tag:blogger.com,1999:blog-91384887424891177402024-03-24T08:11:08.222+01:00gianni boninagiannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.comBlogger582125tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-17674128822335328422024-03-13T17:33:00.001+01:002024-03-13T17:33:52.002+01:00Spie e monaci nella Siracusa di Costante II<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzn6eLPkWbsiNWbO5kJYe-yxRDTUlLt8AORoi4J0N9Py4QSOtKtsXg5AS_BrzFixbUxZaTisgoak8FpWwAb9grd-mpfuAHktPrTM_qCdAti4p79YRV9pazKiL_j7ErrkrHmifsx3ZEvGMZb-5_BJ15QosURy7ROuXgrwBGcVN2domFZ7p7U8zaSHwMSUs/s310/Constans_II_tremissis_81089.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="152" data-original-width="310" height="196" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzn6eLPkWbsiNWbO5kJYe-yxRDTUlLt8AORoi4J0N9Py4QSOtKtsXg5AS_BrzFixbUxZaTisgoak8FpWwAb9grd-mpfuAHktPrTM_qCdAti4p79YRV9pazKiL_j7ErrkrHmifsx3ZEvGMZb-5_BJ15QosURy7ROuXgrwBGcVN2domFZ7p7U8zaSHwMSUs/w400-h196/Constans_II_tremissis_81089.jpg" width="400" /></a></div>Articolo uscito su Doppiozero<br /><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">L’imperatore bizantino Costante II fu ucciso il 15 settembre 668 a Siracusa dove cinque anni prima aveva spostato la capitale da Costantinopoli. Il suo non era stato un colpo di testa, né una rinuncia al proprio mondo. Sull’esempio di due precedenti imperatori d’Oriente (Maurizio, fondatore degli esarcati di Ravenna e Cartagine, ed Eraclio, deciso a trasferire la residenza a Cartagine, dissuaso poi dal Senato), massima fu invece la sua preoccupazione a tenere saldo il retaggio con il Sacro romano impero, nell’idea che non fosse l’Oriente a fortificare uno Stato che in un solo secolo aveva perso larghissimi territori in Occidente.</div><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2IU70GxgMDLLWseHV16HXHLQ-EXoWcPfHIJxQHNkPmxewV4hlKJjzh74QKrpoljLJUrFSYIw7Xsn6HE0FmbipDSoLwoETp9WkSOr2HVwpoL7Fa2dsA7_m3vhXtmWIjcyWD6Q0zso4pi0xhf2iEfgAu_RxlS6p1DYGCYilFSMAY6bASlVEyaU5exPybhY/s260/Solidus_Constans_II_(obverse).jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="253" data-original-width="260" height="389" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2IU70GxgMDLLWseHV16HXHLQ-EXoWcPfHIJxQHNkPmxewV4hlKJjzh74QKrpoljLJUrFSYIw7Xsn6HE0FmbipDSoLwoETp9WkSOr2HVwpoL7Fa2dsA7_m3vhXtmWIjcyWD6Q0zso4pi0xhf2iEfgAu_RxlS6p1DYGCYilFSMAY6bASlVEyaU5exPybhY/w400-h389/Solidus_Constans_II_(obverse).jpg" width="400" /></a></div><br />Prima di stabilirsi a Siracusa (città scelta già dall’esarca ravennate Olimpio come capitale di uno stato italiano separato dall’impero), Costante si era fermato a Tessalonica, Atene, Taranto, Napoli e Roma, decidendo alla fine per la Sicilia allo scopo di trovarsi a ridosso dell’insorgenza araba in Africa.</div><div style="text-align: justify;">La storia non si è preoccupata di scoprire i motivi e i responsabili del regicidio, forse perché tutti non vedevano l’ora di liberarsi di lui: i siciliani per il suo regime di oppressione fiscale, l’Occidente cristiano per il trattamento riservato a Papa Martino, nonché per la diffusione dell’eresia monotelita, e l’Oriente per un potere esercitato a Bisanzio da tiranno fratricida. Raccogliendo notizie di fonte araba, il siciliano Michele Amari, cronista dei musulmani di Sicilia, riporta “una tradizione” secondo cui, sconfitto in una battaglia navale, Costante fu spronato a riarmare una flotta per riprendere Alessandria, ma una tempesta distrusse il naviglio e salvò solo la sua nave finita a Siracusa, dove la gente lo svergognò accusandolo di aver perso tutti i marinai, per cui scaldò un bagno e lo fece morire, anch’egli annegato. Tradizione araba a parte, Amari dà credito piuttosto alla “spiegazione storica” in base alla quale un gentiluomo di corte chiamato Andrea, ungendogli il corpo durante il bagno, uccise con un colpo in testa Costante, così facendo la volontà dei vescovi siciliani che ne avevano dichiarato l’eresia. Anche lo storico slavo Georg Ostrogorsky, uno dei massimi esperti di cronache levantine, nella sua <i>Storia dell’impero bizantino</i> parla di complotto, imputandolo però ad ambienti aristocratici bizantini e armeni, attento tuttavia a stabilire che “sull’attività di Costante II a Siracusa si sa pochissimo”.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkOkb5t0lH4zNh3WkZAZ5FsiK5ZKi0_0SYJUc8rWLbl4b-IsOpYXNdtthbJ3nOorGr_BtsgZT45JdRbSfgqDNTwiZiCauBFH7skWi5r7NOT43JgAP6Np1HU_6TdL3WdbpFDKKEVn25nBcBpWzD9O1mzM8UXlYq9mJF3X0R1yGqo4owg7i8RJPCW_NDD68/s443/La%20verit%C3%A0%20sepolta.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="443" data-original-width="312" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkOkb5t0lH4zNh3WkZAZ5FsiK5ZKi0_0SYJUc8rWLbl4b-IsOpYXNdtthbJ3nOorGr_BtsgZT45JdRbSfgqDNTwiZiCauBFH7skWi5r7NOT43JgAP6Np1HU_6TdL3WdbpFDKKEVn25nBcBpWzD9O1mzM8UXlYq9mJF3X0R1yGqo4owg7i8RJPCW_NDD68/s320/La%20verit%C3%A0%20sepolta.jpeg" width="225" /></a></div>È stata proprio tale certezza ad offrire allo studioso siracusano Anselmo Madeddu il destro per imbastire, davanti al vuoto storico, un grandioso <i>storytelling</i> sospeso tra la fantasia cosmogonica di J.R.R. Tolkien e il rigore scientifico di Edward Gibbon. <i>La verità sepolta </i>(Algra editore) è il primo monumentale volume di una trilogia intitolata “Mistero bizantino” ispirata a quello che l’autore chiama “uno dei più misteriosi gialli medievali”, l’omicidio dell’imperatore romano d’Oriente. Che però sembra l’ultimo motivo di interesse di una ricerca storica di variazione, tentata cioè dalla fantasia, che è certamente titanica, a tratti maniacale e pedantesca, intesa a ricostruire non tanto un <i>old cold case</i> quanto un’epoca, ancor più seducente perché compresa in quei “secoli bui” nei quali persino l’uccisione dell’uomo più potente al mondo avviene lontano dai posteri.</div><div style="text-align: justify;">Pensando a un romanzo da scrivere con i mezzi dello storico, Madeddu ha sortito non un manzoniano “misto di storia e invenzione” quanto una miscela delle due discipline con un abbondante sovrappiù dalla prima. Più che un romanzo storico, abbiamo dunque una “Storia del VII secolo” dove, per l’esorbitanza di dati documentali, il mood dominante diventa nel lettore quello di verificare il loro fondamento, sicché si cerca il romanzo e si trova il trattato: ricchissimo nondimeno di informazioni storiche, termini tecnici, rapporti dettagliati sulla coltivazione del baco da seta, la lavorazione dei mosaici, la preparazione dei farmaci naturali, l’industria della tintoria, il confezionamento degli abiti, le arti e i mestieri. Una enciclopedia che appare uno sfoggio di sapere, ma con il grande merito di aprire finestre su un mondo, quello bizantino, storicamente in ombra.</div><div style="text-align: justify;">Costantinopoli e soprattutto Siracusa sono le due metropoli del tempo che appaiono infatti ricostruite come in un plastico, tale è la meticolosità topografica, ma a meritare la palma dell’acribia è senz’altro la rappresentazione della vita monastica, seguita a spanna da quella delle istituzioni imperiali e dei vari gradi gerarchici. Un vero e proprio manuale di storia, privo solo di note a piè pagina, eppure degno di ogni considerazione per la profondità della ricerca. Che tuttavia non aduggia l’invenzione letteraria perché il romanzo si innesta come una vite nella storia e frutta una trama per la quale l’autore parla in copertina di “thriller storico”, senonché l’intreccio è quello della <i>spy story</i> su scala internazionale, con l’adozione di espressioni moderne del tipo “servizi segreti”, “controspionaggio” e “potenze straniere” che certificano il genere narrativo dell’intrigo spionistico. Una <i>spy story</i> aperta però ad apporti eterogenei (dall’avventura all’odeporico alla <i>detection</i>) che, evocando Indiana Jones e Sandokan, locupletano il <i>plot </i>di un rocambolesco a presa forte ma anche di corrosiva inverosimiglianza: il monaco che salta in groppa a un cavallo volante sopra una fossa di orsi; lo stesso monaco in bilico sui calderoni bollenti della fornace; ancora lui che si lancia con un altro pio monaco alla cattura di due spietati assassini, lasciando i soldati armati di guardia; il commissario di polizia in pensione che veste i panni dell’esperto archeologo e del provetto filologo oltre che di insigne studioso; il monaco guerriero destinato alla santità e in realtà spia del basileo come anche eccelso conoscitore delle Scritture e autorità mondiale in fatto di eresie; il giovane studente che nel 1968 trova documenti antichi più volte tradotti fino alla versione ottocentesca del proprio antenato e decide di scriverne un romanzo, quello che in fondo ha fatto l’autore.</div><div style="text-align: justify;">Le incongruenze che minano la <i>fabula </i>sono anche altre, ma nel complesso possono essere ammesse entro la sfera di improbabilità che è propria di un romanzo essenzialmente concepito in funzione della storia: tende a intonare ottoni ma fa da basso continuo, perché è il “vero storico” a primeggiare. Per renderlo reale Madeddu ha immaginato che uno studente trovi dei codici, costituiti da brevi lettere corredate da lunghi commentari opera di un monaco, Venanzio da Canterbury, invitato a fornire informazioni su certo San Staurachios ai fini di una sua agiografia. Quanto racconta in improbabili “commentari” (che vengono inopinatamente distinti dalle lettere perché lo studente possa riportarli nello stile linguistico corrente, lasciando le prime al registro ottocentesco) costituisce invero il romanzo in sé e insieme la sua stessa sconfessione, giacché è del tutto da escludere che un monaco di lingua latina in difficoltà con il greco possa ricordare ogni parola altrui al punto da riportarne lunghissimi e fedelissimi dialoghi persino tecnici, enigmi in greco e testi scritti, così come da escludere è che possa addirsi, richiesto di occuparsi solo di una persona, a descrivere città, usi e trascorsi, facendo non storia ma geografia.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUN_ppak5n2k5ZnSDpAk3jJbGN1MoM3qZDI0C19iEbFTZFxoffvfdta4fPqn06GO_AMiNAzR0tLQzXOKmIc-UQ-8Za6BBk7vcsAmRDDi3Abnrj1Kl31hcMh-rj-SlzaioOiujJnZ3D8KNlIW6mTC9OQA2-j7k8nXD8yZyqyvIhqKy0n62VCDl0yBRzr7A/s2483/anselmo-Madeddu-3-e1507652640622.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1525" data-original-width="2483" height="197" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUN_ppak5n2k5ZnSDpAk3jJbGN1MoM3qZDI0C19iEbFTZFxoffvfdta4fPqn06GO_AMiNAzR0tLQzXOKmIc-UQ-8Za6BBk7vcsAmRDDi3Abnrj1Kl31hcMh-rj-SlzaioOiujJnZ3D8KNlIW6mTC9OQA2-j7k8nXD8yZyqyvIhqKy0n62VCDl0yBRzr7A/s320/anselmo-Madeddu-3-e1507652640622.jpg" width="320" /></a></div>Il romanzo per il quale è necessario sospendere l’incredulità fatica perché Madeddu ha concepito un modello narratologico di tale complessità che forse sarà chiaro nei successivi volumi: a un autore nascosto (cioè non indotto a intervenire in colloquio diretto con il lettore) che è lui si aggiungono un autore implicito palese che è lo studente, un coautore implicito che è l’antenato autore dell’ultima traduzione, un narratore omodiegetico e autodiegetico (presente nella storia e protagonista di essa, secondo la teoria di Genette), che è il monaco Venanzio, un narratario che è il destinatario di lettere e commentari e non ultimo un lettore-modello che sia capace di decodificare la funambolica articolazione. Troppi gradi di lettura per una materia già di per sé ostica. La scelta di costruire un romanzo sciorinando documenti, come vuole l’abusato criterio del manoscritto ritrovato, stende una polverosa patina storica e fa perdere immediatezza perché non si sente più la voce narrante e anziché un romanzo si legge un regesto.</div><div style="text-align: justify;">Epperò tanta grevità non mina l’intreccio al punto da sterilizzarlo, a motivo dell’abilità dell’autore di guidare il romanzo tenendo le mani sul volante della storia: che riesce perciò a far sembrare vera dando prova di un duro sforzo a non perdere mai di vista il certo storico. E già si immagina il seguito lungo questa direttrice, dacché compare alla fine il sospettato numero uno del regicidio, Andrea, indicato anche da Amari come figlio di Triolo, l’eparchos che ordisce il delitto in combutta con il comandante dell’esercito armeno e altri titolati dissidenti. Dove la storia tace, Madeddu è pronto a colmarla (come nel caso della campagna di Sardegna del basileo e l’alleanza tra Arabi e Longobardi) con elementi di plausibilità che prendono la forma del romanzo ma hanno la sostanza della storia. </div><div style="text-align: justify;">Geniale appare in questo quadro il motivo conduttore di questo primo volume, che non è il regicidio, né l’imperatore che non appare mai una volta, ma la ricerca scientifico-militare diretta a scoprire la formula del “Fuoco d’acqua”, quello che la storia chiamerà “fuoco greco” e che diverrà appannaggio dei Bizantini. La caccia è ai codici che custodiscono il segreto della preparazione, da fare avere allo scienziato bizantino impegnato nella ricerca, Callinico di Heliopolis, legittimamente stanziato da Madeddu, nel silenzio della storia, alla corte imperiale di Siracusa. Ma la caccia è anche ai documenti segreti che rivelano il complotto internazionale per uccidere Costante II.</div><div style="text-align: justify;">La verità è sepolta – di qui il titolo – alla base di uno dei più preziosi e ammirati reperti antichi del patrimonio siracusano mentre le vicende sono montate, tra rivolgimenti e colpi di scena, tradimenti e sconcertanti rivelazioni, nel nerbo di un iter volto al ritrovamento dei codici, proprio in coincidenza con la chiusura della terza delle quattro lettere di Venanzio, di cui ora è attesa l’ultima dopo essere stata salvata da un incendio e restaurata. L’intreccio è così coerente da sembrare nell’ordine delle cose naturali e dunque credibile, tale da essere considerato il portato di scoperte storiche. Coerente sì ma non perfetto, perché non mancano gli infortuni nella concitata escalation degli eventi: l’episodio in cui un monaco si rivolge a un altro e gli spiega che le consonanti ebraiche postulano vocali solo mentali come nella sua lingua (che certamente non può essere l’italiano) si direbbe per la sillaba “CS” che forma parole quali “casa”, “cosa” e “caso”; la volta in cui Venanzio parla di suoi possedimenti in Sicilia passando per siciliano e l’altra in cui, dopo aver detto di non conoscere il greco, ascolta a Costantinopoli un fornaio e un cliente disputare di dottrine monoteliste e monofisiste; il mistero per cui Staurachios, latore di segreti da riferire a Costante e suo agens in rebus, anziché precipitarsi da lui appena a Siracusa, va al monastero dove trova la morte; l’ingenuità di Venanzio di chiedere a un mercante sospetto informazioni capitali e rischiosissime; la sua dichiarazione di non aver impugnato mai una spada dopo aver appena accoltellato un sicario e avere avuto con il compagno monaco una spada tutta per loro; la leggerezza del maestro degli officii Giustiniano di affidare, di sera e da solo, Venanzio al figlio di Troilo, per un bagno alle terme, pur sapendo che il padre ha appena tentato di fare uccidere il monaco.</div><div style="text-align: justify;">E forse sono colpa di un ritmo di scrittura <i>currenti calamo</i>, motivo di un buon editing che sarebbe stato davvero necessario, le zeppe che ricorrono anche nella stesura del testo: i <i>Memoires </i>al femminile, l’inappropriato uso di congiuntivi e virgole, l’eccesso di punti esclamativi e puntini di sospensione, la parola “eco” al maschile, l’inesatta espressione ottocentesca “in non cale”, la sfiancante ridondanza che spinge l’autore a ripetere svolgimenti e snodi riassumendo i fatti nell’ansia di non perdere il lettore. Si tratta di sviste che non avremmo voluto trovare in un romanzo che si raccomanda per la precisione del dato storico e per l’effetto, superbamente ottenuto, di rialbeggiare un’epoca sulla quale un altro storico votato alla narrativa, Umberto Eco, ha concentrato la sua attenzione dando un romanzo, <i>Il nome della rosa</i>, ambientato anch’esso in un monastero e cosparso alla stressa maniera di cadaveri, misteri e segreti, ma posto 660 anni dopo in tempi storicamente più documentati. Non perché spalmato in tre tomi, ma è da dirsi che “Mistero bizantino”, a stare almeno al primo titolo della trilogia, appare superiore quanto a trama, ampiezza di interessi e rapporto tra difficoltà di reperimento delle fonti storiche e risultati ottenuti.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-26387408928764689202024-03-01T10:08:00.006+01:002024-03-13T19:44:40.541+01:00In principio ci fu il West di Baricco<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoWxNTjPx0vh5hjyZoYmboZXlrY5qh0PuiNULB9-yr1kBlhGEYyDAYyuYuQ6v-u9rsB0eaqqfBAjxsdtm4XbjSSyFwfqmh4ZRNU1MPiYWnZ3F68HFJlBqxsmxeWY9lZQ7fejMAKUV7vOhuEiEcsr91GMFz3FFW3Uw0BOAzc0BSwy8csmgC1FKExRXJb1E/s800/Alessandro%20Baricco.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoWxNTjPx0vh5hjyZoYmboZXlrY5qh0PuiNULB9-yr1kBlhGEYyDAYyuYuQ6v-u9rsB0eaqqfBAjxsdtm4XbjSSyFwfqmh4ZRNU1MPiYWnZ3F68HFJlBqxsmxeWY9lZQ7fejMAKUV7vOhuEiEcsr91GMFz3FFW3Uw0BOAzc0BSwy8csmgC1FKExRXJb1E/w400-h225/Alessandro%20Baricco.jpg" width="400" /></a></div>Articolo uscito su Doppiozero<p></p><div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Con <i>Abel </i>(Feltrinelli) Alessandro Baricco esplora un mondo non ancora contaminato dalla <i>political correcteness</i> e lo riporta alle sue scaturigini cogliendone la <i>Winderlness </i>nella <i>religio</i> che a una intera generazione di <i>boomers</i> come lui ha instillato il mito della frontiera, un misto di altrove, scoperta, mistero e indicibile di cui sono rimaste al presente le ceneri e che costituisce un’epica della memoria storica.</span></div><span style="font-size: large;"><span><a name='more'></a></span></span><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Entro questa chiave la sua è un’operazione che, agìta oggi, appare di rottura dell’invalente etica dell’eguaglianza sociale ed etnografica, giacché i pellerossa tornano ad essere “i selvaggi” e i pistoleri sono i cattivi, sia pure in un quadro deformato dove i buoni possono essere sceriffi anch’essi pistoleri, donde un’altra rottura di base, stavolta iconografica.</div></span><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><span style="text-align: justify;"><br /></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVP_ZulzAbivwal5hI2m8IHOwg_AJHsM8lyOJ0GlXfnaPbX8wxs_EuRbnk7saF4opw3ANBgs8KftcsGAIPdYIGNDTOZLuXQkwsGwtTRFktC6draO4hB9X3Zzqvi1Ist6SZ-A4F5ooW_SaZvPllfBwaT9e73FzMgxT5Yw9hs2vIb-vee-ARwgXIsEdTRSs/s665/Abel,%20pp%20154,%20euro%2017.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="665" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVP_ZulzAbivwal5hI2m8IHOwg_AJHsM8lyOJ0GlXfnaPbX8wxs_EuRbnk7saF4opw3ANBgs8KftcsGAIPdYIGNDTOZLuXQkwsGwtTRFktC6draO4hB9X3Zzqvi1Ist6SZ-A4F5ooW_SaZvPllfBwaT9e73FzMgxT5Yw9hs2vIb-vee-ARwgXIsEdTRSs/s320/Abel,%20pp%20154,%20euro%2017.jpg" width="204" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Il Far West di Baricco è allora la terra perduta della fantasia che, libera di cascami moraleggianti, galoppa nella prateria della licenza verso il punto di origine della vita. Per questo non solo il protagonista ma anche gli altri comprimari portano nomi biblici, primordiali, ispirati alla “sostanza” aristotelica delle cose. Con un sapiente gioco a decostruire, l’autore cerca, in sostanza come Battiato, l’alba dentro l’imbrunire: va sempre più ad Ovest per trovare il primo uomo che sorge. E quel che esita è un fulminante corto circuito, un romanzo western dove però manca il West di Cormac McCarthy o Sergio Leone, perché il suo è uno <i>storyteller</i> che integra un mitologema, entro un’idea immaginifica di una teoria metafisica, come egli avverte. West sì, ma nel senso in cui Vittorini nella sua <i>Conversazione</i> intese la Sicilia, che poteva essere perché no Persia. Tant’è che, se nella bibliografia compare un saggio sul panteismo, è a motivo di una ricerca filosofica dell’autore sottesa a un’astrazione del mondo nel cui ambito il Far West non è che l’ultima terra dello spirito libero, ucronica e acronica, desolata e ricorsiva.</div></span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">“Siamo già stati dove non siamo mai stati, e anzi, a dirla tutta, veniamo proprio da lì” scrive Baricco indicando – servendosi come sempre di figure icastiche capaci di evocare suggestioni - quello che chiama “L’Intatto”: il mondo cioè oltre le ultime traversine della Ferrovia che avanza nel profondo West e che circoscrive, oltre agli elementi naturali dell’oscuro e dell’indefinito, anche quello metafisico del destino. È proprio da questo trasfigurato punto spaziotemporale che prende le mosse il racconto di un io narrante che riepiloga la <i>quête </i>di sé stesso di sapore ariostesco ma soprattutto conradiano: il fratello David si lancia improvvisamente oltre il limite e “riga l’Intatto con una crepa al galoppo” quando il padre imbraccia il fucile e spara il primo proiettile che risuona oltre la cortina di civiltà dove gli indiani non sono umani. “Era l’assoluto principio. Tutto poi sarebbe seguito. Era la prima alba di un mondo. Tutto poi sarebbe accaduto”. Per Baricco il Far West comincia al pari del mondo nella narrazione dell’evangelista Giovanni. Con un “principio”, dunque con un atto di creazione: un colpo di fucile sparato da un padre al figlio per dirgli di tornare indietro e non turbare così L’Intatto. In questa Finisterre i Crow mettono radici come contadini e allevatori, trasposizione di Abele e Caino, e assumono la veste di ecisti di un mondo da costruire da zero e di creatori di un’epopea circonfusa tra storia e leggenda.