giovedì 6 dicembre 2018

Nemmeno la cultura salva la Sicilia dalla povertà


La scoperta che la Sicilia è la regione più povera d’Europa non ha sorpreso nessuno. Benché ci si aspettasse una pioggia di ordini del giorno, da Sala d’Ercole all’ultimo Consiglio comunale, o quantomeno un’interrogazione parlamentare come segno di turbamento, è invece prevalsa come sempre la rassegnazione a uno stato che può dirsi ormai irredimibile ed endemico.
Già nell’Odissea Laerte lodava la docilità e il servilismo della “vecchia sicula” e del marito Dolo presi come schiavi nella terra dove i Proci suggerivano a Telemaco (ben prima che Ducezio li incitasse velleitariamente alla rivolta) di portare gli stranieri per venderli come servi o barattarli con siculi e sicani: tali che il viceré Caracciolo dirà dei siciliani, altrimenti chiamati “gregge di schiavi”, che “il lungo uso contratto al servire aveva degradato l’anima tanto da far loro gustare qualche dolcezza nelle catene”. Catene che invero non cesseranno più di strozzare l’isola e che nell’ultimo tentativo, generoso e illusorio, di conquistare l’indipendenza sortirà non più che un’autonomia di parata, in parte rimasta disapplicata nei punti dello Statuto di maggiore vantaggio. 
Sennonché questa stessa terra - economicamente così povera e dunque impotente - è culturalmente la più ricca del continente e sfida da sempre il mondo intero quanto a bellezze architettoniche, artistiche e paesaggistiche, testimonianze storiche di ogni epoca, patrimonio mitologico, risorse umane. La sola narrativa conta nomi che hanno segnato il gusto europeo e scritto la storia della letteratura italiana. 
Può allora una regione culturalmente avanzata essere nello stesso tempo socialmente arretrata e ubbidire addirittura a una proporzione inversa per cui più la cultura cresce e più la società regredisce? Come è possibile insomma che un territorio fucina inesausta di scrittori, poeti, artisti, filosofi, scienziati, musicisti, attori e geni anche sregolati, da Archimede a Cagliostro, diventi una landa infelice nella quale Vittorini diceva che si nasce assuefatti a fuggire? 
Al di là del merito che la cultura comunque ha avuto, facendo da contrappeso agli effetti rovinosi del decadimento socio-economico, che chissà quali sarebbero stati senza l’immagine di un’isola desiderabile e celebrata offerta dall’eccellenza culturale, tanta mostra di cultura non ha salvato la Sicilia dal degrado e dalla povertà, per modo che l’interrogativo più urgente e inquietante diventa un altro: perché, diversamente che nel resto del mondo, la cultura non riesce a fare da traino alla società e da volano all’economia? Perché fatica tanto a farsi valere nella crescita sociale se in ogni sapere, dall’arte di Guttuso alla poesia di Tempio e Buttitta, dal teatro di Martoglio alle liriche di Bellini ai romanzi di Verga, Sciascia, Pirandello fino a Camilleri, si è sempre tenuta in prevalenza concentrata proprio sulla questione sociale che è anche la questione meridionale? Ma c’è di peggio: come ha fatto a ridursi sul lastrico quella che Cavour definiva “la sola provincia italiana che abbia antiche tradizioni parlamentari” e che perciò ha conseguito per prima un grado di civiltà equivalente a uno di cultura? 
La risposta è nella lettera che nel 1862 Isidoro La Lumia scriveva a Lionardo Vigo: “I nostri fratelli di terraferma (…) non comprendono che non è il sentimento della civiltà che ci manchi, bensì i mezzi materiali di attuarla e svilupparla pienamente fra noi”. Mezzi naturalmente attesi e dovuti da altri: prima Napoli, poi Roma, quindi Bruxelles. Mai Palermo. Mezzi da trovare senza aiuto altrui, anzi imputando ad altri la propria minorità. Gli spiriti “italianissimi” di cui dopo l’unità d’Italia parlava Michele Amari, ovvero i settentrionali, coniarono un termine – un sobriquet disse lo storico palermitano – che è valso come diagnosi di un male oscuro e incurabile: il sicilianismo, forma questa di ipertrofia della coscienza collettiva stinta in una sindrome di vittimismo di massa che Sciascia ricondurrà a uno stato di natura - il pirandellismo di natura - intendendo “il termine natura non per dire natura, ma per indicare il carattere che risulta da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti”, e che Borgese comprenderà tra “il complesso di inferiorità e lo spirito di grandezza, intrecciati nel destino storico e naturale dell’isola”. 
