giovedì 15 novembre 2018

Gli impressionisti a Catania, sorprese e segreti

Dici impressionismo e pensi a Parigi, a quei fulminanti dieci anni di piena Belle Époque in cui la pittura tentò di fermare la fotografia sostituendo la posa con la mossa e lasciando gli atelier per riempire il Lungosenna e i boulevard, così scoprendo che è la luce naturale a colorare il mondo e offrire l’esperienza sconvolgente del vero che cambia sotto gli occhi e dà una sensazione momentanea, una impressione appunto.
Fino al 21 aprile quella Paris d’antan e d’après, che ingolosì un gusto artistico per il reale nato contro l’accademismo dei grandi eventi e a favore dei piccoli avvenimenti di strada, al massimo di cafè chantant e di teatri, può essere vista e rivissuta a Catania dove a Palazzo Platamone sono esposte quasi duecento opere – prima volta in Italia – di pressoché tutti i maestri dell’en plein air. I quali artisti ci hanno fatto la sorpresa: per il troppo slancio verso il colore vivo, si è sempre pensato che non amarono granché il bianconero delle acqueforti e delle litografie, sennonché scopriamo adesso che parte di loro ne realizzarono una quantità che si credeva tuttavia modesta e che invece la mostra catanese ha rivelato di un certo spessore, anche riguardo alla qualità, forse superiore alla comune opera di tecnica meccanica di calco e stampa, come pure di pastelli, disegni e monotipi. 
Mancano dunque i grandi capolavori ad olio che hanno fatto l’immaginario dell’impressionismo, ma sono presenti gli elementi costitutivi di esso: che non sono formati tanto dai lavori di incisione quanto da un altro motivo di merito della mostra, ovvero il contributo che all’impressionismo è venuto da artisti precedenti in veste di padri nobili e da altri che hanno operato, come Van Gogh, da fiancheggiatori. E allora l’assenza di una figura quale Toulouse-Lautrec, pur sentita molto contigua agli impressionisti, appare una intelligente scelta di conformità a un criterio che esclude chi ha agito per il superamento della moda della tavolozza al sole (pur avendone frequentato i luoghi deputati come Montmartre e i suoi artisti, a cominciare da Degas), attratto semmai da un cespite che fu anche degli impressionisti, e cioè le stampe giapponesi, e per nulla invogliato – anche per ragioni fisiche – a uscire per strada. 
Entro questa prospettiva troviamo perciò di Van Gogh L’homme à la pipe (Docteur Paul Gachet), grafica in omaggio all’uomo che lo aiutò e incoraggiò a farsi tentare dall’acquaforte – soggetto questo che ispirò anche Cézanne, presente con il suo La maison du docteur Gachet - e di Johan Barthold Jongkind Soleil couchant. Port d’Anvers, una grafica (non a caso) che può considerarsi uno incunabolo del quadro-manifesto dell’impressionismo, Le déjeuner sur l’herbe di Manet, tema che con lo stesso titolo ritroviamo in un altro pezzo esposto, opera di Firmin-Girard, e anticipato a sua volta da Gustave Courbet (anch’egli presente nella mostra) con Les demoiselles des bord de la Seine: segno che da più parti e già da tempo l’impressionismo era stato annunciato con approcci al naturalismo intesi a chiudere i conti non solo con ogni forma di accademia ma anche con il romanticismo e il ricorsivo neoclassicismo.
Si potrebbe allora visitare la mostra seguendone l’intestazione, laddove suggerisce percorsi ma anche segreti. E un segreto è proprio la scoperta di artisti preimpressionisti che pensavano solo, come Delacroix, di épater les bourgeois, creare scandalo per il gusto di rompere la convenzione, mentre invero preparavano il clima a una stagione artistica breve ma ancora oggi rimasta memorabile per il suo spirito maudit e refusé, sostenuta anche da letterati come Zola e Baudelaire. Un percorso è invece quello che riguarda proprio Manet, del quale la mostra propone un olio e un’acquaforte che acquistano interesse come lavori preparatori della grande tela Bar aux Folies Bergère, celebre per il gioco di rispecchiamento tra una cameriera intristita che, davanti a uno specchio sul quale si riflette quanto lei vede, osserva un mondo tanto in festa quanto infollito. Altro percorso è quello dei ritratti, genere che gli impressionisti tenevano molto vivo, al punto da posare tra loro per essere ritratti, fidando sullo spirito di realtà, sia pure sfuggente, che animava tutti. Lo stesso spirito che convinse Wagner, trovandosi a Palermo, a concedersi al pennello di Renoir. Il colmo: un grande romantico visto da impressionista in un incrocio che la mostra etnea propone come un simbolo.


Articolo uscito su la Repubblica-Palermo il 9 novembre 2018