</div><div style="text-align: justify;">Quel che abbiamo è lo stesso Baricco delle evanescenze e dei retrosegni già visto in <i>Tre volte all’alba</i> per la scomposizione del tempo, in <i>Mr Gwyn</i> per lo scambio delle parti e la scomposizione dell’io, in<i> La sposa giovane</i> per la sindrome dell’attesa, ma anche in saggi come <i>I Barbari </i>e <i>Game</i> dove l’indagine della realtà si traduce in una ricerca epistemologica. È il Baricco che usa il romanzo come mezzo per abbattere nuove dimensioni del reale nella ricerca continua di un’ultronea verità.</div><div style="text-align: justify;">Stavolta il romanzo lo ha rotto (una terza concomitante rottura dopo quelle della convenzione politica e della divisione manichea tra buoni e cattivi), portando la struttura narrativa a un grado zero tale che la disarticolazione vorticosa dell’intreccio rende inconsistente la stessa <i>fabula</i>, ridotta com’è a un labile proposito: salvare dal patibolo la madre riunendo tutti i fratelli. La frantumazione dello sviluppo cronologico a favore di una formula diacronica che confonde i tempi e sceglie prolessi e analessi come chiave narrativa, ancor più radicata per l’uso della prima persona quale voce narrante, opera in coerenza con il tema conduttore dell’intero romanzo o metaromanzo che sia: la confutazione da parte del filosofo David Hume del principio di correlazione tra causa ed effetti, principio deterministico che sosterrà tutta la fisica meccanica dopo aver ereditato il pensiero aristotelico. Per Hume non c’è alcuna prova scientifica, se non l’effimero dato empirico, che una causa sia fonte di un preciso effetto reale: non lo sa, ma sta scorgendo gli elementi di quella legge della probabilità che darà le basi alla fisica quantistica.</div><div style="text-align: justify;">Non essendoci nella realtà un prima e un dopo, potendo un effetto apparire addirittura una causa, Baricco concepisce allora un romanzo che, stravolgendo il credo aristotelico di “atto” e “potenza”, dà applicazione alle intuizioni humiane offrendo il più congeniale palco di rappresentazione: quel Far West dove la “bruja”, la squaw sciamana, può dire al giudice razionalista che il tempo non ha un prima e un dopo ma è il respiro del presente. Lo sa bene Abel Crow che divide la sua vita tra un tempo lineare e un altro curvo, tanto che – in rispondenza a principi einsteiniani di astrofisica ancora lontani – parla di “curvatura del mondo” quando richiama il senso di compenetrazione condiviso con uno sfidante: lui che è il migliore pistolero del West cade nell’inganno di credere l’effetto una causa e si prende una pallottola in corpo, ciò che lo porta a deporre le colt, salvo poi riprenderle l’ultima volta nel raid di famiglia per salvare la madre dalla forca.</div><div style="text-align: justify;">Dei tanti romanzi scritti, <i>Abel </i>è quello che Baricco ha in più occasioni detto di amare particolarmente. E si capisce perché, se letto almeno due volte per rintracciarne i fili segreti: l’annullamento della legge newtoniana fondata sul determinismo, così come la prevalenza della dottrina della natura (il libro sacro della bruja preferito alla Bibbia) sulla conoscenza libresca di derivazione aristotelica, quindi la soppressione della freccia del tempo, apre la strada all’inconcreto e alla irrealtà, quindi all’immaginazione e per questa via a un perenne presente (già teorizzato in <i>Game</i>) nel quale regola del mondo diventa la storia, ovvero la narrazione. “Il senso del lungo andare nella vita, scoprire quante storie camminano con noi” è infine la formula segreta del romanzo. E non per caso il padre di Hallelujah, per raccontare la storia della figlia ad Abel, chiede in cambio non denaro ma un’altra storia. Che diventa perciò merce di scambio, moneta per comprare e acquisire il passato come per prenotare il futuro, tempi che non esistono più.</div><div style="text-align: justify;">E questo fa Baricco: racconta storie sparse nel diario personale di un pistolero che conosce Aristotele, Platone e la cultura europea perché è divenuto lettore del suo “Maestro” cieco e appassionato di letture impegnate. Storie disgiunte da quella <i>mainstream</i>, tali da minare il romanzo di disunità e spiegare perché le librerie non lo hanno premiato secondo le aspettative, eppure carsiche e motivazionali, quasi quadri d’epoca: l’assalto piratesco al villaggio Magdalena ricostruito con i colori di un Márquez, l’avanzata a cavallo sotto la tempesta con un misterioso pellerossa che fa da guida, la sventata rapina alla banca, la sparizione di un villaggio minerario per colpa di oscure apparizioni di indiani Nootka, l’enigmatica storia della sella del nonno materno di Abel. </div><div style="text-align: justify;">Aleggia dappertutto, sull’intero West baricchiano, come uno spirito di rarefatta sospensione, di suggerito anziché pronunciato, quasi un’aria di familiarità frammista a un’altra di estraneità. Ne sono testimoni i dialoghi, numerosi e fitti. Esemplare quello a letto tra Abel e Hallelujah, profilato in un nonsenso che sa di pleonastico e di non detto. Senonché è in quelle interiezioni, nelle frasi sincopate, nei rimbecchi franti il Baricco più riconoscibile, dallo stile personalissimo, che ama complicare la scorrevolezza di dettato elidendo i segni di punteggiatura e gli elementi di lettura, nell’intento forse di dare maggior peso all’oralità ma ottenendo di rendere faticosa l’attenzione.</div><div style="text-align: justify;">Ma non per questo <i>Abel </i>ha sudato a tenersi in classifica. Le tante implicazioni gnoseologiche che comporta lo hanno tenuto distante dal gusto <i>mass-cult</i> che oggi predilige il romanzo di facile consumo, né gravoso né fumoso, magari politicamente corretto e interpretabile senza sforzo nella distinzione degli eroi. Il genere sapienziale e dottrinale mal si accorda con il nostro tempo e <i>Abel</i> paga il prezzo dell’attuale scontento. Ma questo Baricco lo sapeva già meglio degli altri prima di mettere mano al suo <i>conte philosophique</i>. E ora non fa che compiacersene. A ragione.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-28647961921902810992023-12-14T17:08:00.002+01:002023-12-14T17:08:22.078+01:00Whitehead e la sindrome di Harlem<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinUMsrIWTjuuSi3NEsiIuy_AjofN4S3sY7c1x0ztPElLTXLqjCjO73uljzGXvowfmjQemnbYi_SBWxOxsbDIz0AAp1Nab_SBAUjaDcU7oGBNpPWHxjri7J-6oHGouA2SJbw3i14jSAdlnFQ-L7Z2RIDWoIpp7smUpYl42bvPs04xjVUFCCBW0Q1i2jk5Y/s1136/Whitehead.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="852" data-original-width="1136" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinUMsrIWTjuuSi3NEsiIuy_AjofN4S3sY7c1x0ztPElLTXLqjCjO73uljzGXvowfmjQemnbYi_SBWxOxsbDIz0AAp1Nab_SBAUjaDcU7oGBNpPWHxjri7J-6oHGouA2SJbw3i14jSAdlnFQ-L7Z2RIDWoIpp7smUpYl42bvPs04xjVUFCCBW0Q1i2jk5Y/s320/Whitehead.jpeg" width="320" /></a></div>Articolo apparso su Doppiozero<br /><p></p><div></div><div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il primo libro, <i>Il ritmo di Harlem</i>, della trilogia di Colon Whitehead, uscito in Italia nel 2021, comincia così: “Suo cugino Freddie lo coinvolse nella rapina in una calda sera di inizio giugno. Ray Carney stava vivendo una delle sue giornate frenetiche – uptown, downtown, sfrecciando da un capo all’altro della città”. La Città è quella che nel 1992 il premio Nobel Toni Morrison assumeva a indistinto mondo del suo romanzo <i>Jazz </i>ed è Manhattan: “Questa Città mi piace un casino. La luce del giorno fende gli edifici come la lama di un rasoio, tagliandoli in due”; e più avanti: “Una città così mi fa volare e le cose me le fa sentire dentro. Brrr”.</span><span style="font-size: x-large;"><a name='more'></a></span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Ma trent’anni dopo, lo scrittore anch’egli afroamericano e vincitore (due volte) del Pulitzer e di altri premi, ricordando la City degli anni Settanta, chiude i conti con le lusinghe, ereditate dalla Morrison, della “Harlem Renaissance” sostenuta da Langston Hughes, Zora Neale Hurston, Countee Cullen e altri autori dei mitici Anni Venti e Trenta sottesi al sogno del quartiere nero di diventare icona culturale. In <i>Manifesto criminale</i> (secondo titolo uscito quest’anno da Mondadori, tradotto anch’esso da Silvia Pareschi) la centralissima Herald Square nel midtown diventa esempio tralignante: “Qualche chilometro più su, Harlem cominciava il suo declino, nei casermoni bruciati pieni di fantasmi, nei negozi che non riaprivano mai, nelle scuole senza libri di testo. Nei decenni successivi Herald Square l’aveva raggiunta. Si raggiungono sempre le conseguenze di come hai scelto di vivere e gli abitanti della città stavano facendo cattive scelte”. La City nera si era tinta di bianco. E viceversa. “Una volta il ghetto era il ghetto, ora l’intera città è il ghetto”.</div></span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgtcz71WYSl-cCx0Y-IXBIYBLbmeZVDc5VLRCDKTBhJHLn7nlSWI9jCBcu3aREAm8oDJzfpXunHkYFGkbdmmNHOStNrMyJFhZg02oPtHkCVCq8YS4iT-YrJ3FE_XqvGDZg6C9kyZK41_OmRPiwTOdNOOT2DavJIrINvSg-711AB1K7TsCtbeKzyTqarGBE/s675/Manifesto%20criminale.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="675" data-original-width="432" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgtcz71WYSl-cCx0Y-IXBIYBLbmeZVDc5VLRCDKTBhJHLn7nlSWI9jCBcu3aREAm8oDJzfpXunHkYFGkbdmmNHOStNrMyJFhZg02oPtHkCVCq8YS4iT-YrJ3FE_XqvGDZg6C9kyZK41_OmRPiwTOdNOOT2DavJIrINvSg-711AB1K7TsCtbeKzyTqarGBE/s320/Manifesto%20criminale.jpg" width="205" /></a></div>Proposta come “un esilarante dramma morale mascherato da poliziesco”, la trilogia di Harlem, profilata in una patina di umorismo amaro e beffardo, è piuttosto un dolente epicedio sulle sorti di una condizione sociale e umana che si perpetua nello spirito della separazione razziale e che ha dismesso ogni vagheggiamento di rinascimento: la stessa condizione che per la cultura araba è stata la “Nahda”, il vano sogno di una rinascita infranto a contatto con l’Occidente e per colpa di esso. Allo stesso modo, nel processo di integrazione con i bianchi, i neri sono spinti a emularne i fasti e mutuarne i modelli ma, secondo Whitehead, hanno finito per guastarsi, giacché la supremazia bianca, responsabile dello stato di degrado radicato persino del cuore della City, ha portato la Harlerm dello swing, del jazz e del gospel a contaminarsi.</div><div style="text-align: justify;">William Munson, detective bianco e corrottissimo, è la prova della City allo sfascio: “L’uomo e la sua città erano versioni diverse di sé stessi, braci che si seppellivano sotto strati della propria cenere”. Munson è l’uomo che con Ray Carney, il personaggio principale della trilogia, commerciante di arredi-casa, figlio di un criminale di primo piano, insospettato ricettatore di preziosi, stabilisce un rapporto di fagocitazione che diventa connivenza e correità. E Alexander Oakes, politico nero altrettanto corrotto, già poliziotto, non è che il rovescio di Munson. Le cime, nella cosmogonia di Whitehead, si sono congiunte in un groviglio di trame illecite e oscure: Oakes, amico d’infanzia della moglie di Ray, vuole mettere le mani sulla City candidandosi alla presidenza del Distretto, ma nell’ambizione di scalzare i bianchi, finisce ucciso proprio da loro, rispondendo così a una teoria di Whitehead: i criminali bianchi delinquono e portano a segno “colpi grossi” o vincono il Jackpot, mentre quelli neri non delinquono ma “scavalcano”, cercano cioè “il modo di aggirare le regole dei bianchi”, ciò nell’assunto che i neri sono sostanzialmente onesti.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQWkJVO6Wj20XwFRnrFzdZlwli9VOJq-t2IVxEUnrdt5lThS40sNLb_4FpUTkDvLiFYxLPkF5PmUwaW9PESOx3mNDtwxhipwnjTqXtlUQoAZQtpDoiQ0s3JZHx6C1Eq5VrSa39tmebA0rvGhUQ2_Hv997XeV5wx9w4qZ2RH99K2Zz2c7t02ai3n6aW9Ls/s823/Il%20ritmo%20di%20Harlem.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="823" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQWkJVO6Wj20XwFRnrFzdZlwli9VOJq-t2IVxEUnrdt5lThS40sNLb_4FpUTkDvLiFYxLPkF5PmUwaW9PESOx3mNDtwxhipwnjTqXtlUQoAZQtpDoiQ0s3JZHx6C1Eq5VrSa39tmebA0rvGhUQ2_Hv997XeV5wx9w4qZ2RH99K2Zz2c7t02ai3n6aW9Ls/s320/Il%20ritmo%20di%20Harlem.jpg" width="208" /></a></div>Più volte in <i>Manifesto criminale</i> (che non può essere letto indipendentemente da <i>Il ritmo di Harlem</i>, costituendone non una prosecuzione diegetica ma una componente strutturale, tanto che l’autore era partito con l’idea di un solo romanzo e non di tre) Whitehead ripete il convincimento della supremazia bianca in rapporto alla capacità di “scavalcare” dei neri, che trovano “sempre una soluzione, anche nelle più misere circostanze, altrimenti saremmo stati sterminati dai bianchi molto tempo fa” scrive in Il ritmo di Harlem. Precisa in <i>Manifesto criminale</i> che “in un mondo così meschino, stupido e crudele, ogni giorno in cui i bianchi non ti hanno ancora ammazzato è una vittoria”. E in un altro passo testimonia l’umore di un nero braccato e insonne che aspetta l’alba: “La luce del sole voleva dire che i bianchi non l’avevano ancora ammazzato”. La sindrome di Harlem è la febbre e il lenitivo al tempo stesso di una coscienza popolare di cui si fa interprete Carney, “entrato in quella fase della vita di un nero in cui certe mattine l’unica cosa per cui alzarsi dal letto era la prospettiva di raccontare storie dei Primi Neri e visionari trascurati della loro razza”.</div><div style="text-align: justify;">Ray Carney è una figura che offre di Harlem l’immagine di un mondo sospeso: uomo dal doppio volto e forse di duplice natura, quanto più prova a tenersi nella legalità, tanto più finisce invischiato in malaffari fino alla rovina. Vuole procurare dei biglietti ai figli per un concerto e si rivolge a Munson che lo trascina in una serie di reati; vuole che sia fatta giustizia su un bambino vittima di un incendio doloso e arriva ad avere il negozio messo a fuoco. Carney è l’eponimo di uno stato sociale fissato in uno statuto: “Un uomo ha una gerarchia del crimine, di ciò che è moralmente accettabile e di ciò che non lo è, un manifesto criminale, e chi aderisce a un codice inferiore è uno scarafaggio. Un niente”. Il “manifesto criminale” di Harlem non dà scampo. Il bene non può che evolvere in male.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_2s_UTqeyAcuMeSu6p1hRlIldeKXOhY0CN-K4WR3WnCqo2OHN7Df5j5U94jfvMaUcwJt47YTZlOBEo2egKxwZ1kZfxa2qNR_Q7qQvIAJ0dbCeejxnALKM5kLfWQQlgVyq_puGReoP7sbRHRdbN9QGT5cp4L5SUNO2kX_oQXosU65Z9Lu1_BHov2fSaTo/s2248/Colson%20Whitehead.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2248" data-original-width="1500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_2s_UTqeyAcuMeSu6p1hRlIldeKXOhY0CN-K4WR3WnCqo2OHN7Df5j5U94jfvMaUcwJt47YTZlOBEo2egKxwZ1kZfxa2qNR_Q7qQvIAJ0dbCeejxnALKM5kLfWQQlgVyq_puGReoP7sbRHRdbN9QGT5cp4L5SUNO2kX_oQXosU65Z9Lu1_BHov2fSaTo/s320/Colson%20Whitehead.jpg" width="214" /></a></div><br />Avendo abituato il suo pubblico a romanzi di tipo ucronico-fantastico (<i>La ferrovia sotterranea</i>), autobiografico (<i>La nobile arte del bluff</i>), documentaristico (<i>I ragazzi della Nickel</i> e <i>John Henry Festival</i>), del genere della commedia brillante (<i>Apex nasconde il dolore</i>) e nostalgica (S<i>ag Harbor</i>), Whitehead è stato visto anche stavolta come un colorista, uno scrittore impegnato nel tratteggiare il carattere nazionale degli americani, sulla scia di autori mainstream, che pure hanno con cura indagato New York alla ricerca della sua identità, quali Saul Bellow, Philip Roth, Don DeLillo. Un malinteso, sul quale lo stesso autore non è stato nelle sue interviste e presentazioni del tutto chiaro, forse per non confondere i lettori. La trilogia di Harlem ha invece molto del drammatico, venato non tanto di ironia quanto di sapido. E se è vero che porta la maschera del poliziesco, di esilarante non ha proprio niente se non uno stile linguistico del parlato sintetico tipico in autori del nostro tempo come Don Winslow e Cormac Mc Carthy, che si servono del lessico della strada, scorciato, lapidario, perlopiù fatto di proposizioni nominali, più voce che scrittura: uno stile che può indurre al sorriso, ma che nulla toglie al tono di denuncia e di sconforto, quasi un disperato grido di dolore, che Whitehead ha inteso stavolta levare.</div><div style="text-align: justify;">Semmai è ad altri autori più recenti, boomers e millennials, che occorre accostare lo scrittore di colore, in particolare alla grande triade Usa del momento, formata da Jonathan Safran Foer, Jay McInerney e Bret Easton Ellis. Escluso quest’ultimo, che pure si è mosso nel campo della disamina sociale, ma occupandosi di Los Angeles, gli altri due hanno offerto significativo materiale di riflessione sulla Grande Mela di oggi (<i>Molto forte, incredibilmente vicino </i>sul dopo 11 Settembre il primo e <i>Le mille luci di New York</i> il secondo) non però sul piano della ricerca dell’identità collettiva bensì degli errori, dei guasti e delle storture che hanno determinato un condiviso stato di degrado. Colon Whitehead è però il solo nero e perché tale, dopo il successo dei precedenti romanzi, è uscito allo scoperto con un’opera che non è un thriller né un hard boiled, ma un documento che pretesta una fabula narrativa per addurre una controstoria civile di Harlem partendo dalla fine degli anni Cinquanta e probabilmente arrivando con il terzo volume quasi alla fine del secolo scorso - non di più se Ray Carney rimarrà sulla scena senza essere centenario. <i>Il ritmo di Harlem </i>ha ricostruito gli anni Sessanta, <i>Manifesto criminale</i> il decennio successivo, l’ultimo occuperà il resto della parabola di un uomo comune in lotta contro il mondo e sé stesso. Che ha così fortuna nel commercio e nel riciclaggio da aprire il suo negozio sulla 125th Street, esattamente nel cuore di Harlem.</div><div style="text-align: justify;">A ben vedere, nei primi due titoli quel che conta non è la ribalta sulla quale si muovono i personaggi, ma lo sfondo dove trascorre la storia recente del quartiere e di tutta Manhattan. L’acribia con la quale l’autore ne rileva vie, locali e vicende storiche tradisce l’intento di raccontare la città piuttosto che i suoi abitanti, proprio nell’ambito di una definizione di quartieri che costituiscono forme di enclave autonome. Harlem è uptown, area da tenere ben distinta da midtown e downtown anche nei modi e nei costumi, oltre che nell’accento. Il cineasta, anch’egli criminale, Zippo Flood “downtown avrebbe respinto il personale della maggior parte dei negozi. Chi cavolo è questo hippy nero in pantaloni di pelle di serpente e blusa giallo fosforescente. Uptown non sembra affatto strano, anzi. Addirittura conformista in alcune cerchie”. </div><div style="text-align: justify;">E Pepper, l’amico di Ray, ovviamente criminale, quando va downtown scopre con disappunto che i locali hanno un solo ingresso e resta spiazzato davanti alle Twin Towers, che “apparivano all’improvviso, liberate da una svolta nella strada. Incombevano sulla città come due sbirri che cercavano di capire per cosa potevano pizzicarli”. La sua idea di Lover Manhattan tradisce la concezione che ne ha lo stesso Whitehead: “Pepper era abituato alla versione di quella gente che vedeva in 125th Street, con i vestiti da barbone e l’atteggiamento insolente. Faceva fatica a comprendere la versione bianca che popolava downtown, soprattutto per quanto riguarda barba e capelli. Abbigliamento hippy a parte, in genere i neri avevano barba e baffi ben regolati e un’acconciatura afro impeccabile. Quei ragazzi bianchi andavano in giro con certa roba in testa che… be’ i gatti randagi morti che marcivano dietro i bidoni della spazzatura erano messi meglio”.</div><div style="text-align: justify;">Whitehead ha chiaro anche l’identikit del bianco razzista: “Capelli pettinati all’indietro come in un ritratto da museo e il loro candore faceva risaltare l’incarnato roseo della faccia lunga, bitorzolata sui lobi, sulle guance e sul mento. Gli occhi azzurri manifestavano una rabbia fredda, a stento trattenuta. Non c’erano dubbi: era una faccia da razzista, più da razzista Bifolco del Sud che da razzista Padre Fondatore del New England”. A dispetto dunque di ogni principio di tolleranza e di qualsiasi avanzamento nel processo di integrazione, è proprio Whitehead a segnare le differenze e parlare di razzismo. Che evidentemente vede e vive. L’America “crogiolo e polveriera”, come egli la chiama, è ancora oggi quella della discriminazione e dello scontro. </div><div style="text-align: justify;">“L’America era grande e segnata da vergognose chiazze di violenza e intolleranza razziale” si legge in <i>Il ritmo di Harlem</i>, sicché Zippo può dire in <i>Manifesto criminale</i> che il segreto di un film Blaxploitation, genere in voga nella Harlem degli anni Settanta produttrice di pellicole fin troppo politicamente corrette, quando i bianchi ubbidivano ai neri, è semplice: “Dai una pistola a un nero e fagli ammazzare po’ di bianchi”. L’approccio a questa visione delle cose è nel modo in cui viene presentata Lucinda, l’attrice nera protagonista di <i>Agente segreto: Nefertiti</i>, il film di Zippo, fatta credere una donna povera di Harlem, ma in realtà una “forestiera”, nell’idea che una ragazza povera di Harlem piaccia più di una ragazza dei sobborghi. “Dici Harlem e i bianchi si mettono subito delle idee in testa”: di ammirazione per una nera che ha avuto successo nel cinema. Un altro inganno alla Harlem per “scavalcare”.</div><div style="text-align: justify;">Scavalca Ray Carney quando, in <i>Il ritmo di Harlem</i>, si fa convincere dal cugino Freddie di fare un colpo temerario all’Hotel Theresa, che “era come pisciare sulla Statua della libertà”. Scavalca ancora Carney in <i>Manifesto criminale </i>quando segue Munson come “copilota della sua furia distruttrice nella sua corsa di kamikaze attraverso Harlem” finendo ad avere a che fare addirittura con il Black Panther Party e le sue forsennate “Pantere”, militanti della liberazione nera, di fatto anch’essi criminali. E scavalca sempre Carney quando incarica Pepper di scoprire i piromani di un edificio nel quale stava per morire un bambino, finendo fra le grinfie dei “liquidatori”, la sfera occulta che riunisce politici, poliziotti e criminali bianchi e neri dedita a incendiare palazzi per ricostruire e specular0 sui benefici statali relativi al rinnovamento urbano, fenomeno che ha segnato per sempre la City puntellata com’è di scale esterne antincendio divenute caratteristiche quanto il suo Skyline. Gli incendi di Harlem, molti dei quali appiccati dagli stessi inquilini per ottenere gli incentivi al trasloco, hanno ridisegnato il quartiere al pari dello scisto, la roccia granitica sotto Manhattan che ha stabilito “dove poteva passare la metropolitana” e dove costruire grattacieli. Con la sua trilogia, Whitehead sembra che abbia pensato di scavare nello scisto più profondo di Harlem.