È questo deficit originario, aggravato dall’Unità d’Italia, a immiserire sempre più la Sicilia per iniziativa soprattutto della sua classe intellettuale. La politica viene dopo come correa, ma è la cultura siciliana – ancor più perché così autorevole e suasiva – la vera responsabile di un fenomeno epocale che dalla sfera del pensiero e delle idee si è ripercosso pesantemente su quella socio-economica. Giovanni Gentile ne colse la drammatica portata in Il tramonto della cultura siciliana, additando nella dissoluzione successiva al 1860 dell’identità di nazione il tarlo che, con la “ripugnanza” per la nuova Italia risorgimentale, romantica e spirituale, rose il tessuto sociale di una Sicilia “sequestrata” dalla cultura materialistica del Settecento classicista e illuminato. Né dopo l’Unità la cultura ha più recuperato il tempo perduto. Quando non si è tradotta in diaspora, è rimasta per fomentare la divisione interna tra escapisti come Bufalino e attivisti come Sciascia (divenuto pure parlamentare), lasciando nel frattempo che la politica affermasse la sua idea tutta siciliana di zdanovismo nelle cui maglie il “tradimento dei chierici” in salsa regionale ha avuto agio di consumarsi al bivio di una scelta tra società e politica, quelle che Vittorini chiamava “le due tensioni”. Gli intellettuali siciliani, compresi in essi i professionisti, non hanno mai visto alcun divieto tra l’una e l’altra tensione, indulgendo piuttosto a passare da quella a questa per stare magari a cavallo di entrambe. In tal modo la cultura ha abdicato al suo ruolo quando proprio in Sicilia, per la sua forza sorgiva, avrebbe potuto deciderne le sorti realizzando il progetto di Platone che a Siracusa vagheggiò un potere affidato agli intellettuali. 
La Sicilia è povera – economicamente, socialmente e culturalmente – perché non è nato alcun rapporto tra le principali grandezze che danno l’impronta a un Paese, necessario non come patto ma come confronto. L’esercizio di una reale iniziativa culturale, che pure è possibile, avrebbe senz’altro favorito la vocazione primigenia dell’isola che è il turismo, stimolando nelle istituzioni politiche la cura dei beni culturali. C’è un precedente storico insigne: furono gli intellettuali del tempo a realizzare a Siracusa l’Istituto nazionale del dramma antico salvando dalla rovina il teatro greco. Ma oggi la Regione non ha nemmeno un assessore alla Cultura ritenendo sufficiente quello ai Beni culturali che però è addetto alla manutenzione dei siti e non a creare idee. 
Secondo Sciascia “il male dei siciliani è che non credono nelle idee”, cioè nella capacità, innanzitutto degli intellettuali, di procurarsi i mezzi che chiedeva La Lumia per fare da soli. Così il fatto nuovo, come diceva Giuseppe Fava, deve venire sempre da fuori. Di qui la trappola del sicilianismo, un virus incubato nel corpo intellettuale e poi trasmesso per contagio a quello politico dove ha trovato l’ambiente ideale per espandersi. 
In questa situazione Musumeci, come tutti i governatori passati, è costretto a impetrare grazie a Roma e vedersi umiliare da Di Maio, il sindaco di Catania sperare in una nuova manna per scongiurare il default del Comune, Palazzo d’Orleans fare da dependance a Palazzo Chigi e Palazzo dei Normanni servire da ambulacro a Montecitorio, mentre lo Statuto diventa oggetto di polemiche se strapparlo e consegnarsi a Roma con le mani alzate e senza onore delle armi. Sintomatica l’esperienza dei movimenti autonomisti come la Rete, Grande Sud, Mpa: nati per la Sicilia, sono cresciuti per avere un posto a a Roma crollando miseramente dopo esserci riusciti. Aspettiamo dunque il fatto nuovo, che venga però da dentro: una presa di coscienza degli intellettuali perché mettano un fossato tra loro e la politica, il superamento del sicilianismo come modello di sviluppo, la risoluzione delle istituzioni che rompano la dipendenza da Oltrestretto e si addicano a trovare i mezzi per fare da soli. Basterebbe puntare sulle due nostre grandi forze: natura e cultura, agricoltura e turismo.

Articolo uscito il 5 dicembre 2018 su La Repubblica-Palermo