e un altro no, secondo la cultura e la sensibilità del luogo. Nell’Italia centrale questa sensibilità è molto spiccata, qui invece no. Se la cultura cambia la politica si adegua.
È dunque la politica che fa da specchio alla cultura?
Diciamo che sono in un rapporto di interdipendenza. Ma certo, l’idea che si ha del mondo, della bellezza, dell’armonia appartiene alla sfera culturale.
Allora il suo stato perenne di insofferenza verso la politica perché si è mantenuto tale?
Non è che lo abbia particolarmente sentito. Spesso nasce dal vedere che ci sono inadempienze, che le parole prevalgono sui fatti.
Per questo tanti anni fa si prestò a fare l’assessore a Scicli?
Accettai quella volta perché in quel momento non volevo negarmi a una richiesta di partecipazione alla vita pubblica, ma poi mi sono reso conto che mi era impossibile: non avevo le qualità adatte, né buone né cattive. Bisogna esserci portati e accettare che si parli più che fare. Probabilmente la politica è fatta di queste regole.
Lei ha detto che se la sinistra non è dotata di uno spiccato senso etico non ha ragione di essere. Parlava di etica della politica? 
Parlavo di etica anche individuale, di politiche capaci di perseguire il bene comune. Ma mi riferivo alla politica in genere, non solo alla sinistra. La quale ha il torto di assecondare i personalismi, vagheggiare visioni velleitarie, alimentare l’industria delle chiacchiere vane.