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-20073737959255583572023-11-20T07:35:00.023+01:002023-11-20T07:43:04.906+01:00Gioco di mani, gioco di posizioni<p></p><div style="text-align: left;"> <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOK5BE-bMPWQ87AgNLGSEk6pnsRenoq-qBMYmBK2lCmbM3Ncd0jkh9j3V2pbyS5WqzB6z877FdhZcf45dG5c4ENlTuAk_4YBY0TAaY7KYPS4bQjFBTyVii8AfloxRRByn94Z7mymfHT0zoNptruHwKQC5Sa2JFyzHR41z4WPTbNBFwg6cY6XtoZVjNRsI/s3000/Bidyguard%20in%20uno%20spot%20Tv.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2176" data-original-width="3000" height="232" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOK5BE-bMPWQ87AgNLGSEk6pnsRenoq-qBMYmBK2lCmbM3Ncd0jkh9j3V2pbyS5WqzB6z877FdhZcf45dG5c4ENlTuAk_4YBY0TAaY7KYPS4bQjFBTyVii8AfloxRRByn94Z7mymfHT0zoNptruHwKQC5Sa2JFyzHR41z4WPTbNBFwg6cY6XtoZVjNRsI/s320/Bidyguard%20in%20uno%20spot%20Tv.jpg" width="320" /></a></div><span style="font-size: medium;">Articolo già uscito su Doppiozero</span></div><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Facile dire “metti le mani a posto”, più difficile sapere qual è il posto. In un romanzo del 2002 di Enzo Siciliano, <i>Non entrare nel campo degli orfani</i>, un uomo anziano a letto si chiede supino quale sia la loro posizione più appropriata perché non si senta, tenendole lungo i fianchi o sulla pancia, una salma. La posizione delle mani è un deficit del corpo umano di per sé armonioso, simmetrico e funzionale: non hanno (più che le braccia) una loro posizione naturale, di default, come invece le gambe, per cui non sappiamo mai dove e come metterle.</div></span><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;">Come muoverle è invece un aspetto che riguarda la gesticolazione e non la postura. Se perciò cosa farne è un atto, dove tenerle è una potenza che si realizza perlopiù da fermi e zitti, al contrario dei gesti che accompagnano dinamicamente parlanti in movimento. Quando la maestra dice agli scolari di stare composti non intende che smettano di gesticolare ma di prendere una posizione adeguata stando fermi, in silenzio e con le mani sul banco o sulle ginocchia.</div><div style="text-align: justify;">Il gesto delle mani dura il tempo che si esprima un’emozione ed è momentaneo, mentre la loro posizione ha una durata in rapporto a uno stato d’animo e termina con esso. L’allenatore che alza le mani in aria per segnalare all’arbitro un fallo compie un gesto, quello che passeggia nell’area tecnica con le mani in tasca assume invece una posizione. Il primo comunica un umore, il secondo trasmette un modo d’essere.</div><div style="text-align: justify;">Uno scrittore che ha saputo ben distinguere gesti delle mani e loro posizioni, secondo rispettivamente manifestazioni del pensiero e stati d’animo, è Giovanni Verga, che molto si serve della mimica dei personaggi, elemento descrittivo-narrativo tipico del gusto ottocentesco, per dare loro non solo visibilità ma anche personalità. L’autore de <i>I Malavoglia</i> e di <i>Mastro don Gesualdo </i>fa mettere le mani in tasca, sotto le ascelle, dietro la schiena, sotto la gonna, sul ventre, perché le sue figure compiano azioni identificative di sé stesse: al pari di Alessandro Manzoni che ne <i>I promessi sposi</i> introduce Perpetua a tu per tu con don Abbondio dando conto della posizione che prende più che di quanto lei dica, giacché la vediamo irta “con le mani arrovesciate sui fianchi e le gomita appuntate davanti guardandolo fisso”: atto che denota, perché espressivo e immaginiamo ricorsivo in altrettanti casi per la sua icasticità, un connaturato modo d’essere e non solo un subitaneo moto di agitazione.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhY4Q2qWV57mNwinWwd5IeX1A0J-9oelTfAtwqqZb63HcFU1vHa4ElU8A2H9h9Wq6_0lbA_cs33MPOBuibnlzHaIuE6Eth1e-oOCHFr5eFUoLTESlRG5Nw0Wy7di3mxw_XVOuFDONQDU-Z_t2Kc-7jJPrEAkISqYH7s2KjNb6S-88V5rrxUkoHSgQusmDE/s450/Anziani%20a%20passeggio%20con%20le%20mani%20dietro%20la%20schiena.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="337" data-original-width="450" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhY4Q2qWV57mNwinWwd5IeX1A0J-9oelTfAtwqqZb63HcFU1vHa4ElU8A2H9h9Wq6_0lbA_cs33MPOBuibnlzHaIuE6Eth1e-oOCHFr5eFUoLTESlRG5Nw0Wy7di3mxw_XVOuFDONQDU-Z_t2Kc-7jJPrEAkISqYH7s2KjNb6S-88V5rrxUkoHSgQusmDE/s320/Anziani%20a%20passeggio%20con%20le%20mani%20dietro%20la%20schiena.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Anziani a passeggio</td></tr></tbody></table><br />Anche Verga mostra i suoi vinti e i vincitori in pose espressive. In <i>Mastro don Gesualdo</i> Santo “se ne andò sull’uscio accigliato, colle mani sotto le ascelle, guardando di qua e di là” e ne <i>I Malavoglia</i> padron ‘Ntoni “andava dicendo colle mani sotto le ascelle” che bisognava fare provvista di sale, mentre ‘Ntoni la domenica “si godeva quelle cose che si hanno senza quattrini, il sole, lo star colle mani sotto le ascelle a non far nulla” e poi “girandolava pel paese colle mani sotto le ascelle”. Sottile la differenza con quanti Verga tiene invece con le mani dietro la schiena. Ne <i>I Malavoglia</i> vediamo padron Ntoni che per una volta “se la godeva anche lui colle mani dietro la schiena e le gambe aperte”; zio Crocifisso “ch’era lì anche lui a vedere [la Provvidenza distrutta, nda] e non faceva altro che passeggiare per la straduccia colle mani dietro la schiena che pareva il basilisco”, come fanno la Vespa che “dondolandosi appoggiata allo stipite, colle mani dietro la schiena, e intanto lo guardava [zio Crocifisso, nda] con gli occhi ladri”, e don Silvestro che “se ne andò anche lui colle mani dietro la schiena e la testa carica di pensieri”.</div><div style="text-align: justify;">Poi ci sono i personaggi del <i>Mastro don Gesualdo </i>come zia Cirmena “con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile”, ne <i>I Malavoglia</i> gli uomini della paranza che, “seduti sul fondo, colla schiena contro il banco e le mani dietro il capo, cantavano delle canzonette”; infine quelli con le mani in tasca: “Rocco Spatu colle mani in tasca che tossiva e sputacchiava”, Alessio che “s’era scaricato del suo fascio e stava a guardare dall’uscio serio serio e colle mani nelle tasche”, il figlio della Locca che “era lì fuori colle mani in tasca perché non aveva un soldo”, ancora zio Crocifisso che “non faceva altro mestiere e che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani in tasca” e poi “seguitava a borbottare e brontolare colle spalle al muro e le mani ficcate nelle tasche”, per finire con la scena di famiglia che si mostrava a “ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche”. Sembrano tutte posizioni delle mani che si equivalgano se non fosse per leggere sfumature, squisitamente verghiane, capaci di spostare di poco un modo d’essere da un altro e una contingenza da un’altra anche nello stesso personaggio.</div><div style="text-align: justify;">Uomini e donne fanno in Verga uso delle mani indiscriminatamente, salvo per quelle in tasca, ma se guardiamo sin dalla più remota ritrattistica scopriamo come mentre le donne si sono date soluzioni anche molto eleganti sia in piedi che sedute, gli uomini hanno continuato a mostrarsi goffi: e più provano a mutuare pose femminili più si rendono equivoci, salvo il caso di un prete che, quando congiunge le mani, anche per non pregare, conferisce alle mani una posizione <i>naturaliter </i>congrua.</div><div style="text-align: justify;">Femminili sono, oltre a questo sacerdotale, i modi di incrociare le mani sì che una tenga le dita dell'altra su un fianco o sul grembo, sia distese che con le braccia ad angolo, tenere una mano nel pugno dell’altra sollevandole entrambe a mezz’aria, rilasciare una sul fianco e piegare l’altro braccio verso il busto: sono tutti modi originali e come studiati in studi fotografici di moda, proprio dal cui ambito è nato, guardando alle modelle, il repertorio delle posizioni femminili più convenienti e acconce.</div><div style="text-align: justify;">Di ambo i sessi sono invece le posizioni delle braccia lungo i fianchi, soprattutto nelle foto cerimoniali ad opera di esponenti politici e alla maniera dei soldati. Attenzione però alle mani se sono distese o chiuse. Ne<i> I fratelli Karamazov</i>, Ivan Fedorovic “salutò con grande cortesia e contegno, ma tenendo anch’egli le mani strette lungo i fianchi”: nascondendo quindi una contrarietà nell’obbligo formale di apparire condiscendente. Le mani aperte e le braccia distese, come raccontava Corrado Alvaro del modo in cui Luigi Pirandello andava incontro ai suoi ospiti, esprimono un’amabilità priva di infingimenti.</div><div style="text-align: justify;">Sono infatti le mani che tradiscono il contegno. Rilasciate e molli, come nelle indossatrici, indicano affettazione, mentre aperte e con le dita unite segnalano marzialità, che è propria del soldato in fazione. Nell’iconografia medievale il palmo aperto e sospeso era il segno dell’accettazione e della messa in ascolto, ma nel tempo esso è evoluto fino a diventare il gesto del giuramento, assumendo un significato di solennità e integrando quindi una manifestazione di volontà. Di qui il mutamento che nelle arti figurative di ogni tempo si ha del gesto che diventa segno quando il primo è molto reiterato. Diciamolo meglio. Nell’iconografia domina generalmente il gesto perché è in relazione al racconto che l’immagine realizza, ma se quel gesto si identifica troppo con la figura che lo compie, magari perché celebre o perché ripetuto, tende a mutare in posizione e quindi in stato d’animo permanente e in un modo d’essere, ovvero in un carattere che si esprime quindi in un segno:<i> signum individuationis</i> appunto.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi2x7VyvVhoUtiyr6njJOTVQhVqHYCZvcwYA6XL753XC8Xx5idM3rr-6Nw16Tzz2F53eD3yW2_PIfu4nAVw5A5lG2c_RnL8o3CocdEw-yK_C5Ib8-1M7H6RecvCQ4SE2VyhBdx5Gn7v5Glm3bN33gGBlOzEYapgX-i-W8xSsenxtD82nj1C8fVWJ6mc8V0/s715/Romanzo%20della%20Rosa,%20La%20Tristezza.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="715" data-original-width="691" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi2x7VyvVhoUtiyr6njJOTVQhVqHYCZvcwYA6XL753XC8Xx5idM3rr-6Nw16Tzz2F53eD3yW2_PIfu4nAVw5A5lG2c_RnL8o3CocdEw-yK_C5Ib8-1M7H6RecvCQ4SE2VyhBdx5Gn7v5Glm3bN33gGBlOzEYapgX-i-W8xSsenxtD82nj1C8fVWJ6mc8V0/s320/Romanzo%20della%20Rosa,%20La%20Tristezza.jpg" width="309" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">"Romanzo della Rosa":.La Tristezza</td></tr></tbody></table><br />Esemplare il caso della miniatura della Tristezza del <i>Romanzo della Rosa</i>, dove una donna è raffigurata seduta, piegata e le braccia incrociate sulle gambe con le mani flosce e non più rigide. Il gesto delle mani flesse è nel quattordicesimo secolo un eponimo della tristezza, come lo è anche nel diciannovesimo, se in <i>Mastro don Gesualdo</i> Diodata “si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni tra le gambe” e troviamo don Gesualdo “seduto su di un sasso, le mani fra le cosce, penzoloni”. Oggi indica una maniera femminile raffinata e sofisticata, molte volte regale, di presentarsi in pubblico.</div><div style="text-align: justify;">In un uomo la mano fessa deporrebbe invece a svantaggio della sua virilità, dacché propriamente maschili sono le mani ai fianchi alla Mussolini, in tasca, conserte, incrociate dietro le spalle e congiunte davanti. Il modello di riferimento maschile è proprio il soldato nelle due tipiche posizioni dell’attenti e del riposo. L’uomo occidentale moderno ne ha copiato il significato intrinseco di ufficialità pubblica e rilassamento privato. Chi medita o si trova a passeggiare tra amici incrocia le mani dietro la schiena, mentre chi è in un’occasione pubblica o tra autorità si irrigidisce in un atteggiamento marziale. La variante è quella del bodyguard che tiene le mani davanti a forma di V impugnando una con l’altra: segno di forza, sicurezza, protezione; ma la stessa posa è anche del maggiordomo e del portiere d’albergo sulla strada, che devono infondere disposizione d’animo e senso di accudimento. Non molto diverso è il significato delle mani distanziate una dall’altra ma con le braccia incrociate sul petto e non sul bacino: nell’estetica medievale manifestavano l’idea di una subordinazione e di una minorità, mentre oggi le braccia conserte valgono come segno di sfida, di dimostrazione di forza e stato di attesa dello scontro fisico.</div><div style="text-align: justify;">In un libro del 2010, <i>La voce delle immagini</i>, Chiara Frugoni fornì l’esempio più luminoso dell’uso delle mani come mezzo non solo di espressione ma soprattutto di stato. Nella pittura e nella scultura già del periodo classico scoprì come l’atto di parlare, connesso all’autorità di farlo, venisse precisato nella conformazione della mano il cui indice e l’anulare fossero piegati e le altre tre dita unite e semi-erette. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh90-RyCsrAAAxygbGPNR5SHi7iklLpkgqoiqpRawMGH93-Tj5fMLqMsU97zKEbgaXan-M8SnxlMpjW5QAzELHpuahNNKy2s-khTmJd9q8TfSWisj2lcrF50kKOSjpU2A_ceQ6r2I2xIzGmY1Aa9sjtHcxD0sQRUX6q56yMeo5Jd0hoBzRZFFcpHxore-E/s805/Annunciazione%20di%20Antonello%201474.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="805" data-original-width="800" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh90-RyCsrAAAxygbGPNR5SHi7iklLpkgqoiqpRawMGH93-Tj5fMLqMsU97zKEbgaXan-M8SnxlMpjW5QAzELHpuahNNKy2s-khTmJd9q8TfSWisj2lcrF50kKOSjpU2A_ceQ6r2I2xIzGmY1Aa9sjtHcxD0sQRUX6q56yMeo5Jd0hoBzRZFFcpHxore-E/s320/Annunciazione%20di%20Antonello%201474.jpg" width="318" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">"Annunciazione" di Antonello da Messina</td></tr></tbody></table><br /><div style="text-align: justify;">Nell’<i>Annunciazione</i> di Antonello da Messina l’arcangelo mostra infatti la mano proprio in questo atteggiamento mentre la Madonna tiene le mani incrociate sul petto in un segno che per una donna non era di assoggettamento ma di accettazione e a volte di afflizione. In età bizantina tale disposizione delle dita mutò e ad esprimere lo stesso segno furono anulare e pollice congiunti a cerchio e le altre dita spiegate. Oggi l’indice in alto svolge quasi lo stesso compito: non sta per chi pretende di parlare ma di chi chiede il permesso di farlo</div><div style="text-align: justify;">Il segno, sia latino che greco, fu chiamato della “mano parlante” che divenne “mano di giustizia” quando se ne impadronirono re e imperatori che la ostentavano anche dall’alto di un’asta, loro attributo di regalità, realizzata in un ricco cameo di avorio. Con l’affermarsi della Chiesa cattolica quel segno così profano è diventato nella versione latina il simbolo più divino, addirittura ad opera di Dio che, nell’arte figurativa, si rivolge all’uomo mostrando sia la mano parlante che quella di giustizia: lo stesso segno che oggi, dal pontefice al prete di campagna, vediamo elevarsi nel significato della benedizione.</div><div style="text-align: justify;">Le mani in effetti parlano e sono il solo linguaggio dei sordomuti. Un linguaggio che cambia nel tempo col mutare dei codici interpretativi. Se fino agli anni Settanta ruotare il polso con il pugno chiuso e il pollice posato sull’indice indicava l’invito a spegnere la luce, girando l’interruttore, poi ha significato la messa in moto di un’auto e oggi è rimasto ad additare l’apertura di una serratura e la chiusura se fatto verso sinistra. Basta però sollevare il polso e designa il cartellino giallo che viene sollecitato contro un calciatore, ma se il pollice viene strofinato sull’indice il gesto diventa quello di chi conta soldi o di chi invita un gattino ad avvicinarsi. Contraendo appena un po’ le dita, ecco il pugno: che se tirato indietro mima l’apertura di una porta mentre in avanti la chiusura. Ma se il pugno viene portato all’orecchio oggi ricorda una telefonata col cellulare, che fino a trent’anni fa era però simboleggiata dalla mano all’orecchio con pollice e indici eretti mentre prima ancora era rappresentata dall’indice che ruota su un’immaginaria tastiera rotonda e dopo dal pugno come per scoprire una pentola usando la locuzione “alzare il telefono”.</div><div style="text-align: justify;">Sono, questi, gesti di ambo i sessi, come la gran parte, ma ce ne sono anche differenziati e alternativi. La donna che ha uno spavento o riceve una brutta notizia poggia la mano aperta sulla bocca mentre l’uomo la porta dietro la nuca. Perché non succede mai il contrario? Una risposta forse viene dalla storia evolutiva dei due generi: la donna è educata a non parlare e tantomeno a ridere e a gridare, per cui si obbliga a tacere; l’uomo è invece chiamato per sua natura congenita ad affrontare sia la paura che la cattiva sorte e quindi ne ha responsabilmente un “grattacapo”. Ancora: la donna esulta levando le mani aperte in aria, mentre l’uomo tiene i pugni stretti e dimena le braccia avanti e indietro c con le mani a pugno come per chiudere un cassetto incastrato.</div><div style="text-align: justify;">In generale è l’uomo a gesticolare molto di più, essendo il gesto in sé una forma di esibizione non conducente in una donna, ma è la donna a contare un maggior numero di posizioni delle mani, che richiedono meno platealità e offrono più espressività. Nella sostanza l’uomo esprime più quanto sta pensando e la donna più uno stato d’animo meno transitorio ed estemporaneo.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-11014374248580870672023-11-17T14:34:00.003+01:002023-11-17T14:34:34.600+01:00Il traffico da negozio a logorio<p></p><div style="text-align: right;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNtp2Z13h0JCLNvCNXvC9vq3j6lhXbcLQJNOUvX_TlfC361isMnt5Oavy9_Y2o-HHS7YwaABw0pSAg7LK1d7fDqvBIgCjW6J_88-JnC08VrZk4Y3-yGNUEncfia_uIsxscRMXsUmbrPCQZqT3YT8LwXKuS9nvB7Noi7mUOQU51tsM21_qO3l43d1Sj9NU/s851/Ernesto%20Calindri%20in%20Contro%20il%20logorio%20della%20vita%20moderna.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="494" data-original-width="851" height="233" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNtp2Z13h0JCLNvCNXvC9vq3j6lhXbcLQJNOUvX_TlfC361isMnt5Oavy9_Y2o-HHS7YwaABw0pSAg7LK1d7fDqvBIgCjW6J_88-JnC08VrZk4Y3-yGNUEncfia_uIsxscRMXsUmbrPCQZqT3YT8LwXKuS9nvB7Noi7mUOQU51tsM21_qO3l43d1Sj9NU/w400-h233/Ernesto%20Calindri%20in%20Contro%20il%20logorio%20della%20vita%20moderna.jpg" width="400" /></a></div><div style="text-align: left;"><br /></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: medium;">Articolo già uscito su Doppiozero</span></div></div><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Quando oggi diciamo che c’è molto traffico non intendiamo intensi scambi commerciali o frenetico mercimonio illecito, ma la congestione della circolazione automobilistica, perlopiù se lenta. Di ogni termine (o di una parola se espressione del sentimento e non dell’intelletto, secondo la distinzione voluta da Leopardi) prevale sempre l’accezione dominante, ma non per questo si perdono i precedenti significati di senso, anche i più remoti, per definire i quali è però divenuto necessario precisare l’ambito linguistico, sicché diciamo “traffico di oggetti sacri”, “traffico di valuta”, “traffico web”, “traffico dati”. Se invece parliamo solo di traffico fuori da ogni contesto, per sopravvenuta antonomasia sottendiamo quello determinato dalle macchine in circolazione. Si tratta di un’acquisizione recente.<span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;">L’Enciclopedia Treccani, nell’edizione del 1949, offriva una teoria degna di essere ricopiata: «La storia di questa parola è difficile a farsi perché il suo stesso etimo è oscuro: sembra che originariamente significasse “maneggio”, ma si hanno esempi trecenteschi dell’altro significato di “commercio”, specialmente con regioni lontane; così, p. es., si diceva “traffico delle spezie”; e con questo significato il francese e l’inglese presero la parola italiana. Da questo significato si è passato a quello di “trasporto delle mercanzie” per mare (traffico marittimo) e per terra; e poi traffico è passato a designare in generale il movimento sulle vie di comunicazione, sulle strade (traffico stradale) e anche la trasmissione di messaggi per telegrafo e per telefono. Queste ultime accezioni hanno finito col prevalere mentre quella più antica di commercio è quasi completamente scomparsa nell’uso corrente, tranne che in senso spregiativo (per es., “traffico dei stupefacenti” [sic!], degli schiavi”, ecc.)».</div><div style="text-align: justify;">In realtà l’etimo semantico è iberico, non italiano, e deriva da <i>trafagar </i>che qualche lezione incerta rimanda al latino<i> trans</i> e alla corruzione di <i>vices</i>, “cambio”, in <i>figar</i>. Non si va però ancora indietro perché in greco il verbo “negoziare” è reso con <i>emporeo</i> e <i>agorazo</i>, quest’ultimo con un’idea più incisiva di commercio aperto e tenuto in piazza. Cosicché il significato originario di “traffico” integra non già una confusione di mezzi o persone in movimento quanto l’oggetto delle azioni che i mercanti, riuniti in una fiera o attivi in un negozio, mettono in essere trattando lo scambio e la compravendita di merci. Designa insomma non la causa (i mercanti in movimento che vanno ad affollare la fiera) bensì l’effetto (i mercanti che, già assembrati, svolgono la loro attività).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhADlzGkv45yngFzEmsraBXFTF1gueZP3CMW77Tj6BwjqMv6GSR3Z0ErmTA7_FgkC5NM-CWARKJdNZK1NmpyWg8e8s9wHaKTkpUKYbnDH_MCr88ztWjmy8EYxURbmnm7boZU_eIPonBdaaVeb7wKWgw1JAdiR6dl0shi1CtcZCywjm6KE8rLo3-Xqetv9Q/s1020/Scena%20di%20mercato,%20Pieter%20Aertsen.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="680" data-original-width="1020" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhADlzGkv45yngFzEmsraBXFTF1gueZP3CMW77Tj6BwjqMv6GSR3Z0ErmTA7_FgkC5NM-CWARKJdNZK1NmpyWg8e8s9wHaKTkpUKYbnDH_MCr88ztWjmy8EYxURbmnm7boZU_eIPonBdaaVeb7wKWgw1JAdiR6dl0shi1CtcZCywjm6KE8rLo3-Xqetv9Q/s320/Scena%20di%20mercato,%20Pieter%20Aertsen.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">"Scene di mercato" di Pieter Aertsen</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Con l’intensificarsi degli scambi e degli spostamenti, il termine perde il valore (durato moltissimi secoli) di verbo, “trafficare”, e acquista sempre più la veste di sostantivo. Ma ancora nel Duecento “traffico” è un termine infrequente se <i>La Divina Commedia</i> lo ignora anche nel significato di commercio; tuttavia lo ritroviamo, benché una sola volta, nel coevo <i>Decameron</i> dove Boccaccio fa dire di Giannetto che è «lestissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia”, dunque come sinonimo di volume di affari (“traffico d’opera”).</div><div style="text-align: justify;">Ancora nel Cinquecento Niccolò Machiavelli se ne serve nel <i>Principe</i> in una circonlocuzione che lascia ferma l’evoluzione diacronica del termine. Scrive infatti che «quello [il cittadino dedito al commercio] non tema di ornare la sua possessione [il negozio] per timore che gli sia tolta [dal principe] e quello altro [un secondo commerciante] di aprire uno traffico per paura delle taglie», dove le taglie sono le tasse e il traffico un’attività economica da avviare.</div><div style="text-align: justify;">Facendo un altro salto di due secoli, vediamo che “traffico” non assume un significato diverso da quello primario di scambio commerciale e di affare economico e non già di movimento fisico, tanto che Giambattista Vico, in un’età di forte espansione del commercio anche intercontinentale, parla ripetutamente di “traffichi” nella sua <i>Scienza nuova </i>facendolo sempre al plurale e riferendosi alle sole operazioni di import-export che egli comprende nella locuzione «cagion de’ traffichi» per indicarne la fonte. Il traffico come lo intendiamo oggi (e come lo intende in prima istanza la novella Intelligenza artificiale che parla di «movimento di qualcosa da un punto a un altro, seguendo delle regole o dei canali specifici») di viabilità conserva ancora nella prima metà dell’Ottocento il significato originario di scambio. Nel 1819 si è però avuto un fatto nuovo: Schopenhauer ha usato il termine nell’espressione “traffico degenerativo”, implicando quindi una sfera psicologica entro un valore di senso pari a confusione mentale e aprendo così la strada a un nuovo utilizzo che troverà molto spazio come effetto collaterale. Ma nel 1844 l’enciclopedia Vanzon non conosce nemmeno il termine (benché contempli il solo verbo “trafficare” dandone la spiegazione tradizionale di “esercizio della mercatura”), né a fine secolo se ne servono De Roberto e addirittura Verga che non chiama “traffici” quelli dei lupini e gli affari di don Gesualdo.</div><div style="text-align: justify;">Manzoni in<i> I promessi sposi</i> compie tuttavia un passo in avanti ma parallelo rispetto a Schopenhauer: del giovane fra Cristoforo, al secolo ancora Ludovico, dice infatti che il padre «con quell’unico figlio aveva rinunciato al traffico e s’era dato a viver da signore”, mentre di un mercante milanese nota che va «più volte l’anno a Bergamo per i suoi traffichi». Il termine quindi involge una sfera intima che contrappone surmenage a riposo e nello stesso tempo designa l’idea di spostamento fisico e reale. Bisogna comunque aspettare Pirandello perché il significato originario di impresa economica combinato con l’altro sopraggiunto di iperattività si arricchisca di quello insorgente di disagio psichico come sua ricaduta. Riprendendo Manzoni, lavoro e impresa hanno in Pirandello effetti psichici sulla sfera privata, per cui leggiamo nella novella “Lontano” che «coi tesori che si ricavavano da quel traffico non si pensava a far lavorare più» e in “Colloqui coi personaggi” della «solita vita di traffico per gli altri, di tedio per lei». Fa da compendio la novella “Il libretto rosso”: «In mezzo al traffico tumultuoso e polverulento dello zolfo, del carbone, del legname, dei cereali e dei salati non si respira». Il traffico diventa il frutto dell’industria dell’estrazione e della coltivazione intensiva, un fatto dunque ancora economico, epperò è gravido di implicazioni psicofisiche sgradite causate dal mondo nuovo della modernità. In forza di tale nuova tensione, nello stesso tempo il traffico assume con Pirandello il senso di movimento fisico, in particolare viario, sicché in “Piuma” scopriamo la pretesa di una «formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s’arrestassero per lasciarla passare».</div><div style="text-align: justify;">In sostanza, com’è ovvio che fosse, l’evoluzione del significato procede di pari passo allo sviluppo della tecnologia, all’intensificarsi delle comunicazioni e ai progressivi processi di urbanizzazione, legati ai nuovi fenomeni di globalizzazione e di massa, che concentrano sempre più persone in grandi metropoli le quali diventano perciò “trafficate”. E se l’arte figurativa solo con il Futurismo scopre il senso del caos legato al progresso e alla velocità, assumendo come simbolo la macchina industriale ma non ancora l’autovettura, lo sbocco si ha in Italia negli anni del boom economico quando per bocca di Ernesto Calibri, seduto a un tavolo in mezzo al viavai delle auto, viene consacrato “il logorio della vita moderna”. Alla fine la causa di quello che oggi chiamiamo stress per la qualità convulsa della vita in città viene individuato negli anni Sessanta nel traffico viario. È l’ingresso del termine nell’ambito del significato del nostro tempo.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiNN64VxIuUE9sjdDz6yb01YXRSKhoZA5jSjjU7P2UGzVKva2iyip8GnMkWnyzfcDNuwJGrc6zO7hAu9KpycO2sxXjKtXk_6gWI84l4XK_orTb0BPidAXvT7fhmkIVX7wqqEJKYzTpWO9EI8ENaBqYYu31sulXmpvx1kBXXb17EYegFB8V28i9NmgHLG4/s775/La%20scena%20sul%20traffico%20di%20Johnny%20Stecchino.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="775" height="206" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiNN64VxIuUE9sjdDz6yb01YXRSKhoZA5jSjjU7P2UGzVKva2iyip8GnMkWnyzfcDNuwJGrc6zO7hAu9KpycO2sxXjKtXk_6gWI84l4XK_orTb0BPidAXvT7fhmkIVX7wqqEJKYzTpWO9EI8ENaBqYYu31sulXmpvx1kBXXb17EYegFB8V28i9NmgHLG4/s320/La%20scena%20sul%20traffico%20di%20Johnny%20Stecchino.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La scena sul traffico del film "Johnny Stecchino"</td></tr></tbody></table><br /><div style="text-align: justify;">Così nel film <i>Johnny Stecchino </i>il palermitano alla guida (e non serve aggiungere che lo è di un’auto quando un secolo fa si sarebbe pensato a un calesse, giusto il principio di prevalenza del significato corrente) osserva che il peggiore problema della città è appunto il traffico, intendendo quello stradale ma sottendendo – fatto nuovo e dirompente - l’altro illegale dovuto ai traffici appunto della mafia. Il termine assume a questo punto un quarto significato (dopo quelli di scambio commerciale, disagio psichico e movimento), stavolta marcatamente negativo, indicando il campo illegale del contrabbando, dello smercio di droga, del riciclaggio.</div><div style="text-align: justify;">E negativa diventa anche l’accezione di traffico viario quando la plurisecolare definizione positiva di scambio commerciale recede definitivamente di fronte all’invalenza di un contenuto semantico che denota senso di difficoltà, malessere, malumore: il traffico - automobilistico, pedonale - diventa la parte dinamica del termine “folla” che ha valore di staticità e induce allo stesso modo inquietudine, mentre su un’altra via cresce la rilevanza di traffico come attività criminale.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiztJP9Mf87ZFZ0rlPKF8hZEW-uWnOTmBs78ePmMVvCW4LcoRbZY3TYh9UtUrbO7mQtywPQ2a3xcTKGlPrUzKEbUri2MuwBQW4GCgMM16akUL6Qoer1HjQcR31YPwrMj3jdVHp0lZLvHTm2_jHj8BXnaKljRDrKGj4veWiD20uV87n4UvKaVpvmEYP7agI/s1299/Scena%20del%20film%20Traffic.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="858" data-original-width="1299" height="211" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiztJP9Mf87ZFZ0rlPKF8hZEW-uWnOTmBs78ePmMVvCW4LcoRbZY3TYh9UtUrbO7mQtywPQ2a3xcTKGlPrUzKEbUri2MuwBQW4GCgMM16akUL6Qoer1HjQcR31YPwrMj3jdVHp0lZLvHTm2_jHj8BXnaKljRDrKGj4veWiD20uV87n4UvKaVpvmEYP7agI/s320/Scena%20del%20film%20Traffic.jpeg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Scena del film "Traffic"</td></tr></tbody></table><br />Film come <i>Traffic </i>del 2001 e T<i>rafficanti</i> del 2016 introducono sin nei titoli il concetto di “narcotrafficanti” che procede in parallelo con quello altrettanto avverso di traffico automobilistico: per modo che Tiziano Ferro canta in <i>Sere nere</i> “tra gli orari e il traffico lavoro e tu ci sei”, Samuele Bersani evoca in <i>En e Xanax</i> due innamorati «che quando litigavano avrebbero potuto fermare anche il traffico di New York», Ultimo rappa in <i>Poesia senza veli </i>«Quando ti chiamo e ti chiedo più o meno per che ora ritorni e tu sei nel traffico e strilli perché ti senti incastrata», Alanis Morissette impreca in <i>Ironic </i>contro «un ingorgo quando sei già in ritardo».</div><div style="text-align: justify;">Il traffico viario in taccia di bestia nera del nostro presente, disvalore del tenore di vita, fonte di sindromi sociali trova cittadinanza come nodo diegetico cruciale in romanzi thriller quali <i>Il passaggio </i>di Michael Connelly (2015) e <i>Lo scheletro che balla</i> di Jeffery Deaver (2003) ed è il collante della cinematografia road movie basata sul forsennato inseguimento di auto in città. Colon Whitehead ha riportato in <i>Manifesto criminale</i> (2023) la teoria secondo cui la chiusura progressiva delle stazioni di vigili del fuoco a Manhattan negli anni Settanta fu ispirata non un maggior criterio di efficienza ma a logiche di viabilità legate al traffico automobilistico e ai tempi di intervento. La trasfigurazione metaforica di questa idea di traffico si è avuta in un romanzo fantasy del 2009 del britannico China Miéville, <i>La città & la città</i>: narra di due città sovrapposte una all’altra, i cui abitanti sono obbligati a ignorarsi pur dividendo “spazi interstiziali”, al controllo dei quali, nel caotico traffico automobilistico e pedonale, è demandata un’organizzazione chiamata “Violazione”. </div><div style="text-align: justify;">La violazione del modello standard di vita, al quale è storicamente estraneo il traffico viario, è diventato negli ultimi cinquant’anni sempre più il principio ordinatore del nostro tempo al quale soggiacciono tutte le attività umane. Se prima il traffico era in relazione con lo spazio per via degli scambi commerciali, oggi il riferimento primo è il tempo, con il quale fare ogni giorno i conti nell’esercizio pratico della vita. Evitare il traffico è il precetto che rimodula il comportamento collettivo in base agli “orari di punta”. L’effetto più vitale è stata la distinzione dei modelli di qualità della vita tra città e provincia. Il traffico condiziona la prima ed è irrilevante nella seconda: al punto che il valore di senso del termine conserva miracolosamente solo in questa, quanto più circoscritta, la storica accezione di confusione non viaria ma immateriale.</div></span><p><br /></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-56762962102394036002023-11-03T16:53:00.007+01:002023-11-12T08:46:04.864+01:00Alla ricerca degli "uomini persi" di Baglioni<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBVZ8SlE9K0hB_C_3cpTpDNpYtoOvieMEz2e9USit1o2mT2kaftWwqPpoNUuEfAmaFaCFKblGZ3NtyFr0a2GfurN-It_mC-ZwvMIkFUP9MPLR7E-w0N3CxCT_Gsp-E235uVCYy6dVYFpOydweTsRsXaOCgF2apFZx26yTH4uJlzzBzR8RxGdKGsvKia1c/s553/00004.jpeg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="261" data-original-width="553" height="189" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBVZ8SlE9K0hB_C_3cpTpDNpYtoOvieMEz2e9USit1o2mT2kaftWwqPpoNUuEfAmaFaCFKblGZ3NtyFr0a2GfurN-It_mC-ZwvMIkFUP9MPLR7E-w0N3CxCT_Gsp-E235uVCYy6dVYFpOydweTsRsXaOCgF2apFZx26yTH4uJlzzBzR8RxGdKGsvKia1c/w400-h189/00004.jpeg" width="400" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La poesia è nel rapporto fulminante tra brevità di espressione e grandezza di rappresentazione. Più immagini suscita, ancor più se vivide, più liricità assume, se però vale la proporzione inversa per cui meno parole sono usate e più effetti si ottengono. Crocianamente, la poesia è più in un verso che in una strofa, perché essa è intuizione, ovvero sentimento immediato ed emozione istantanea, pari a un lampo che illumina per un attimo il cielo della conoscenza.</span><a name='more'></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">In questa chiave, la canzone italiana che più di ogni altra nella storia della musica leggera può essere considerata di pura poesia (caso rarissimo, perché la “canzonetta” è sempre mimetica e anche quando presenta testi di forte suggestione formale non fa poesia ma bella prosa, come nel caso del Nobel Bob Dylan) è<i> Uomini persi</i> di Claudio Baglioni, brano dell’album più venduto di sempre, <i>La vita è adesso</i>, uscito nel 1985, quando l’autore romano ha trentaquattro anni. La canzone è talmente poetica, cioè di difficile intuizione, che viene posta nel vasto repertorio baglioniano (dove non figura mai nel cosiddetto “meglio”) in posizioni succedanee rispetto a più facili interpretazioni quali <i>Questo piccolo grande amore</i>, <i>La vita è adess</i>o, <i>Avrai</i>, <i>Mille giorni di te e di me</i>, <i>Strada facendo</i>, che hanno avuto senz’altro ben maggiore successo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Forse altre due sole canzoni meritano lo stesso titolo: <i>Prospettiva Nevski</i> di Franco Battiato e – a un grado inferiore -<i> La notte dei miracoli</i> di Lucio Dalla, la prima dello stesso 1985 e l’altra di cinque anni prima: a suggello di una stagione che ha dato la migliore e unica produzione lirica melodica italiana, ciò per ragioni che varrebbe indagare, giacché coincise con un’epoca ricordata oggi del riflusso e poi dell’edonismo, epperò capace di fruttare esiti non più replicati. Ma entrambe le canzoni non hanno la stessa forza e uguale tenuta di <i>Uomini persi</i>, benché ne ripetano il modello inteso a ridurre al massimo (anche questo un segno del tempo) il ritornello che è padre del tormentone, se non lo elimina del tutto come fa Battiato, segno chiaro che i cantautori non ricercavano il motivo ma il tema, indice di una precipua intenzione lirica.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Già nello stesso album di appartenenza, <i>Uomini persi</i> costituisce una variabile indipendente perché non assimila il vivace ritmo pop rock che connota la svolta di Baglioni di metà anni Ottanta. E a differenza della linea avviata sin dagli inizi del decennio volta alla ricerca del privato, dell’amore individuale perso e ritrovato, della vita di quartiere, di fronte ai rivolgimenti politici anche di piazza dai quali Baglioni invita a rifuggire per scegliere il disimpegno contro l’impegno ereditato dagli anni Settanta, il testo si offre come una lamentazione civile ed umanistica del tutto sottratta a ogni temperie contingente per farsi visione totalizzante della dimensione umana, compresa nel teorema di equivalenza per cui qualsiasi uomo, anche il peggiore e il più sfortunato, è stato bambino e come tale ha condiviso e vissuto le stesse esperienze di ogni suo coetaneo, spunto che porta ad ammettere come sia la vita nel suo farsi e disfarsi a dividere e distanziare quanti sono stati invece uguali e insieme, partiti dalla stessa condizione ma via via perduti nel mondo. Ed ecco l’esistenzialismo di Heidegger nella sua teoria dell’<i>esein</i>, “l’essere gettati nel mondo”, e la poetica di Pascoli fondata sull’idea del fanciullino che è in ciascuno di noi e che rende gli uomini uguali davanti alla vita e tra loro stessi.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWwkgn8V4maXKb23R7lUeLGHQmfBtESJKAFzU4SEqzlJifxzG16WkkGysJ31zlO29psAp4zWKNNDJXkHwlGZY3adVy-sOwWA9v-0ClM-XDvDwXWFkOJCe9-42p6ijCV4j5aRCmQj4o30NE0L-UpSm1qIad0qBTUzQC6xaH8wh0hCpLLji9c5uhk_Tx3ng/s1200/d3df86e1c80f6da64e1d404a0ec669c1.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWwkgn8V4maXKb23R7lUeLGHQmfBtESJKAFzU4SEqzlJifxzG16WkkGysJ31zlO29psAp4zWKNNDJXkHwlGZY3adVy-sOwWA9v-0ClM-XDvDwXWFkOJCe9-42p6ijCV4j5aRCmQj4o30NE0L-UpSm1qIad0qBTUzQC6xaH8wh0hCpLLji9c5uhk_Tx3ng/s320/d3df86e1c80f6da64e1d404a0ec669c1.jpg" width="320" /></span></a></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div>L’argomento non è quello rilanciato negli stessi anni da cantautori come Vasco Rossi (<i>Vita spericolata</i>) e prima ancora da Rino Gaetano (<i>Non te reggae più</i>) nonché il Battiato di <i>Centro di gravità permanente</i>, che cantano la contrazione individualistica nel proprio privato entro una forma di escapismo che escluda dal tempo corrente, ma investe sollecitazioni ontologiche che scavalcano il tempo per essere ucroniche, tali che ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, sentiamo <i>Uomini persi</i> una canzone ancora nostra.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il fanciullino che è in noi, quello che ispira il nostro sentimento poetico, ci ricorda una verità: l’ineluttabilità della vita come freccia del tempo diretta a colpire il cuore dell’innocenza e del candore originari entro una deflagrazione di esistenze diverse, disparate, irreversibili. Ma Baglioni nel testo cela una seconda verità, soffusa e laterale, che sembra fare da palinodia: da adulti si è quanto si è stati <i>in nuce</i> da bambini, anzi da monelli: chi scoperchia e distrugge formicai diventerà da grande un uomo senza scrupoli che ucciderà impietosamente; chi farà lo spacciatore di droga ha smerciato da bambino figurine di calciatori ma anche segreti; chi traffica armi ha giocato da piccolo con le pistole finte. Baglioni ci dice insomma che la vita è stocastica, imprevedibile nei suoi svolgimenti, ma può rivelarsi anche deterministica, frutto di un rapporto di causa ed effetto.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">“Dove sono i giorni di domani, le caramelle ciucciate nelle mani di tutti gli uomini persi dal mondo” canta l’autore per stabilire infine la verità che sta in mezzo: una superba metafora (e di metafore è ricco il testo, in risposta al credo della più genuina poesia) per legare il bambino all’adulto che sarà e nella cui veste rimarrà dunque com’era, succhiandogli nelle mani le caramelle, dopo però aver posto un interrogativo, centrale nel brano come nello spirito di esso - “dove sono i giorni di domani” - che agisce nello stesso momento in funzione di punto di separazione e non di identificazione tra età infantile e matura.</span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_q6JbvFwzxB_CqKDtoYOw48ASF7KYw3-1iOS3utTfb2ofGGrDxlAdKb0aDm3Vf1bAR5BPWN48P5KZlygVQFl7lj9K4wdgpGdrnYGZcFh0Fy-St2UaTFTx2-oFUrZC9RP_h5kuNp0O9EgUSRQcRh0n4lObgJVwmTd2os8N4I6Egm25Ea3iPqZkOtHREN0/s2889/IMG20230420190628.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="2766" data-original-width="2889" height="306" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_q6JbvFwzxB_CqKDtoYOw48ASF7KYw3-1iOS3utTfb2ofGGrDxlAdKb0aDm3Vf1bAR5BPWN48P5KZlygVQFl7lj9K4wdgpGdrnYGZcFh0Fy-St2UaTFTx2-oFUrZC9RP_h5kuNp0O9EgUSRQcRh0n4lObgJVwmTd2os8N4I6Egm25Ea3iPqZkOtHREN0/s320/IMG20230420190628.jpg" width="320" /></span></a></div><span style="font-size: large;">Il <i>refrain</i> “di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo”, dove il mondo nel significato di vita più che di diaspora è prima soggetto e poi oggetto, ricorre due volte e in entrambi i casi a indicare un folgorante corto circuito tra ieri e oggi, bambino e adulto: il “papà che caccia via la notte di tutti gli uomini persi”, come il bambino che ciuccia le caramelle nelle mani di sé adulto, chiude a parti invertite il testo in una visione irrelata e metafisica che restituisce il senso di una epifania della vita come nastro di Möbius nel quale l’orientamento torna iniziale solo dopo un percorso <i>extra ordinem</i>. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">E proprio questa duplicità polindromica fu espressa dal cantautore a Pippo Baudo nel 1985 durante la trasmissione “A serata d’onore”, dove Baglioni disse che «le canzoni sono sempre per tutti gli uomini che il mondo ha perso e che perde ogni giorno», aggiungendo in senso contrario che «tutti da bambini hanno sperato che un giorno migliore li aspettasse».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Rimane perciò la domanda di fondo: la vita ce la costruiamo noi o ci viene data secondo criteri imperscrutabili e impronosticabili? Si è sempre fanciullini o si è gettati nel mondo? In sostanza, si è Cebete, che nel <i>Fedone</i> di Platone chiede a Socrate di parlargli in modo da non spaventare il fanciullo che è in lui, o si è Oreste, preda di una <i>ananké</i> che ribalta le premesse della sua vita?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">L’età dell’innocenza diventa quella della sua perdita, conseguenza di un destino o di una colpa. Alle immagini di spensieratezza e di gioia della fanciullezza si sovrappongono in un frenetico rimando di echi scene di una maturità dolente e desolata. Baglioni, passato con <i>La vita è adesso </i>dalle estenuazioni romantiche all’impegno sociale, esclude nella sua genealogia che possano esserci uomini felici e sembra volere stabilire il principio, quale che sia la fanciullezza, che l’età matura non può che essere di rovina. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Troviamo dunque un rifacimento capitale del soterico mito dell’infanzia e della giovinezza che ha scaldato il secondo Novecento letterario, così come il romanzo di formazione: al fondo della vita non c’è il lieto fine o la ricomposizione dell’ordine cosmico guastato, bensì la perdizione, per colpa della stessa vita che non concede salvezza alcuna. Il più nichilista e pessimista dei testi di Baglioni (rivariato nel tempo più volte quanto al sound, da pop-rock a ballata ritmica) è anche quello che si offre di più a un’interpretazione della stagione postneorealista italiana degli anni Ottanta nel senso di una dissipazione della vita, in linea con gran parte dell’opera di Pier Vittorio Tondelli, primo esegeta di quel periodo, e di film crudi e distonici come <i>Mery per sempre</i>. Ma tentiamo intanto una lettura del testo che tenga conto dei significati letterali per poi vedere meglio quelli figurati.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">TESTO DELLA CANZONE</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div><span style="font-size: medium;">Anche chi dorme in un angolo pulcioso coperto dai giornali, le mani a cuscino, ha avuto un letto bianco da scalare e un filo di luce accesa dalla stanza accanto, due piedi svelti e ballerini a dare calci al mare nell'ultima estate da bambino. Piccole giostre con tanta luce e poca gente e un giro soltanto.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche questi altri strangolati da cravatte che dentro la ventiquattrore portano la guerra sono tornati con la cartella in braccio al vento che spazza via le foglie del primo giorno di scuola. Raggi di sole che allungavano i colori sugli ultimi giochi, tra i montarozzi di terra e al davanzale di una casa senza balconi, due dita a pistola.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche quei pazzi che hanno sparato alle persone bucandole come biglietti da annullare hanno pensato che i morti li coprissero perché non prendessero freddo e il sonno fosse lieve. Hanno guardato l’areoplano e poi l’imboccano e sono rimasti così senza inghiottire né sputare, su una stradina e quattro case in una palla di vetro che a girarla viene giù la neve.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">E anche questi cristi caduti giù senza nome e senza croci sono stati marinai dietro gli occhiali storti e tristi, sulle barchette coi gusci delle noci. E dove sono i giorni di domani, le caramelle ciucciate nelle mani di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Quelli che comprano la vita degli altri vendendogli bustine e la peggiore delle vite hanno scambiato figurine e segreti con uno più grande, ma prima doveva giurare. Teste crollate nel sedile di dietro sulle vie lunghe e clacsonanti del ritorno dalle gite, un po' di febbre nei capelli ed una maglia che non vuole passare.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">E i disperati che seminano bombe tra poveri corpi come fossero vuoti a perdere, come se fossero pupazzi, seduti sui calcagni han rovesciato sassi e un mondo di formiche che scappava, le voci aspre delle madri che li chiamavano sotto un quadrato di stelle dentro i cortili dei palazzi e la famiglia a comprare il cappotto nuovo e tutti intorno a dire come gli stava.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche questi occhi, fame di nascere per morir di fame, si son passati un dito di saliva sui ginocchi e tutti dietro a un pallone in uno sciame, leggeri come frecce e dove fanno a botte, dov'è un papà che caccia via la notte di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo.</span></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">INTERPRETAZIONE SEMANTICA</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div><span style="font-size: medium;">Anche il barbone rannicchiato in un angolo infestato di pulci, coprendosi con giornali e tenendo le mani a cuscino, ha avuto da bambino un letto pulito (sul quale salire a fatica per via della statura) in una stanza dove sotto la porta filtrava una calda lama di luce rivelatrice della presenza di persone care e accudenti. E ha giocato a mare in un giorno d’estate preludio della fine dell’infanzia, nonché da solo e appena con un gettone in una giostra di periferia.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche i mercanti di armi inamidati in abiti scuri che nelle loro borse custodiscono contratti di vendita tornano con la memoria al primo giorno di scuola quando con la cartella sotto braccio andavano incontro al vento di ottobre che spazza le foglie così come disperde un’età nella quale il tramonto cala sugli ultimi giochi infantili all’aperto, praticati mimando i pistoleri del West, in cima a cumuli di sassi e dietro le finestre di case di campagna.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche i killer e i criminali più spietati sono colti dai pensieri nutriti da bambini quando immaginavano che i cadaveri fossero coperti per proteggerli dal freddo cosicché il sonno eterno fosse più riposante. E hanno guardato i genitori mentre li imboccavano muovendo il cucchiaio come fosse un aeroplanino e rimanevano attoniti con il cibo in bocca: scene di un piccolo quartiere così suggestivo da sembrare finto e come incantato. </span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche i militi ignoti e le vittime della lupara bianca hanno giocato da bambini occhialuti e tristi con i gusci di noci a manovrare barchette, innocenti ignari del futuro, eppure destinati a mutarsi in uomini e cuori persi nel mondo. </span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Gli spacciatori che trafficano con la vita degli altri hanno un tempo scambiato figurine come oggi fanno con le bustine di droga, allo stesos modo si sono confidati ad adulti che hanno loro imposto il silenzio sui loro segreti più inconfessabili. E pieni di sonno dopo una gita sono crollati in auto al ritorno in città, un po’ accaldati per via delle sudate e tanto stanchi che la madre non riesce a fare indossare loro la maglietta.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">E i terroristi più crudeli hanno da bambini giocato a scoperchiare formicai tra i sassi mentre le madri li chiamavano a gran voce dalle case a circolo in un cortile condominiale, magari per andare con i parenti a comprare per lui un cappotto nuovo e poi a valutarne insieme nel negozio la misura.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div><div><span style="font-size: medium;">Anche i disperati e gli indigenti, impazienti di nascere per poi fare la fame, hanno giocato a calcio, sbucciandosi le ginocchia e facendo con forza e agilità anche a botte per un gol, vegliati da papà attenti su di loro perché un giorno non si perdano nella vita.</span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /></span></div></div><div style="text-align: justify;"><div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div></div></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Il testo, siamo d’accordo, è un’opera poetica per via dell’esuberanza di immagini visive rese con il minor impiego di termini e nel quadro di proposizioni essenzialmente nominali entro un vortice di scene icastiche che dà il visibilio. Articolato in sette strofe, fissa altrettante condizioni umane giocando sul raffronto tra età molto diverse e creando quelle che possono chiamarsi “visioni”.</div></span><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Si apre con la vista di un senzatetto in posizione fetale addormentato su una probabile panchina. È inverno perché per coperte l’uomo usa fogli di giornali. Il termine iniziale “anche”, che ricorre in apertura di altre quattro strofe, non ha valore di congiunzione, sommando un elemento ad altri, ma di avverbio rafforzativo via via in accrescimento, perché modifica il contesto e sta per “persino”. Baglioni chiarisce subito che tutti gli esseri umani, persino i più derelitti, i <i>dropout</i>, sono stati bambini e dunque hanno avuto almeno tre cose: un letto candido dove dormire, confortati da una luce che li rassicura circa la presenza dei genitori; un’infanzia felice al mare dando calci alle onde; una giostra piena di luce dove giocare. Ma ecco il rovescio: il letto è da scalare perché alto, una difficoltà da superare; al mare si consuma l’ultima estate da bambino; la giostra è deserta ed è permesso, per le ristrettezze dei genitori, soltanto un giro.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La seconda visione propone individui, quasi indicati con un gesto della mano, “questi altri”, che nel classico profilo dell’uomo d’affari, inappuntabile perché in cravatta tanto più apparentemente rispettabile, mascherano un animo mortifero essendo mercanti di armi: nel <i>flashback </i>che li riporta all’infanzia li vediamo non più con la ventiquattrore ma con la cartella della scuola mentre tagliano il vento autunnale per andare a scuola il primo giorno di apertura. Qui il passato prossimo, “sono tornati”, muta subito in un imperfetto che dà il senso di una continuità d’azione: nel pomeriggio, dopo la fine delle lezioni, con i raggi lunghi del tramonto, eccoli a giocare alla guerra tra le pietre della campagna e fingendosi appostati alle finestre di case rurali.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Nella terza ripresa il pensiero comune ai bambini che i morti vengano coperti perché non sentano freddo, così come i vivi, alberga anche in quanti da grandi sono diventati criminali, allo stesso modo stupiti e attratti dalla loro vista come da quella dei loro genitori quando venivano imboccati da cucchiai da loro usati a mo’ di aeroplanini; in un clima familiare incantato che evoca un mondo fatto di una stradina e quattro case simile alle palle di vetro da rivoltare per vederle rivivere.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Nella quarta parte della canzone, al posto dei criminali e al loro pari, le vittime bucate “come biglietti da annullare” hanno giocato da bambini con i gusci di noce trasformati in barchette e immaginandosi marinaretti di periferia, come quelli che giocano ai pistoleri e gtli altri che credono di vedere aeroplani nei cucchiai, tutti a chiedersi cosa sarà di loro e cosa delle caramelle ciucciate nelle mani di uomini che a loro volta si sono già persi o sono la proiezione di essi stessi.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Nella quarta visione Baglioni addita gli spacciatori di droga in una delle più riuscite antitesi della canzone: i pusher che vendono bustine e i bambini che sono stati, presi a scambiarsi figurine con quelli più grandi di età, con i quali intrudere un rapporto di confidenza forse anche morbosa, fatta di segreti, silenzi e ricatti. Un’immagine scabrosa e dolorosa alla quale subito viene soprapposta quella irenica di una famiglia che torna in città da una gita al mare in macchina lungo le strade romane supercongestionate e rumorose (evocazione autobiografica di Baglioni): con la scena dei bambini addormentati dietro, febbricitanti nei capelli, cioè sudati e quindi con la maglietta da indossare che fatica a entrare per la stanchezza e la madidezza.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La sesta visione mostra come i terroristi (disperati perché inseguono un ideale politico), insensibili al valore della vita umana, siano gli stessi che da piccoli stavano accovacciati attorno a sassi sotto i quali si nascondevano formicai da distruggere, quando le madri rauche per il gridare li chiamavano a casa, nel piccolo mondo fatto di cortili e di rapporti familiari di gomito in forza dei quali i parenti uscivano per comprare al bambino il cappotto nuovo e giudicarlo davanti allo specchio del negozio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">L’ultima visione convoca i miserabili, i poveri, forse i suicidi, da bambini vissuti a correre dietro un pallone da calcio come frecce (ma c’è chi nel testo legge stracci: e in verità nei concerti Baglioni usa entrambi i termini) finendo anche per litigare in un campo di gioco dove i papà provano a perpetuare quei momenti, esorcizzando l’età dell’innocenza e scongiurando il precipitare dei figli piccoli nella notte in cui versano gli uomini persi.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Gli uomini persi dal mondo e i cuori dispersi nel mondo: quanti da un lato la vita abbandona alla loro sorte, privando la società di risorse ed energie positive in un processo inarrestabile di entropia umana, e quanti da un altro per scelta e per ventura si disperdono nel mondo rinunciando a una vita compiuta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><p style="text-align: justify;"><br /></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-56626885257717084702023-10-29T12:22:00.004+01:002024-03-13T19:46:15.712+01:00La guerra privata di Bufalino combattuta in ospedale<p></p><div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-ZjdeWJVx-ZQingx_w9PUaJPoFPp3dIg05jjK5or52raJupg0tEF4bH2hubJmtwnZ8VaNcZ6zyn5Gm52WsqrsoA2Q2ZqHxFMeXVr0HUTkrRnwt0PgQZuV17LqbYDDMbQN23oyq_kpWHLKXJ8WzEDdL6sq05QVIfYpgYmv4LHt_LmT__3D9T39zXjrPcU/s1800/153924256-c2da474b-5018-4949-9ded-73fb96038e5b.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1014" data-original-width="1800" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-ZjdeWJVx-ZQingx_w9PUaJPoFPp3dIg05jjK5or52raJupg0tEF4bH2hubJmtwnZ8VaNcZ6zyn5Gm52WsqrsoA2Q2ZqHxFMeXVr0HUTkrRnwt0PgQZuV17LqbYDDMbQN23oyq_kpWHLKXJ8WzEDdL6sq05QVIfYpgYmv4LHt_LmT__3D9T39zXjrPcU/w400-h225/153924256-c2da474b-5018-4949-9ded-73fb96038e5b.jpg" width="400" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><i>Nel cinquantenario della Liberazione, il 22 aprile 1995 pubblicai su La Sicilia un’intervista a Gesualdo Bufalino che ricordò quei giorni vissuti in sanatorio legati al 25 Aprile. Scelsi di stendere il testo eliminando le domande e facendo dell’intervista una sorta di monologo.</i></span></div></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><i><span><a name='more'></a></span></i></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdSTvLW_SaBfOrNljxfVI3W9j55pcCGOZ_P2Xn3BmrCB9LBrdYlXjvJUxtJ_KF0Pi6rEqZE7PgYKyrjz34Ot11rA_CTfKbhXvesgv6UQfLrLV6rV43fHGinZ9lQtD1FdzOPYoNpjUGAGzbSEFhx6N0EUooBIWS8Ks1P-oeb4to-J_uWMRcjrhrF4pEzR8/s1260/bufalino%2022.4.95.png" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1260" data-original-width="491" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdSTvLW_SaBfOrNljxfVI3W9j55pcCGOZ_P2Xn3BmrCB9LBrdYlXjvJUxtJ_KF0Pi6rEqZE7PgYKyrjz34Ot11rA_CTfKbhXvesgv6UQfLrLV6rV43fHGinZ9lQtD1FdzOPYoNpjUGAGzbSEFhx6N0EUooBIWS8Ks1P-oeb4to-J_uWMRcjrhrF4pEzR8/s320/bufalino%2022.4.95.png" width="125" /></a></div>«Quando tutte le notti ritornavo a sentire lo stesso suono, di un viandante solitario che a mezzanotte in punto fischiettava per conciliarsi gli spiriti della notte. Tempo dopo, trovata quella canzone in un disco, avrei saputo che era <i>Beguin the beguin</i>. Nel mio letto di esilio, escluso dalla gioia della liberazione, il senso della pace ritrovata, della vita nuova che si riavviava (anche se non per me, perché credevo di essere condannato a morte), lo feci mio ascoltando un passante fischiare sotto le finestre. E immaginavo notti di luna pensandomi fuori dall’ospedale. Ricorda<i> Il dì di festa</i>? “E alla tarda notte un canto s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core”. Un canto che Leopardi sente dalla sua stanza del palazzo di Recanati e io da una sala d’attesa della morte.</div><div style="text-align: justify;">«Epperò, sulla base di una mia lettera ad Angelo Romanò, lei ipotizza che trascorsi il 25 aprile del ’45 nella… biblioteca dell’ospedale di Scandiano. Allora diciamo meglio che mi trovavo in un letto dell’ospedale di Scandiano, con la possibilità di usufruire di un’enorme biblioteca, proprietà del primario che si chiamava Biancheri, un uomo colto al quale può essere accostato il mio Gran Magro. Eravamo diventati amici perché amava fermarsi al mio capezzale conversando di lettere. Negli scantinati dell’ospedale, dove (per sottrarli ai bombardamenti ponendoli sotto la protezione di una grande croce sul tetto) Biancheri aveva trasferito i suoi libri, io m’avventuravo ogni giorno tra altissime e instabili pile. E traendo libri accatastati alla rinfusa, lessi Proust secondo il volume che mi era più comodo raggiungere.</div><div style="text-align: justify;">«Sì, fuori c’era intanto tempesta. Durante i nove mesi di degenza, come da un osservatorio privilegiato, ebbi modo di assistere all’ultima fase della guerra, con il suo corredo di ferocie, eroismi, tradimenti, solidarietà. Dal novembre del ’44, quando mi ammalai di tisi, fino al 25 aprile rimasi, siccome costretto in ospedale, tagliato fuori dalla realtà. Ma, nei giorni della liberazione, fra le stecche delle persiane, scorgevo i primi carri armati alleati procedere fra le acclamazioni d’una gente stanca di vedere morire. Vennero a trovarmi, fra gioiosi clamori, i miei amici ch’erano stati sui monti: portavano al collo grandi fazzoletti rossi, indossavano fantasiose divise militari, imbracciavano armi troppo pesanti per le loro stazze macilenti e fameliche. A ripensarci, la mia fu una guerra non di movimento, ma di posizione. Ricordo che nel lettino accanto al mio, dopo un attentato di partigiani a un convoglio tedesco, un giorno fu portato un soldato colpito ai polmoni, Trascorse la notte rantolando e fumando, finché morì. Era tedesco e per lui avrei scritto più tardi una poesia, <i>Requiem per il nemico ignoto</i> che troverà nel mio <i>L’amaro miele</i>. Eh sì, erano tempi senza cuore.</div><div style="text-align: justify;">«Avevo un amico. Si chiamava Carabillò ed era palermitano, come il medico che per primo si era accorto della mia malattia e aveva comcinciato a curarmi. Questo Carabillò agiva da partigiano in città. Fu scoperto, torturato, fucilato, lasciato cadavere in una piazza di Reggio Emilia, nella neve per tre giorni, a mo’ di esempio dissuasivo e tremendo, impendendo alla fidanzata di seppellirne anche i resti. Della fidanzata conoscevo la sorella minore che, venendo in ospedale, mi fu testimone dell’episodio. L’avevo conosciuta in casa sua, dove mi ero rifigiato una sera per scampare alla ronda fascista. Che anno terribile il ’44!</div><div style="text-align: justify;">«Io stavo in una fattoria fuori Scandiano, in un posto che si chiama San Ruffino, ospite di una famiglia che aveva un figliolo come me clandestino. Una notte, attraverso i vetri, vidi i tedeschi circondare la casa. Cercammo di scappare attraverso una stalla che dava sui campi, ma appena aperta la porta, tre soldati che custodivano il varco ci spararono addosso. Rientrammo in casa non so come illesi. Aspettammno in silenzio l’irruzione, ma, dopo le raffiche di mitra e ordini secchi, i tedeschi si allontanarono. L’indomani seppimo che era stata un’esercitazione, la simulazione di un assalto a un caposaldo di partigiani. Fummo fatti salvi dallo spirito prussiano di obbedienza: loro dovevano recitare una parte e non ebbero la prontezza, che avrebbe avuto un soldato siciliano, di pensare che, invece di partigiani finti, quei due in fuga, che eravamo noi, potessero ben essere fuorilegge veri. Ci adoperarono come comparse del loro film: ci neutralizzarono sparandoci pallottole a salve, colpendoci e considerandoci morti.</div><div style="text-align: justify;">«Ricordo che fu in quel periodo che andai a cena in un posto lì vicino dove fui preso dalla Guardia nazionale e portato davanti a un comandante per rispondere della mancanza di documenti che non fossero il congedo provvisorio falsificato soltanto del quale ero provvisto. Il comandante si rivelò siciliano, persona anziana e buona, e facendo scattare la molla d’una complice consanguineità, mi mandò libero raccomandandomi di non farmi trovare. Ma furono le Brigate nere sul punto di trovarmi, quando davanti a una trattoria vidi macchine ferme e una sentinella di guardia. Mi buttai nella polvere e ristetti tremante per oltre due ore. Le Brigate nere mi ricordano un mio alunno, cui davo lezioni private. Un giorno non venne più. Seppi che s’era fatto tentare dalle sirene della Repubblica sociale e temevo che potesse denunciarmi. Fu fucilato dai partigiani. Aveva sedici anni.</div><div style="text-align: justify;">«E di una ragazza della stessa età, figlia di un oste, ricordo i giochi e i balli con me. I partigiani avevano fatto saltare un ponte e i tedeschi, accusando l’oste di complicità, bruciarono con i lanciafiamme la sua bettola uccidendo tutta la famiglia, la ragazza compresa. In <i>Diceria dell’untore</i> l'ho chiama Sesta, evocando una ragazza che vidi morire. Ma Sesta in realtà era una con cui me la intendevo. Già, di brandelli di vita ho guarnito i miei libri. In <i>Calende greche</i> immagino per esempio di trovarmi in una casa di campagna con un amico e una ragazza. Quando lui deve partire per una missione partigiana, lo vedo allontanarsi e capisco che non tornerà più. Lo scenario nei miei scritti è rimasto reale e nomi mi affiorano alla mente: Giorgio Prodi, fratello dell’omonimo economista, che devo aver conosciuto infante tra un bombardamento e l’altro; Valentina che suonava il piano; Fausta Cagliari, sempre vestita di bianco, fanciulla assai bella, cui non ebbi mai modo di rivolgere la parola, ma che di recente, leggendo un mio libro, mi ha scritto una lettera, ormai nonna felice e nostalgica; e Giovanna Poli, che mi fece leggere <i>Moby Dick </i>e molto mi fu vicina in ospedale.</div><div style="text-align: justify;">«Le dicevo della fattoria di San Ruffino. Era ospite, sfollato da Reggio Emilia, nientemeno che il direttore del giornale reggiano "Il solco fascista". Egli venne inevitabilmente a conoscenza della condizione mia e del mio amico, per cui eravamo in allarme perpetuo: ma confidavamo nella supposizione che i fascisti più compromessi cercassero testimonianze che provassero una loro acquiescenza verso i liberatori. Per interposta persona ci fece capire di essere a giorno della nostra situazione e purnondimeno ci fece sapere che ci sarebbe stato un rastrellamento tedesco. Le dirò: era un fascista buono. Come del resto buono fu il provveditore agli studi di Reggio Emilia, che era di Comiso e si chiamava Casaccio. Era un famoso fascista, amico di Biagio Pace, e proteggeva gli sbandati, tanto più che consentì a me, immagini un po’, di insegnare senza laurea in una piccola scuola statale. Per la verità Casaccio mi conosceva già da prima della guerra, quando avevo vinto un concorso nazionale per un tema in latino bandito dall’Istituto di studi romani che prevedeva un vincitore per ogni regione. Io avevo conseguito il primo premio in Sicilia ed ero stato ricevuto nel ’39 da Mussolini. Casaccio si mostrò buono a dispetto della mia evidente condizione di antifascista reale, dacché avrei aderito alla Repubblica di Salò anziché mettermi in una situazione di estremo pericolo. Infatti l’ultimo bando mi imponeva, come sottotenente uscito dal corso allievi ufficiali di Fano, la consegna immediata. IL rischio era di essere deportato in Germania o di essere passato per le armi. Casaccio fu poi processato e poté giovarsi anche della mia testimonianza per essere graziato e continuare la sua carriera fino a diventare provveditore agli studi a Catania.</div><div style="text-align: justify;">«Come divenni ufficiale? Fu per caso. Può scommettere che sarei finito in Jugoslavia come caporale semplice se non avessi risolto un indovinello di cui trova traccia in <i>Diceria dell’untore</i>. Ricorda i tre ladroni e i cinque cappelli, tre bianchi e e due neri, l’abacadabra del Gran Magro? Un indovinello cinese molto sottile, converrà. Ebbene, durante una marcia il tenente ce lo sottopose, sicuro che nessuno l’avrebbe spiegato. Io invece ci riuscii, sicché lui mutò opinione non vedendomi più come un inetto. Ma l’uso delle armi mi rimase sempre impossibile. Pensi che durante un’esercitazione pretesi di sparare con l’otturatore aperto, il che pare sia quanto di più deprecabile possa fare un soldato. Uno degli ufficiali se ne accorse e si mise a gridare. L’indomani, durante la lezione teorica, lo stesso ufficiale ricordò l’episodio e invitò il responsabile a farsi riconoscere, ma io rimasi ben zitto e nascosto. Davvero non riuscivo a compere l’abc del militare, come montare e rimontare un fucile mitragliatore. Escogitai allora di fare come i più bravi, che si bendavano armeggiando alla cieca. Così, quando l’ufficiale si avvicinava per controllare, mi trovava bendato e, vedendomi indaffarato, mi esortava a lasciare perdere i virtuosismi, ma, giacché insistevo per riuscirvi, se ne andava convinto che, anche se non alla cieca, ero certamente capace di rimontare un mitragliatore.</div><div style="text-align: justify;">«Le stavo parlando del direttore del "Solco". Ebbene, quando ci disse di un imminente rastrellamento, che invece poi non ci fu, io non potei che scappare a Scandiano, dove ero stato in pensione nella casa della fidanzata di Carabillò. I genitori mi ospitarono, ma per paura dei bombardamenti notturni, andarono fuori paese lasciandomi da solo con le figlie, decise invece a rimanere in casa. E sa quelle ragazze cosa mi chiesero? Di ballare. Già. Accesero la radio e ballammo, mentre io ero in preda a una paura indicibile. A un certo punto bussarono addirittura i militari della ronda italiana che sentendo la musica pensarono a una festa cui potere prendere parte.</div><div style="text-align: justify;">«Eh, le mie notti d’allora! Ho sempre avuto il sospetto di essermi ammalto per il freddo preso aspettando appuntamenti notturni. Ma questo avveniva a Sacile, dopo l’8 settembre. C’erano tante ragazze lì e io non avevo di che coprirmi. Aspettavo la mezzanotte per qualcuna di loro, messo nei fossi sotto i platani, mentre una cappa di gelo calava sulla terra coprendo erbe e mine. Un giorno mi colse la febbre e intrapresi la mia seconda guerra, stavolta contro i bacilli d Koch. Quanti compagni in pigiama caduti! Ricordo le sere quando i cadaveri venivano trasportati in una sala mortuaria e nella mia stanza arrivava un odore che non riuscito a distinguere, finché non mi fu detto chiaro cos’era. Sa, credo proprio che non sopravvisse nessuno di quanti conobbi.</div><div style="text-align: justify;">«Con il 25 aprile persi tutti gli amici, che tornarono a casa. In compenso ritrovai i miei genitori che vennero in ospedale, attraversando l’Italia su un camion e spendendo tutti i loro risparmi. Si persuasero che fossi spacciato. Capirà quindi che, nelle mie condizioni, il 25 aprile significò anche riabbracciare i miei che temevo di non vedere mai più. Ora lei mi chiede cosa furono in definitiva quegli anni per me. Fu un’esperienza che mi segnò profondamente nel fisico e nel morale. Appresi nei giro di due anni l’esistenza della morte, l'insensatezza delle guerre, il valore della solidarietà umana al di là delle barriere di lingua e di costumi: appresi certi sentimenti estremi, che mai avrei pensato dovessero essermi familiari: la fame, la paura. Appresi l’invidia. L’invidia per i sani, i padroni insolenti e lieti del loro corpo, coloro che potevano usarlo liberamente per amare, per combattere, per resistere. Ecco, non so se sono alla fine riuscito a farle capire cosa sia questo cinquantenario per me».</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-71463047915484797522023-10-17T08:43:00.000+02:002023-10-17T08:43:01.401+02:00Don Puglisi raccontato da Borrometi agli alunni<p></p><div style="text-align: center;"> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRho1lCCeh-b6mksxgCK3KVv28XhsqNbjbvmoYrqekFifusE3GCV72N7E6bfF2QX0BQwA0y7YFuT6tnsedW5zncN_0r8azmJrxDEYeN1_AOJU_b7jL_PVCfid8r0FHRpuBwCzq1XMpMaYBzAQzIbPRMg3OAKsVnOKux5TnXY07vKgHjqC_fzn49shyphenhyphenvU4/s750/Padre%20Pino%20Puglisi.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="421" data-original-width="750" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRho1lCCeh-b6mksxgCK3KVv28XhsqNbjbvmoYrqekFifusE3GCV72N7E6bfF2QX0BQwA0y7YFuT6tnsedW5zncN_0r8azmJrxDEYeN1_AOJU_b7jL_PVCfid8r0FHRpuBwCzq1XMpMaYBzAQzIbPRMg3OAKsVnOKux5TnXY07vKgHjqC_fzn49shyphenhyphenvU4/w400-h225/Padre%20Pino%20Puglisi.jpeg" width="400" /></a></div>Articolo già uscito su Doppiozero<p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Padre Pino Puglisi di Brancaccio (chiamato 3P, quante quelle di Pier Paolo Pasolini, al quale lo univano i ragazzi di vita e le borgate di città) fu ucciso nel 1993 e venne beatificato nel 2013 come martire della Chiesa. Quel 25 maggio Paolo Borrometi (giornalista siciliano di Modica, condirettore dell’agenzia Agi e dal 2014 sotto scorta perché nel mirino della mafia) incontrò a Palermo, invitato dal preside, una classe di scuola media per ricordarne la figura. Il contenuto rivariato di quell’incontro costituisce oggi il libro<i> Siate rompiscatole </i>(Mondadori, pp. 94, euro 15,90), per pubblicare il quale Borrometi ha atteso dieci anni, così da commemorare con la ricorrenza della beatificazione anche il trentennale dell’omicidio.<span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgs2V8rur_EFQFWzd1acbDSEw5SNXmCopwpVDoO0Cu2u2RQncjxOlEZkc2AhlQpkpi-PFHugLX2fucx3hyphenhyphenPJKOFmkX5A444WQ0EfuRW2n99p6AD0yAi0U7zbSMdFbjFS0bGW0sJZKKPkN0FiO7UPl815GvvRgCBTgyBe3zeU7puhkAUri3e7Y1aaUicSsk/s425/Siate%20rompiscatole_.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="425" data-original-width="281" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgs2V8rur_EFQFWzd1acbDSEw5SNXmCopwpVDoO0Cu2u2RQncjxOlEZkc2AhlQpkpi-PFHugLX2fucx3hyphenhyphenPJKOFmkX5A444WQ0EfuRW2n99p6AD0yAi0U7zbSMdFbjFS0bGW0sJZKKPkN0FiO7UPl815GvvRgCBTgyBe3zeU7puhkAUri3e7Y1aaUicSsk/s320/Siate%20rompiscatole_.jpg" width="212" /></a></div>Il libro - breve ma denso, con i disegni di Giuli Tomai e un dizionario delle parole legate al fenomeno mafioso scritte sulla lavagna, da “omertà” a “legalità” - è il racconto anche della propria esperienza sul fronte della lotta alla mafia, nella chiave di un precetto espresso quel giorno con forza alla classe di scolari: «Siamo responsabili di ogni cosa che scegliamo di non vedere». Ed è nello stesso tempo la narrazione di un confronto con una mentalità acerba ma manifesta, pervasa dagli stessi rigurgiti sociali che animarono i “picciriddi” raccolti da Padre Puglisi per strada e portati in parrocchia (la colpa che Totò Riina imputava al “parrinu”): rigurgiti, in alcuni degli alunni, fatti di avversione contro lo Stato, spirito di ribellione, appartenenza a un mondo separato, identità territoriale.</div><div style="text-align: justify;">Borrometi racconta che si presentò in classe con una scatola che ripose sulla cattedra, come fece Don Puglisi il giorno in cui per la prima volta entrò in un’aula di liceo con uno scatolone sottobraccio sul quale saltò su dicendo «Avete capito chi sono io? Sono un rompiscatole». Poi ricostruì la storia di Brancaccio, narrò la vita di Don Puglisi e di conseguenza anche la propria, infine seguì la cerimonia in televisione di beatificazione con tutti gli alunni, compresi in un concorde sentimento di solidarietà e di impegno civile nel quale la diffidenza iniziale si era stemperata in un nuovo gurgite.</div><div style="text-align: justify;">La “storia di Padre Puglisi raccontata alle ragazze e ai ragazzi” (come specifica il sottotitolo) è quella di una vicenda esemplare per coraggio, apostolato cristiano e spirito umanitario. Sono stati scritti libri e realizzati film per l’eccezionalità della sua esperienza così emblematica e traumatica, implicando non solo l’assassinio di un prete tradizionalmente intoccabile, ma anche condizioni sociali e umane inimmaginabili in un quartiere di Palermo, emerse solo dopo la sua morte in una drammaticità valsa a mettere sotto processo un’intera città e la sua classe politica, proprio quanto la mafia si era proposta di scongiurare perché Brancaccio rimanesse terra franca, una Caivano moltiplicata per mille ma nata mezzo secolo prima. La mafia non voleva lo Stato a Brancaccio e Padre Puglisi vi portò addirittura la Chiesa.</div><div style="text-align: justify;">Sfidò i boss con l’arma più micidiale: la sottrazione a Cosa nostra della sua linfa vitale, cioè i bambini e gli adolescenti: che se portati a giocare a calcio avrebbero imparato le regole del gioco e con esse diritti e doveri, oltre che attività che nulla avevano a che fare con quelle alle quali erano votati rimanendo per strada: piccoli furti, corrieri, pali. Di quello che era destinato a restare un reclusorio di sicuri delinquenti, 3P fece un vivaio di essere umani. E colpì al cuore gli interessi più cospicui della mafia con in più la forza di sostituirsi ad essa nell’opera di assistenza della gente disagiata.</div><div style="text-align: justify;">Sapeva che la sfida lanciata costava ben più del rischio di un’azione di isolamento o di “maschiaramento”, che pure fu intentata con la propalazione dell’accusa di denigrare e disprezzare gli abitanti favorendo l’intervento di giornali, forze dell’ordine e magistratura, ma 3P era uno che “sparava dritto”, secondo un modo di dire palermitano che indica schiettezza e coerenza: aveva ben presente il pericolo che incombeva su di lui da sorridere infine ai sicari andati sotto casa sua a ucciderlo, dicendo loro: “Me l’aspettavo”.</div><div style="text-align: justify;">A differenza di Falcone, Borsellino e dei tanti magistrati, funzionari di polizia e ufficiali dei carabinieri caduti sotto i colpi della mafia in nome dello Stato, per il quale lavoravano con spirito di servizio, Padre Puglisi diede la vita, sapendo bene di perderla, in nome di un senso umanitario, liberale e sorgivo, che anteponeva alla stessa Chiesa: quando le suore gli dissero che tutti quei bambini attorno a lui non erano nemmeno battezzati, rispose di non pensare a questo, perché prima che cristiani dovevano diventare uomini. Ma fu tanto sacerdote da abolire la colletta durante la messa perché i fedeli non si distraessero a contare spiccioli, per cui apparecchiò un tavolinetto sul sagrato. </div><div style="text-align: justify;">E questo fece, fidando nella Provvidenza, quando si trattò di trovare 290 milioni per l’acquisto di una casa da trasformare in Centro di accoglienza. Il cardinale Pappalardo, che l’aveva insediato a Brancaccio, contribuì con trenta milioni, per il resto accese un mutuo personale e confidò nella generosità dei fedeli. Che per la festa di San Gaetano, esortati dai boss, erano stati capaci di raccogliere ogni anno più di 80 milioni, fino al suo arrivo quando annullò la festa per tenere lontana la mafia dalla chiesa di San Gaetano, dov’era parroco.</div><div style="text-align: justify;">Quando, dopo la morte, il magistrato entrò in casa sua racconterà di aver trovato un giaciglio al posto del letto, gli oggetti essenziali e solo tantissimi libri. Diceva che gli serviva solo la benzina per potere girare il quartiere di casa in casa, perché per il resto non aveva bisogno di niente: mangiava prodotti in scatola e pane anche raffermo. Ma non esitò ad andare in banca e chiedere 260 milioni per il Centro che aveva già un nome, “Padre Nostro”, ed era proprio di fronte alla parrocchia.</div><div style="text-align: justify;">Per gli ingenti lavori di ristrutturazione si rivolse a un grosso imprenditore edile che si offrì di aiutarlo gratuitamente, ma quando si sentì chiedere cosa fosse disposto a fare in cambio, andò via di casa dicendogli che non aveva bisogno più di niente. Quell’imprenditore ricchissimo era un uomo legato a Cosa nostra e uno dei principali riciclatori di denaro sporco, ma Don Puglisi non lo sapeva.</div><div style="text-align: justify;">Sapeva però di non dovere avere alcun contatto non solo con i mafiosi ma nemmeno con i politici, di qualunque colore fossero. Così mise alla porta un candidato della Dc che voleva avvicinare i fedeli della sua chiesa distribuendo non immaginette ma facsimili elettorali. Si mostrò scettico persino con alcuni abitanti che avevano costituito un comitato intercondominiale per la realizzazione della rete fognaria e disse loro, fiduciosi di averne il sostegno, che ci avrebbe pensato: prima voleva sapere se fossero onesti. Lo erano e si impegnò con ogni sforzo al loro fianco, ma pagando personalmente e da solo la lotta per il miglioramento della qualità della vita nel quartiere.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrTf-BTCrcFZC5fCTGgxx7axGYnz7v1jWicNNjbm3ziEmj8JxGbJFCxoJcWTVbYWnaTKC0lwoHgsScB0L5o40m18qbquC9u1NrTJPhtttD8YkiIksR87xiR1XhXO1JlFDunyrddFjVFa5GuVswVJycBOULd2HVWhjNxSiYSh2y5QA0SEgmbksqOJKpS_I/s1280/Paolo-Borrometi.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrTf-BTCrcFZC5fCTGgxx7axGYnz7v1jWicNNjbm3ziEmj8JxGbJFCxoJcWTVbYWnaTKC0lwoHgsScB0L5o40m18qbquC9u1NrTJPhtttD8YkiIksR87xiR1XhXO1JlFDunyrddFjVFa5GuVswVJycBOULd2HVWhjNxSiYSh2y5QA0SEgmbksqOJKpS_I/s320/Paolo-Borrometi.jpeg" width="320" /></a></div>Nel suo libro Borrometi racconta anche di sé, della selvaggia aggressione subita, delle ripetute minacce di morte, del principio di incendio appiccato alla casa di famiglia, della sua vita senza privacy. Così gli alunni medi di Palermo vollero alla fine sapere più di lui, lì presente e ogni giorno nel mirino, che di Padre Puglisi, figura storicizzata. «Come si fa a non avere paura?» gli fu chiesto. «La paura c’è, sarebbe folle non averne – rispose il giornalista. – Ne aveva molta anche Falcone, il quale disse che avere coraggio è anche avere paura». Lo scriveva anche Melville nel suo <i>Moby Dick</i>: “Il coraggio più utile e sicuro è quello che sorge dalla considerazione del pericolo affrontato”.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-11019011674422350362023-10-15T12:24:00.005+02:002024-03-14T09:46:41.704+01:0011 Settembre, Camilleri: doveva essere un'azione di polizia<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt-rttQ1L2dg4Vwfk9G-_82s-fu0Cvj6G218Vgz0nYzZKsUp4BdTb2uRWW8TKiuZAPqmxYanUfU0WTQl7RskGrprJ-bTNEBHRlnluhpOMQ75IViIQop7_HY5hUW_R6klui9V_NAycNU-1dMIyFAyyk3hyphenhyphenfNazty2AKmtRip73gV2kpxttJy9IOQeaWEoA/s2100/andrea-camilleri.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1390" data-original-width="2100" height="265" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt-rttQ1L2dg4Vwfk9G-_82s-fu0Cvj6G218Vgz0nYzZKsUp4BdTb2uRWW8TKiuZAPqmxYanUfU0WTQl7RskGrprJ-bTNEBHRlnluhpOMQ75IViIQop7_HY5hUW_R6klui9V_NAycNU-1dMIyFAyyk3hyphenhyphenfNazty2AKmtRip73gV2kpxttJy9IOQeaWEoA/w400-h265/andrea-camilleri.jpg" width="400" /></a></div><br /></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><i>Il 7 Ottobre come l’11 Settembre. La guerra israelo-palestinese, vista come reazione istituzionale contro l’offensiva terroristica scatenata da Hamas, ricorda la risposta degli Usa all’attentato di Al Qaeda a New York. Il 9 novembre 2001 intervistai su “La Sicilia” Andrea Camilleri, che vale l’occasione di rileggere per le tante, impressionanti, analogie che legano i due fatti.<span><a name='more'></a></span></i></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZYiO_r81dUiJlBSBg9KHdfF75HfzsKMzhgioO7i2XJpTpI7_yu_HD6UqYt80RsVrQ8tRiOCbL029XzXMUrckmRLOKAulsjj0RCYoumnK4HZXE-L6Y6nICTEncY6RFDcHgYCErBFDuW6k43qY831TTfI6Q90oKpXBzaojmqVFUPhgO0VsZFyusU8uYJMQ/s1115/11.9%20camilleri.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1115" data-original-width="750" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZYiO_r81dUiJlBSBg9KHdfF75HfzsKMzhgioO7i2XJpTpI7_yu_HD6UqYt80RsVrQ8tRiOCbL029XzXMUrckmRLOKAulsjj0RCYoumnK4HZXE-L6Y6nICTEncY6RFDcHgYCErBFDuW6k43qY831TTfI6Q90oKpXBzaojmqVFUPhgO0VsZFyusU8uYJMQ/s320/11.9%20camilleri.jpg" width="215" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>Se chiedete ad Andrea Camilleri, in una sorta di gioco non della mosca ma del grillo cosa, per associazione di idee, gli fa pensare la parola guerra, lui vi risponde “distruzione”. Per forza. Era ragazzino quando a Porto Empedocle le bombe gli piovevano notte e giorno addosso e le case cadevano mentre la gente scappava. Lui correva con gli amici a soccorrere i feriti nel senso contrario alla direzione della folla e non avrebbe desiderato che essere in quel momento proprio lì. Chiedetegli invece cosa avrebbe fatto al posto di Bush e sentite cosa vi risponde: «No, guardi, mi rifiuto di pensarmi al posto di Bush e di qualunque altro capo di Stato: è come considerarmi membro di un giuria che deve condannare a morte qualcuno. Non ci sto. Quindi non riesco affatto ad immaginare cosa avrei fatto. Anche la mia fantasia di romanziere si arresta».</div><div style="text-align: justify;"><b>Va bene, ma immaginiamo che fosse dipeso da lei decidere cosa fare dopo l’attentato.</b></div><div style="text-align: justify;">Allora senta. Bush si è trovato in una situazione non augurabile a nessuno. Al suo Paese è stata inferta una ferita gravissima: è stato abbattuto non tanto un simbolo, ciò che sarebbe nulla, quanto è stata commessa una strage di tremila persone innocenti. Ebbene, questo è un atto comunque proditorio che va deprecato con tutte le forze. Cosa deve fare, di fronte a un atto simile, un capo dello Stato? Non se n’è mai visto uno che abbia porto l’altra guancia. Ha fatto bene Bush a reagire. Il mio dissenso personale non riguarda la sua decisione di attaccare, che trovo un dovere, ma i metodi di ritorsione. Non dico che sia giusto il perdono, ma trovo che questi interventi militari si risolvono nei soliti bombardamenti su obiettivi anche civili, come si è visto – lasciando perdere le stime dei morti – con la morte di quattro dell’Onu in veste di sminatori. Chi dice che è necessario fare una guerra di questo tipo contro una nazione già stremata? I bombardamenti terrorizzano una popolazione inerme, ma non certo i talebani. L’abbiamo visto in Jugoslavia. L’abbiamo visto con Saddam Hussein. Ripetere questo giochetto è da sciocchi. E’ invece colpevole non cercare di sradicare il terrorismo con un’azione che elimini la possibilità di reclutamento di persone allo sbando o invase da una distorta lettura delle loro pagine religiose.</div><div style="text-align: justify;"><b>Quindi lei dice che l’azione di guerra andrebbe ridotta a un’azione di polizia?</b></div><div style="text-align: justify;">Un’azione di polizia estesa a tutti i Paesi, anche il nostro. Ma di polizia. Allora sì che avrebbe avuto un altro significato la risposta all’attacco terroristico. La Marina, i Cruise, i caccia determinano sempre il coinvolgimento della popolazione civile. E dopo aver visto documentari televisivi sulla fame in Afghanistan non dormo al pensiero di appartenere a una parte di mondo che sta buttando agli afghani le bombe addosso. Questo tipo di bombardamenti minaccia di accendere una miccia inimmaginabile negli altri Paesi arabi. Eliminato Bin Laden, si elimina forse il terrorismo? Se non si ragiona in maniera meno affrettata, l’azione di guerra Usa potrebbe perpetuare la tensione. L’altro giorno leggevo un ironico articolo il cui autore diceva che l’Onu non è stato ancora capace di definire la parola terrorismo. Perché in effetti è difficile stabilire chi sono i terroristi e metterli tutti in una sola barca. Sono terroristi quelli dell’Erta, quelli dell’Ira, sono chiamati terroristi i palestinesi, è chiamato terrorista Bin Laden. Ma parliamo di realtà diversissime. Pensi solo questo: l’individuo che in anni remoti fece saltare, o quasi, l’ambasciata americana a Roma e che poi ebbe il Nobel per la pace (si chiamava Peres, un ebreo omonimo di quello attuale) apparteneva alle organizzazioni terroristiche. Basta poi ricordare cos’è stata la banda Stern. Sono diventati tutti padri della patria ed eroi nazionali. Allora capisco perché l’Onu debba perdere tanto tempo e dirci cosa dobbiamo intendere quando parliamo di terrorismo: se riuscissimo a trovare una definizione convincente, il campo d’azione sarebbe molto ristretto.</div><div style="text-align: justify;"><b>Alla fine Bin Laden è solo un terrorista più bravo degli altri?</b></div><div style="text-align: justify;">Il più bravo e soprattutto il più pericoloso. È diventato un maestro della televisione. Anche l’attacco alle Torri è stato spettacolare nel fatto che il secondo aereo sia arrivato diciotto minuti dopo, sotto le telecamere di tutto il mondo.</div><div style="text-align: justify;"><b>Se fosse stato attaccato un grande simbolo dell’Islam, che so, la Grande moschea della Mecca, la reazione del mondo sarebbe stata uguale?</b></div><div style="text-align: justify;">Nella percezione occidentale sarebbe stata minore, ma nel mondo islamico sarebbe stata due volte maggiore di quella che abbiamo visto per le Due Torri.</div><div style="text-align: justify;"><b>Il rischio, a questo punto, non è di trasformare tutto il mondo in un grande Israele, che ingaggia con la Palestina un rapporto continuo di ritorsioni? Bush sta facendo con Kabul quello che Tel Aviv fa ad ogni attentato palestinese.</b></div><div style="text-align: justify;">È questo che bisogna impedire ad ogni costo. Noto una certa avventatezza. Si parla un po’ troppo. Il problema dell’Islam è un nodo grosso e serio che va studiato con una delicatezza che non hanno gli elefanti della politica.</div><div style="text-align: justify;"><b>Secondo lei è una guerra di religione quella cui assistiamo? Occidente contro Oriente?</b></div><div style="text-align: justify;">Non è una guerra di un Dio contro un altro, ma una guerra tra istituzioni religiose. Una guerra fatta anche di mistificazioni: non è vero per esempio che il Corano inciti al suicidio e all’uccisione di donne e bambini. Anche il Vangelo è stato interpretato in forme molto rigide: basta pensare alle Crociate. Nella guerra tra Urss e Cina, Marx era uno solo, come Lenin, eppure si sono sparati nell’interpretazione non di una religione bensì di un fatto concreto, l’applicazione pratica del comunismo.</div><div style="text-align: justify;"><b>Al fondo quindi giocano interessi economici?</b></div><div style="text-align: justify;">Secondo me sì. Io non vedo nulla in Bin Laden che mi faccia pensare a un’ispirazione religiosa.</div><div style="text-align: justify;"><b>Nessuna spinta fondamentalista?</b></div><div style="text-align: justify;">Guardi che la Palestina Bin Laden l’ha scoperta solo l’altro ieri. Avrebbe potuto parlarne anche anni fa. Non l’ha fatto.</div><div style="text-align: justify;"><b>Da quali intenti allora è mosso?</b></div><div style="text-align: justify;">Non lo so. Credo che sfrutti gli errori, il malumore e l’odio di popolazioni, non solo arabe, ai fini di una dissennata politica. Ma attenzione: ciò detto non significa minimamente giustificare l’attacco alle Torri. Lo diceva l’altra sera Riotta: intanto c’è stato un attacco assassino, punto: non parliamo dell’errore della politica americana.</div><div style="text-align: justify;"><b>Bin Laden dice che, per colpa degli americani, gli arabi non hanno avuto solo tremila morti ma centinaia di migliaia.</b></div><div style="text-align: justify;">Questi conteggi di morti mi ripugnano. Allora che facciamo? Ci fermiamo solo quando avremo ammazzato seimila musulmani? O centomila? Se Bush dicesse una cosa simile tutti gli risponderemmo: “No, tu ti fermi perché sei pazzo”.</div><div style="text-align: justify;"><b>Se questa escalation crescesse dove ci porterebbe la spirale bellica?</b></div><div style="text-align: justify;">Il fatto sa qual è? Che adoperiamo le parole in modo sbagliato. E quando usiamo parole sbagliate le conseguenze sono spaventose. Se fin dall’inizio non avessimo parlato di guerra oggi forse la guerra non ci sarebbe stata. È stato un atto terroristico spaventoso quello subito dagli Usa, non un atto di guerra.</div><div style="text-align: justify;"><b>La colpa è allora dei giornali che hanno usato per primi la parola guerra?</b></div><div style="text-align: justify;">La colpa è dell’enfatizzazione del nostro tempo. Prenda la Borsa: “caduta libera, “il mercato vola”. Si usano termini enfatici. Ed ecco il risultato. Assistiamo a un effetto di ridondanza enorme. E peggio ancora è quando il termine guerra lo pronuncia il presidente Usa.</div><div style="text-align: justify;"><b>Quindi se l’Occidente ha parlato dal primo momento di guerra, l’Oriente si è visto costretto a parlare di “guerra santa”.</b></div><div style="text-align: justify;">Esatto. Un grande equivoco. Invece bisognava avere i nervi saldi, cosa non facile per niente. Bush doveva dire: “Guardate che questa è un’azione di polizia, vasta sì, ma senza soldati”. Ha sbagliato.</div><div style="text-align: justify;"><b>Eppure è bellissima l’immagine di Bush che, avvertito per due volte dei successivi attacchi alle Torri, continua a parlare agli alunni di libri di testo. Una bella prova di tenuta di nervi, un bel gesto di rassicurazione.</b></div><div style="text-align: justify;">Posso fare tutte le critiche a Bush e le faccio, ma non auguro a nessuno di trovarsi al suo posto in un momento simile. E devo dire che sono stato sempre molto critico nei confronti degli Usa, ma ho ammirato il lungo periodo di attesa prima dell’attacco.</div><div style="text-align: justify;"><b>Lei una volta ha detto che non vede “negli Usa il vero Paese della libertà”. È antiamericano al fondo?</b></div><div style="text-align: justify;">Io sono un fan di Faulkner: lo leggo, lo rileggo, lo studio. Di cosa parla Faulkner se non degli Stati Uniti? Come si fa a non volere bene a un Paese al quale si deve tanto?</div><div style="text-align: justify;"><b>Ma è un Paese in figura di una donna che se è stata molto amata viene anche molto odiata. C’è molto sentimento antiamericano in giro.</b></div><div style="text-align: justify;">Me la devono spiegare questa avversione a priori. Io la provo solo congiunturalmente.</div><div style="text-align: justify;"><b>Beh, una certa vocazione imperialista e da padrone della giostra l’America l’ha sempre avuta.</b></div><div style="text-align: justify;">Oggi è la nazione più potente del mondo.</div><div style="text-align: justify;"><b>Il problema è che questa potenza la ostenta un po’ troppo.</b></div><div style="text-align: justify;">È inevitabile. Io pensavo nella mia illusione, non come fatto antiamericano ma come motivo di bilanciamento degli equilibri, che l’Europa potesse avere un suo peso politico. E invece così non è stato.</div><div style="text-align: justify;"><b>Gli americani disconoscono la legittimità dell’Europa ad avere voce in capitolo, dice?</b></div><div style="text-align: justify;">No. Siamo noi europei che abbiamo una voce flebile. La verità è che se crolla il dollaro l’euro va a picco. È inutile: sono i pesi economici che determinano il potere di una nazione fino a questo punto.</div><div style="text-align: justify;"><b>Anche l’Opec potrebbe dire la sua. Potrebbe per esempio negare il petrolio all’Occidente.</b></div><div style="text-align: justify;">Ma non lo farà mai per motivi di profitto. Non stiamo parlando di santi, ma di ricche famiglie che hanno ben altri interessi che quello di sostenere una guerra santa.</div><div style="text-align: justify;"><b>È fantasiosa l’ipotesi di una coalizione panaraba contro l’Occidente?</b></div><div style="text-align: justify;">Se gli americani estendono il conflitto sarà inevitabile che ciò accada. Sa, mi ha molto incoraggiato – e mi dispiace dirlo perché non sono credente – il viaggio del Papa. L’ho visto come un gestro straordinario, un tentativo estremo di salvare il salvabile.</div><div style="text-align: justify;"><b>Ha letto l’articolo della Fallaci che afferma il primato della civiltà occidentale su quella orientale e che non rinuncerebbe mai ai piaceri del nostro mondo per aderire a pratiche medievali?</b></div><div style="text-align: justify;">Ho letto solo le prime righe. Poi il sovratono mi ha maldisposto per cui non ho più continuato a leggere. Ma debbo dire che non credo che la cultura si mostri in una donna che porta il velo o no. Gli usi e i costumi cambiano anche con la storia. Pensi a cosa sarebbe stata la Turchia senza la secolarizzazione: avremmo avuto un altro stato islamico legato alla dottrina del Corano.</div><div style="text-align: justify;"><b>Già. Io e lei, se le cose in Sicilia fossero andate un tantino diversamente, oggi parleremmo arabo e staremmo dalla parte di un’altra causa.</b></div><div style="text-align: justify;">Ma sa, non mi dispiace per niente che nella storia della letteratura araba ci sia un capitolo dedicato ai poeti arabi in Sicilia.</div><div style="text-align: justify;"><b>Se c’è dunque una popolazione che può comprendere quella araba questa è quella siciliana?</b></div><div style="text-align: justify;">Le devio raccontare quanto mi è successo una quindicina di anni fa e la prego di credermi. Mi sono sentito sempre un po’ straniero fuori dalla Sicilia. Eppure quando mi sono trovato per la prima volta al Cairo mi è capitato che, non avendo sonno, mi sono messo di notte a passeggiare per la città. Alle due del mattino ho chiamato mia moglie che mi ha chiesto come mi trovassi. Non so da dove mi è venuto di rispondere che mi sentivo a casa. Era un mondo che non conoscevo, che mi veniva fuori dal mio Dna. Ogni volta che sono tornato al Cairo ho sempre avuto la stessa sensazione.</div><div style="text-align: justify;"><b>Quindi è vero che noi siciliani abbiamo sangue arabo pronto a risvegliarsi.</b></div><div style="text-align: justify;">È vero. E forse proprio noi siciliani potremmo svolgere un ruolo importante, almeno nei rapporti tra persona e persona e non politicamente. Ci sono tanti immigrati arabi in Sicilia. Parliamo loro. Avviciniamoli. Cerchiamo di capirli.</div><div style="text-align: justify;"><b>Lei come combatterebbe il terrorismo?</b></div><div style="text-align: justify;">Se parliamo di Bin Laden, bisogna arrestarlo e fargli terra bruciata attorno come fu fatto con il bandito Giuliano. Se parliamo della Palestina, occorre procedere con dei riconoscimenti, come sta facendo Bush. Per ogni fenomeno di terrorismo è necessario accertarne le finalità e scoprire cosa lo anima., La generalizzazione della parola ci impedisce di individuare il terrorismo che noi vorremmo combattere.</div><div style="text-align: justify;"><b>A suo parere c’è ragione di preoccuparsi?</b></div><div style="text-align: justify;">Sinceramente non credo che si arriverà a conseguenze catastrofiche. Credo che a un certo punto prevarrà il buonsenso. Personalmente non riesco a considerare nemici gli afghani. E non riesco a considerare tali né i talebani né i mujaheddin. Io vedo come la punta di un iceberg, ma non so se sotto c’è tutto il ghiaccio che deve avere un iceberg o se è una punta violenta. Bin Laden è un terrorista protetto da un partito che è attualmente al potere ed è chiaro che gli altri partiti, i mujaheddin o i monarchici, sono contrari. Perché identificare Bin Laden con tutto l’Afghanistan come si sta facendo?</div><div style="text-align: justify;"><b>Sarebbe peraltro sostituito subito.</b></div><div style="text-align: justify;">Non c’è dubbio. LI ha già fatti vedre in televisione i suoi successori. “Ecco chi siamo”, sembra aver voluto dire.</div><div style="text-align: justify;"><b>Cosa gliene sembra della richiesta Usa a Kabul di consegnarlo?</b></div><div style="text-align: justify;">Non si può dire ai talebani “Dammi l’ospite che tieni in casa”. Pesa molto. Come si fa? Questo significa partire col piede sbagliato.</div><div style="text-align: justify;"><b>Perché Bin Laden più si mostra e più piace? Replica quasi la sindrome di Garibaldi. Anche lui era in fondo un terrorista. Che piaceva.</b></div><div style="text-align: justify;">E certo. Dire alle televisioni di non farlo vedere significa riconoscere che ha un potere di fascinazione, malefico certamente. Bin Laden esercita il fascino del cattivo, che piace sempre. Hanno fatto benissimo a chiedere l’oscuramento della sua immagine.</div><div style="text-align: justify;"><b>Cosa gli direbbe se gli potesse parlare?</b></div><div style="text-align: justify;">Non mi auguro di potergli parlare.</div><div style="text-align: justify;"><b>Teme per la pelle?</b></div><div style="text-align: justify;">No. Temo di sentirmi a disagio di fronte a uno che gioisce per la morte di tremila persone. Gli chiederei solo una cosa, pregandolo di essere onesto davanti al suo Dio, se ci crede, cosa che dubito: perché?</div><div style="text-align: justify;"><b>Perché l’ha fatto?</b></div><div style="text-align: justify;">Sì, perché? Vede, Brigate rosse, palestinesi, terroristi dell’Eta sappiamo cosa vogliono. Ma Bin Laden cosa vuole? Della Palestina non gli importa niente. Della religione ancora meno. E nulla gli interessa degli afghani che muoiono di fame. E allora perché fa il terrorista?</div><div style="text-align: justify;"><b>Per un suo ideale antioccidentale magari. Pensi ai terroristi kamikaze. Ce ne sono a migliaia, mentre non si troverebbe un solo occidentale pronto a morire per un ideale. Lo riterremmo, semmai si trovasse, un folle. Cosa pensa di loro?</b></div><div style="text-align: justify;">Sono persone difficili da giudicare, perché ripongono una totale fede in ciò che fanno, a differenza di noi occidentali. Bisogna imparare a comprendere i popoli, altrimenti succede che uno si fa saltare in aria e noi ci chiediamo perché. Gide fa dire a un giovane arabo della fine dell’Ottocento: “La vostra è una civiltà superiore, ma avete un punto debole: avete paura della morte”.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-51519119168531175462023-09-27T19:43:00.004+02:002023-09-28T08:25:44.923+02:00Quella pesca, una tentazione senza possibilità<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHCXU-evbgzzx9FDSBGNTgoM8VYgq8dFCQGoRjQDuKBRc99lpNEbBDtTCKW8yUcJEnOFhRqFH24z1IPOTU22Zz4p5JkfxlgSm8dWF6-OYzhRn8RE28NPL41q0z0MeQMsPm5D9e371vq4FfdaD80BETCZnmP5w0UnVAt4SNNJpWKHfrBztqXACFFGlMm7I/s2388/spot%20pesca.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1162" data-original-width="2388" height="195" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHCXU-evbgzzx9FDSBGNTgoM8VYgq8dFCQGoRjQDuKBRc99lpNEbBDtTCKW8yUcJEnOFhRqFH24z1IPOTU22Zz4p5JkfxlgSm8dWF6-OYzhRn8RE28NPL41q0z0MeQMsPm5D9e371vq4FfdaD80BETCZnmP5w0UnVAt4SNNJpWKHfrBztqXACFFGlMm7I/w400-h195/spot%20pesca.jpg" width="400" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Lo spot della Esselunga, lodato e lanciato da Giorgia Meloni, è bello ma distorsivo. Una bambina che soffre per la separazione dei genitori e prova perciò a farli rappacificare dando al padre una pesca presa al supermercato dicendogli che è stata la madre a fargliela avere non è solo una piccola bugiarda che architetta intricati inganni (davvero inefficaci, perché chiunque penserebbe al posto del marito che lei si voglia prendere beffa di lui con una pesca), ma anche un giudice che ha già dato alla mamma la colpa della separazione. <span><a name='more'></a></span>La bambina, che sorride solo al padre, verso il quale corre contenta, quando stando con la madre non solo si allontana dentro il market a sua insaputa ma non le rivolge la parola in macchina, è palesemente a favore di lui, al quale attribuisce il potere della riconciliazione: gli dà infatti la pesca perché lui perdoni la mamma, sempreché poi la ex moglie non gli dica che ha fatto tutto la figlioletta. La quale non ha invero bisogno di tali mezzi per mostrare ai genitori quanto stia male a non vederli insieme, ancor più quando le capita di guardare dal finestrino della macchina e invidiare altre famigliole.</div><div style="text-align: justify;">Nessuna bambina potrebbe gioirne, sicché quale messaggio lo spot Tv finisce per trasmettere? Proponendosi di dimostrare che ogni acquisto ha un suo valore affettivo, ottiene di far passare una pesca per la mela del peccato originale, offerta da Eva in combutta col serpente ad Adamo perché mangi il frutto proibito. La tentazione cui induce allora i genitori la piccola Emma (portatrice di un nome che rimanda a una più infingarda e infelice Emma, quella flaubertiana) è, provando a recuperare il loro amore, di darsi una possibilità. Che però è impraticabile dal momento che i due coniugi l’hanno considerata un frutto proibito, anche al costo di far soffrire la loro piccola. L’effetto subliminale dello spot è di addossare a lui e a lei un peccato, che è quello del divorzio, una conquista cinquantennale della società italiana che solo rigurgiti reazionari e fondamentalisti agitano anche politicamente.</div></span><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Lo spot non è però solo distorsivo, ma è anche inappropriato allo scopo per il quale è stato realizzato. L’idea che ogni acquisto sia un dono per sé e per gli altri può trovare spazio in un ambito nel quale sia il consumismo a dettare i comportamenti sociali. Acquistare merci non è, soprattutto oggi, un credo al quale votarsi se le urgenze maggioritarie sono quelle di risparmiare, contenere le spese, scegliere i beni necessari e rinunciare a quelli voluttuari. La stessa bambina avrebbe pensato a un fiore, magari di campo, adducendo che fosse stato raccolto da mamma o papà per farlo avere per sua mano al coniuge. Questo sì sarebbe stato uno spot “molto bello e toccante”, secondo le parole della presidente del Consiglio, epperò avrebbe dovuto essere realizzato da un floricoltore e non da un centro commerciale dove tutto si trova tranne che i fiori e che legittimamente, per i suoi interessi, può stabilire che “non c’è una spesa che non sia importante”. Un altro avrebbe dovuto essere, nel nostro esempio, lo slogan finale in sovraimpressione: “Non si può cogliere un fiore senza turbare una stella”, celebre massima di Galileo Galilei, che bene si presta a mutare un turbamento in un ripensamento.</div><div style="text-align: justify;">Lo spot (più che altro un corto) è stato lodato dai conservatori e contestato dai progressisti che hanno parlato, con qualche ragione, di strumentalizzazione. Averla come al solito buttata in politica ha svuotato di contenuto quella che è una questione di coscienza che solleva domande su aspetti relativi al Leviatano del nostro tempo, cioè il mercato. Esselunga ha pensato che coniugare cuore e pancia fosse come portare nel portafoglio soldi e foto dei propri cari. Si può fare, lo fanno tutti. Ma non sono logiche nelle quali coinvolgere una bambina entro una sfera di affetti così delicata com’è quella che si crea nella precarietà di un matrimonio.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-59671573187205646182023-09-09T10:28:00.001+02:002023-09-09T10:39:41.563+02:00La Bibbia di Mercadini è un horror<p></p><div style="text-align: center;"> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmaM5VWWpjjNp9g1CWde8cYdQRzSWTmgJ6McApphkysQs0AnvVzOjnIyCRZ7vgoPCJBFoh6rJ826rxj5-tcCvQ5BWhy8SfmZTPZ0g9ZWG92uQEsf9X9zSuwTjA9YfpL8Wtze9y7iXSPU9xpeb2O5dc_EXbJIH79_Yxz3Fw7m5CGqKzW8xGymVr5OqmdgU/s1280/roberto-mercadini-celebrity.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="1280" height="250" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmaM5VWWpjjNp9g1CWde8cYdQRzSWTmgJ6McApphkysQs0AnvVzOjnIyCRZ7vgoPCJBFoh6rJ826rxj5-tcCvQ5BWhy8SfmZTPZ0g9ZWG92uQEsf9X9zSuwTjA9YfpL8Wtze9y7iXSPU9xpeb2O5dc_EXbJIH79_Yxz3Fw7m5CGqKzW8xGymVr5OqmdgU/w400-h250/roberto-mercadini-celebrity.jpg" width="400" /></a></div><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">Articolo uscito il 27 agosto 2023 su Libero</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Paladino dell’oralità, noto per i suoi monologhi, l’attore e scrittore romagnolo nonché youtuber Roberto Mercadini si è misurato stavolta con la suprema parola scritta, la Bibbia: per elicerne le incongruenze e le contraddizioni ponendo in sostanza sotto processo Dio, le Scritture costituendo il suo Verbo. E lo ha fatto in un libro Rizzoli, <i>La donna che rise di Dio</i> (pp. 176, euro 15), che sin dal titolo dichiara l’intento irridente.</span></div><span style="font-size: large;"><span><a name='more'></a></span><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiHworHjBY91esE0qSYFGSDZRCi9_gJTIz5Petar7PERpfvPqtaqULPsohXznOQ5N6eRKAfqNX4_h5KNtlR98jWmnH_ZQTxcfsQpmJRKNMIFnoqxsxCfnmk_xhPlGdf9jXWQ3QIw9pDvIa7QA878Ioi4YKrWMHvKFI7JXVElKeebNpU1WPonAekDg_FRZA/s499/La%20donna%20che%20rise%20di%20Dio,%20pp.%20176,%20euro%2015.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="499" data-original-width="327" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiHworHjBY91esE0qSYFGSDZRCi9_gJTIz5Petar7PERpfvPqtaqULPsohXznOQ5N6eRKAfqNX4_h5KNtlR98jWmnH_ZQTxcfsQpmJRKNMIFnoqxsxCfnmk_xhPlGdf9jXWQ3QIw9pDvIa7QA878Ioi4YKrWMHvKFI7JXVElKeebNpU1WPonAekDg_FRZA/s320/La%20donna%20che%20rise%20di%20Dio,%20pp.%20176,%20euro%2015.jpg" width="210" /></a></div>Ma la sua requisitoria, condotta su singoli eventi veterotestamentari, come fossero capi di accusa e prove della colpa divina, non assume il tono negazionista del miscredente, giacché ogni capitolo si chiude con una riflessione di tipo moralistico e sicuramente laico di quanto le pagine bibliche siano attuali nell’indicare, entro il parallelo di condotte umane così distanti nei secoli, come la natura dell’uomo non sia mai cambiata.</span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Più che una requisitoria, la sua appare però un’operazione filologica di <i>fact-checking</i>, perché - conoscendo l’ebreo antico – si è impegnato a verificare l’esattezza etimologica delle tante parole ed espressioni che, nella traduzione ufficiale, sono entrare a far parte dogmaticamente della fede cristiana. Si scopre così che “Arca dell’Alleanza” sta più prosaicamente per “cassapanca del patto”; che Caino significa “buon acquisto” e Abele “vapore”, cioè destinato a dissiparsi presto; che Giacobbe vuol dire, dall’ebraico ‘aqebh, “tallonare” (di qui il nome del capitano di Melville che insegue la balena); che Isacco sta per “lui riderà”: e riderà perciò dell’atteggiamento dei genitori Abramo e Sara che hanno entrambi riso di Dio dopo il suo annuncio che quasi centenari avranno un figlio.</div><div style="text-align: justify;">La Bibbia è certamente un monumento di fatti inspiegabili e di comportamenti anche divini del tutto insensati, ma il giudizio che prestiamo alle Scritture è quello figlio del nostro tempo, della coscienza moderna e delle leggi attuali: un mondo totalmente diverso da quello dell’Antico Testamento che va visitato con lo sguardo dell’antropologo. Mercadini non accoglie del tutto la differenza e trova inaccettabile che gli scribi della Bibbia non diano alcuna spiegazione di ogni eccesso, come nei casi della vedova che debba sposare il cognato e avere da lui un figlio da attribuire al marito defunto; dell’ospite pronto a cedere la figlia vergine perché sia stuprata dalla folla piuttosto che consegnare ad essa due stranieri in casa sua destinati ad essere sodomizzati; dell’indizione del censimento fonte di maledizione per l’assurda legge che gli ebrei rilevati ufficialmente debbano pagare una tassa sulla loro vita, quasi fossero gogoliane anime morte; del profeta Samuele che ordina a Saul di uccidere tutti gli Amaleciti e con essi anche ogni capo di bestiame. La Bibbia è una letteratura molte volte dell’horror. “I suoi protagonisti – scrive l’autore - quasi sempre si macchiano di colpe orribili o si coprono di ridicolo; o entrambe le cose”. E la tradizione non è da meno se chiama “bubbole” quelle con cui Dio devasta gli abitanti di Ashdod e che in realtà in ebraico sono le emorroidi.</div></span><div style="text-align: justify;"><br /></div> giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-49908304369405367942023-09-06T11:04:00.004+02:002023-09-19T12:11:09.051+02:00Lo scoop del diavolo e il mestiere più antico del mondo<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDtvjzby23aaXoTwzs8oI_rmYNM2ZlnaI6dbaELCxBy50a__V2xXnzHg-bCJULzyqwqvw5EP5EWXr3aDbwHfJOlYEsclgYnScFAYF_9xXiKOGFnqN5oBEjiRp2RzKv8m2k1Oxl9r6-4cyCKjMaGotGMiIoLuKdyXUuwJV5ABPxh-dEvv-aFQNV2U0ZbQ0/s570/eva.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="476" data-original-width="570" height="334" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDtvjzby23aaXoTwzs8oI_rmYNM2ZlnaI6dbaELCxBy50a__V2xXnzHg-bCJULzyqwqvw5EP5EWXr3aDbwHfJOlYEsclgYnScFAYF_9xXiKOGFnqN5oBEjiRp2RzKv8m2k1Oxl9r6-4cyCKjMaGotGMiIoLuKdyXUuwJV5ABPxh-dEvv-aFQNV2U0ZbQ0/w400-h334/eva.jpg" width="400" /></a></div><p></p><p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm;"></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Nel film <i>Un giorno di pioggia a New York</i> di Woody Allen, Gatsby dice a Ashlight di aver parlato con la madre del mestiere più antico del mondo e lei dice: «Il giornalismo allora» per poi correggersi: «No, quello è il secondo». Invece non è il secondo rispetto alla prostituzione, bensì il primo.<span><a name='more'></a></span></span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">La prima informazione nella storia dell’Occidente compare nella Bibbia, dove a richiederla è il serpente ad Eva: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”». E la donna risponde: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Dà dunque al serpente un’informazione alquanto circostanziata.</div><div style="text-align: justify;">Curioso destino dell’umanità quello per cui il primo giornalista a fare un’intervista e dunque a raccogliere notizie sia Satana nelle sembianze di un serpente parlante. Ma quella sua domanda ne pone un’altra: chi ha detto al serpente, anche solo come indiscrezione, che Dio ha imposto un divieto ad Adamo ed Eva, i soli oltre al Signore a poter essere informati? Ci si può sbizzarrire, immaginando intercettazioni ambientali, pedinamenti e appostamenti per origliare, rivelazione avuta da Adamo fors’anche estorta con la violenza, ma trattandosi di Satana la risposta è nelle sue capacità diaboliche pari a quelle divine.</div><div style="text-align: justify;">Lo scoop del diavolo segnerà il destino dell’uomo e l’inizio di un’arte o mestiere che avrà una lunghissima storia, fatta anche di inganni e fake news, macchine del fango e dossieraggi. Una storia che comincia ancor prima di un’altra, parallela e della stessa natura, che è quella del racconto. Moltissimo tempo dopo Adamo ed Eva, gli uomini primitivi osservano infatti il creato e davanti ai fenomeni che non comprendono, dalle eclissi ai terremoti, esprimeno meraviglia e terrore, da un lato rendendosi succubi di una volontà soprannaturale e da un altro indotti a riferirsi e raccontarsi, per comunicare esperienze comuni, ciò di cui sono stati testimoni. Anziché giornalisti si fanno dunque narratori: non forniscono notizie di fatti accaduti loro riportandoli oggettivamente nella loro essenzialità, ma offrono di essi una propria interpretazione e una propria ricostruzione secondo la personale reazione emotiva e la loro visione delle cose: ne danno quindi una rappresentazione che solo in parte risponde al vero perché risente dell’opinione individuale.</div> <div style="text-align: justify;">Se allora il mestiere più antico del mondo è il giornalismo, il secondo è la letteratura. L’uomo racconta il mondo che osserva dando notizie e narrazioni, secondo il pubblico che ha di fronte e la credibilità acquisita come divulgatore. Il terzo mestiere in ordine di apparizione o forse concomitante con il secondo è l’arte figurativa, perché gli uomini, non possedendo ancora il dono della scrittura, si servono dei facili mezzi naturali per dipingere forme di animali, paesaggi e figure umane nelle caverne dove abitano, anticipando quelli che saranno i quadri. E quel che fanno è di illustrare le loro narrazioni orali, rendendole visive e facendo in qualche modo televisione. </div><div style="text-align: justify;">Il mito nasce dopo e di conseguenza, come frutto sintetico di giornalismo, narrativa e arte ante litteram in combinazione con la fede nel divino: quando l’uomo racconta i fatti di cui è a conoscenza ed è spinto a dare completezza ad essi, perché non ci siano domande che restino inevase, prova a inserirli armonicamente in una cosmogonia teologica e crea una prima storia dell’uomo che comprenda anche gli dei, una specie di teoria del tutto indispensabile per avere un codice della vita nonché una dottrina della salvezza dopo la morte, giacché – come ha intuito Edgar Morin in<i> L’uomo e la morte </i>– i primordi dell’umanità sono caratterizzati da un forte spirito di trascendenza che postula il seppellimento dei cadaveri come sentimento e come culto.</div><div style="text-align: justify;">L’uomo nasce dunque giornalista, diventa narratore (Ortega y Gasset: l’uomo è un narratore), quindi pittore e poi storico (ancora Ortega: l’uomo è la sua storia, non la sua natura). Come sia stato possibile allora che la prostituzione sia assurta per antonomasia a “mestiere più antico del mondo” è questione da risolvere nel campo dello <i>storytelling</i>. Dentro il quale si è fatta strada la divertente trovata di un giornalista britannico, Roy Lewis, che nel suo libro più famoso, <i>Il più grande uomo scimmia del Pleistocen</i>e, immagina che l’uomo primitivo scopre la carne arrostita per via di un’antilope finita distrattamente sul fuoco di casa e perciò in gran parte bruciata: il marito, amando la crosta, dice alla moglie di lasciargli la parte esterna che mangia e trova gustosissima facendola assaggiare con successo a tutta la famiglia. Quello che poi esercita è giornalismo scientifico alla Piero Angela perché informa la comunità della sua rivoluzionaria scoperta.</div><div style="text-align: justify;">Ed è davvero probabile che il giornalismo scientifico sia stato la prima forma di comunicazione e di conoscenza condivisa che sia stata praticata. Dopo viene la cronaca nera, legata a omicidi, cannibalizzazioni, furti, rapine, stupri, assalti cruenti di belve e morti misteriose. Quindi la cronaca bianca fatta di resoconti su raduni, decisioni politiche di convivenza tribale, incontri con rappresentanze forestiere. La cronaca rosa e il gossip devono essere arrivati per ultimi, alle prime e più numerose organizzazioni demografiche e alla nascita dei nomi più famosi sulla cui vita pubblica e privata cominciare a spettegolare. E chissà che la prostituzione non sia nata per questa via, quando una amante mantenuta ha trovato conveniente, una volta aver tradito la prima volta, farsi pagare per incontri occasionali con altri. Ma a questo punto il giornalismo non c’entra più niente, non servendo né dare notizie né fare “servizi” sulle prestazioni di ciascuna.</div><div style="text-align: justify;">L’informazione origina comunque da una donna che è Eva, artefice di una notizia data al serpente. Notizia vera, che porta però a sviluppi catastrofici per l’umanità. Oggi si porrebbe la questione se dare notizie che suscitino allarme sociale e siano causa di esiti dannosi per la collettività, ma Eva (che dirà al Signore di essere stata ingannata) non conosceva la segretezza di Stato o la censura preventiva, né altra forma di ragione che oggi impedisce l’esercizio pieno della libertà di stampa. Fece la giornalista a tutto tondo, anche contro i suoi stessi interessi e la sua vita. Come inizio non fu per niente male.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div></span><!--more--><p></p><p><br /></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-60006844197462958332023-09-04T18:51:00.001+02:002023-09-04T18:56:29.553+02:00Il sogno americano alla Winslow<p></p><div style="text-align: center;"> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiUqbGfxmMzcipCx1lShFYeXD2z0vp6hjAF8-f6NijL1f9GJ1pvf8SSofoLojAV6xSkgPFXsLjpLUe6dZmQ7b0NRb_QL-p7K_FeEAmrO4FwVfXFrO0a1ojks_jQqaODAgmwQPyoIZrT0e4XeHWyvw2QPUCUORreaS_a1tnz1Yc_2A9f4r7ZF-Ih5DuggB0/s1800/winsolw.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="1020" data-original-width="1800" height="226" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiUqbGfxmMzcipCx1lShFYeXD2z0vp6hjAF8-f6NijL1f9GJ1pvf8SSofoLojAV6xSkgPFXsLjpLUe6dZmQ7b0NRb_QL-p7K_FeEAmrO4FwVfXFrO0a1ojks_jQqaODAgmwQPyoIZrT0e4XeHWyvw2QPUCUORreaS_a1tnz1Yc_2A9f4r7ZF-Ih5DuggB0/w400-h226/winsolw.jpg" width="400" /></a></div><p></p>Articolo uscito su Libero il 13 agosto 2023<div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La “trilogia delle città” di Don Winslow (dopo <i>Città in fiamme</i> dell’anno scorso, ora <i>Città di sogni</i>, pp. 400, euro 20,90, e aspettando sempre per HarperCollins <i>Città in rovina</i>) chiude, secondo le intenzioni annunciate dall’autore newyorkese, una carriera di <i>thriller crime writer</i> vissuta sulla cresta dell’onda.</span></div><span style="font-size: x-large;"><a name='more'></a></span><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">E la chiude questionando sulle etnie straniere, irlandese e italiana, portatrici del <i>vulnus</i> cronico che ha infettato la società Usa, per modo che le mette una contro l’altra lasciando che la patria faccia da teatro e da giudice. “Il popolo americano – scrive l’autore – vuole tutta l’omelette ma non vuol saperne di rompere le uova”.</div></span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiF0O11_4SxIqbFiccBlo_F59XMD1PwIC-5vaPkFD_FtVf1u1VMO1Z7WUdQxCE5OGy6iaxD9KVCKlVbcx1LIcsjJN_kH18ffvOAEsPmHClt4SDpXSdFOSp4nYt2ciFz01XO1EJ3wyD2a3tkOjEa8EwKCBjTm05lbe-3pgHOD7FLwfO4qp96yuqPE52eBss/s648/citt%C3%A0%20di%20sogni.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="648" data-original-width="432" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiF0O11_4SxIqbFiccBlo_F59XMD1PwIC-5vaPkFD_FtVf1u1VMO1Z7WUdQxCE5OGy6iaxD9KVCKlVbcx1LIcsjJN_kH18ffvOAEsPmHClt4SDpXSdFOSp4nYt2ciFz01XO1EJ3wyD2a3tkOjEa8EwKCBjTm05lbe-3pgHOD7FLwfO4qp96yuqPE52eBss/s320/citt%C3%A0%20di%20sogni.jpg" width="213" /></a></div>La guerra tra i Murphy e i Moretti, scoppiata per una donna contesa tra rampolli delle due famiglie un tempo amiche e alleate, si è tradotta nel secondo episodio in un inseguimento, da parte di mafia ed Fbi, dell’erede dei Murphy, Danny Ryan, che da Providence ripara a San Diego e a Las Vegas. Quando sembra che il conflitto possa estendersi alle istituzioni americane che dunque si contaminerebbero nel marcio di importazione, dopo che la siciliana Regge Moneta, vicedirettrice nazionale dell’Fbi, e l’irlandese Bill Callahan, agente speciale del New England, entrambi di Boston, si scontrano sulla caccia da dare a Ryan, l’autore sceglie di mandare in pensione il secondo e conferisce a Ryan il titolo di protagonista e beniamino: che uccide solo per necessità, butta nell’oceano dieci chili di cocaina, ha testa solo per il figlio piccolo rimasto orfano della madre, si innamora di una star del cinema e sogna una vita nella legalità dopo aver però assalito la centrale dei narcos portando via quaranta milioni di dollari.</div><div style="text-align: justify;">Il viaggio verso ovest di Ryan, con il bambino, il padre la sua banda, è quello che Winslow chiama “il fottuto sogno americano”. Che però si precisa ancor meglio nella trovata del film che Hollywood vuole realizzare sulla guerra di Providence degli anni Ottanta, reclutando uomini della banda e poi lo stesso Ryan come consulenti e addirittura coproduttori. </div><div style="text-align: justify;">Una trovata di autocompiacimento autorale che muta il <i>thriller</i> in una commedia romantica, giacché Danny si innamora della diva del film, interprete proprio della “Elena” di Providence, e conquista il cuore anche dei lettori. Il romanzo <i>hard boiled </i>perde a questo punto credibilità e diventa fumettistico, infilando ripetute improbabilità: Frankie Vecchio, compare dei Moretti, cerca Nuto Valdez, il nuovo capo dei narcos che lo vuole morto, solo per dirgli dove trovare Ryan che ha i suoi quaranta milioni e ovviamente finisce ammazzato. Questa però non è la sorte anche del probo Danny al quale Valdez ha giurato “muerte non rapida”: il narcotrafficante messicano infatti lo cattura ma, in un colpo di scena degno della migliore “americanata”, gli salva la vita per ricambiare il trattamento ricevuto a suo tempo, senza dirgli però perché mai lo ha cercato nell’intenzione di ucciderlo e riavere i suoi soldi. Che gli lascia pure. Forzata anche l’idea di portare Danny in una comunità hippy, dopo che dà un passaggio a una ragazza solitaria in pieno deserto Anza Borrego dove i narcos lo raggiungono.</div><div style="text-align: justify;">Quanto agli italiani, Winslow tiene presenti, entro un cliché irridente, i Soprano, sicché manda il capoclan Peter Moretti non dallo psicologo ma tra gli alcolisti anonimi; non esita a fare dire sì alla moglie perché l’amante lo uccida e prenda il suo posto nel letto e nella cosca; né si fa velo di trasformare Peter Junior in un Oreste che uccide sia la madre che il suo nuovo marito. Naturalmente, trattandosi di mafia, partecipano alla messinscena le “famiglie” sia dell’East che della West Coast, oltre che di Chicago e del Midwest, perché le decisioni in Cosa nostra sono sempre apicali mentre gli irlandesi non si organizzano che per bande sciolte.</div><div style="text-align: justify;">Winslow ha insomma ripescato stereotipi accogliendo anche incongrue tirate oniriche, sogni come incubi di cattivo presagio, cadendo così nel feuilleton o nel noir. Né lo stile, pur sempre personalissimo, fatto di efficaci monologhi interiori e di scambi vorticosi di tempi tra presente storico, imperfetto e passato remoto come anche prossimo, ha lo smalto di un tempo se il cattolico Danny pensa così di Dio: “Credevo che Gesù fosse morto per redimere i miei peccati: è così che dicevano le suore. Ma forse i miei peccati eccedono la disponibilità sulla carta di credito di Cristo”. Non proprio da Winslow.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-37442111265599976572023-09-03T15:34:00.005+02:002023-09-06T06:45:21.823+02:00"Il lato oscuro della mia famiglia", la serie Tv dello shaker<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9oBDna9n8uATQC_GIpaWntAsaDf7VJ-RD32XVGVPkBGn92dK9-NttlQTnM2zTQmnUS-jKg8lAuRldxAM6FnhEAOKq2NxT8RGdGO81QucETDv0xiSvdJYe3V0-pu0NdkAEQuZI_yv2Ni9NPCAMU3yrMJOBcC2xLc2bcNNwfP9tUNwVoinmRvqDKdgNgMs/s2952/serie%20tv.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="2163" data-original-width="2952" height="293" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9oBDna9n8uATQC_GIpaWntAsaDf7VJ-RD32XVGVPkBGn92dK9-NttlQTnM2zTQmnUS-jKg8lAuRldxAM6FnhEAOKq2NxT8RGdGO81QucETDv0xiSvdJYe3V0-pu0NdkAEQuZI_yv2Ni9NPCAMU3yrMJOBcC2xLc2bcNNwfP9tUNwVoinmRvqDKdgNgMs/w400-h293/serie%20tv.jpg" width="400" /></a></div><div style="text-align: right;"> </div><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Si sa che gli italiani non sanno realizzare serie Tv, salvo che ricalchino contesti sociali fortemente reali come è stato per <i>Gomorra</i> e <i>Mare fuori</i>, dove la docu-fiction ha la meglio sull’invenzione, ma ora scopriamo che nemmeno i tedeschi conoscono il mestiere nel quale i soli americani sono veri maestri. Anzi, sono messi ancora peggio.<span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;">La Rai ha trasmesso in prima assoluta una miniserie in sette puntate prodotta in Germania intitolata <i>Il lato oscuro della mia famiglia</i>, corrompendo il bel titolo originale “Noi ieri eravamo ancora bambini” per fare un <i>noir</i> di un concept psicomachico e di un <i>Bildungsroman</i>. L’espressione “lato oscuro”, tanto cara alla scuola bolognese di Lucarelli, fa pensare non a segreti reconditi ma a misteri e intrighi nascosti in seno a una famiglia lacerata da dissidi intestini e minacciata da elementi esterni di tipo <i>horror</i> e <i>splatter</i>, mentre la serie propone il processo di formazione che segue una diciottenne alle prese, dopo che il padre uccide la madre, con il dover badare a sé stessa e ai suoi due fratelli piccoli: una ragazza, Vivian, che non decide di scoprire il movente dell’uxoricidio (non è questo il <i>leitmotiv</i> della serie), ma si trova via via a trovare la verità, benché solo per una parte diessa, dal momento che nulla viene a sapere della reale indole di Tim, il poliziotto che l’aiuta e di cui si innamora, né della tresca della madre avuta proprio con il poliziotto, né della coetanea e compagna di liceo che il padre ha assistito economicamente per espiare una sua colpa.</div><div style="text-align: justify;">La serie termina con la soluzione di tutti gli interrogativi, aperti non dalla <i>fabula</i> quanto dall’intreccio, epperò lascia sospeso un finale che presagisce un sequel, probabilmente già previsto in Germania dove ha convinto sei milioni di telespettatori, mentre in Italia si è fermata a una media di 2 milioni e 600 mila spettatori per ognuna delle tre serate su Raidue nel picktime. Un dato alquanto modesto ma comprensibile per via delle debolezze strutturali e dell’eccesso di un elemento che dovrebbe essere presente con estrema parsimonia anche in una serie Tv: la coincidenza, sinonimo di inverosimiglianza e improbabilità.</div><div style="text-align: justify;">E’ l’intreccio a tenere a galla la trama perché giocato su ricorrenti <i>flashback</i> che creano interesse e attesa, così salva una <i>fabula </i>banale, scontata, prevedibile e senza fiato. Insomma, una trama superficiale ma montata ad arte con abilità e tale anche da confondere circa l’identità dei personaggi e le epoche di riferimento. Una trama che è un campionario di incongruità.</div><div style="text-align: justify;">Il giovane Peter Klettman ha una cotta per Luisa Wellmer mentre Anna, non ricambiata, ce l’ha per lui. Quando Peter scopre ad un ballo che Luisa è con un uomo maturo, si ubriaca, si droga ed esce a sganciare il rimorchio di un Tir il quale va a fuoco e provoca la morte di quattro persone di cui risponderà il camionista. Peter, che ha un pessimo rapporto con il padre avvocato, decide di impiccarsi ma quando, già con il cappio al collo, sta per dare un calcio allo sgabello suonano al citofono e lui, che non dovrebbe più avere interesse a questo mondo, si toglie la corda, va ad aprire e accetta un Cd che Anna è venuta a dargli in dono. Anna gli salva la vita ma la serie si dimenticherà di far sì che lei lo venga a sapere da lui quando le confesserà la sua grande colpa. </div><div style="text-align: justify;">Invece di tornare in cantina dalla sua corda Peter si siede in poltrona e ascolta il Cd. Potenza della musica, perché prende la bicicletta e rincorre Anna, mandata via in malo modo sulla porta, le dice che il brano gli è piaciuto molto e <i>ipso facto</i> se ne innamora perdutamente: proprio nel momento in cui Anna è peraltro con Luisa. Si sposeranno, avranno tre figli, lui diventerà un avvocato e vivranno felici e contenti fino a quando la moglie del camionista incriminato, che intanto è diventato un beone violento, insieme con il suocero va proprio nel suo studio legale per chiedere un atto di diseredazione. Lui si rifiuta di istruire l'atto, ma in compenso si offre di assistere economicamente la famiglia e mantenere la figlia a scuola, ancor più dopo che il camionista diventa paraplegico ed è condannato a una vita vegetativa senza facoltà di parola. Cosa fa allora Peter? Va al suo capezzale e gli confessa di essere il responsabile della morte della famiglia travolta dal rimorchio in fiamme.</div></span><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">E quando il vecchio compagno di scuola innamorato di Anna le confida che Peter paga la retta di una ragazza, Anna pensa che il marito abbia una figlia avuta da un’altra donna. Non lo lascia ma, ancora per caso, incontra Tim il poliziotto che invece di farle una multa per eccesso di velocità se la porta a casa e ne fa la sua amante.</div><div style="text-align: justify;">Il giorno del 44esimo compleanno di Anna (la quale sa sin da bambina che morirà a 44 anni per averle un mago detto che le volte in cui un corvo gracchierà per lei conterà gli anni della sua vita) Peter la uccide dopo che lei gli confessa di essere stata con un altro, senza però aggiungere che se n’è pentita avendolo allontanato. Ha soprasseduto alla notizia della presunta figlia, ma ora invece di salvare il matrimonio e farsi perdonare dal marito ha deciso di lasciarlo, a dispetto della profezia che incombe su di lei e che lei tiene sempre presente.</div><div style="text-align: justify;">Il giovane poliziotto dall’infanzia tribolata sempre per caso si trova nel luogo del delitto e ascolta quanto in punto di morte la sua ex amante gli dice: non il nome dell’assassino, ciò che farebbe chiunque, ma lo diffida a non avvicinarsi ai suoi figli (altrimenti gli dice che lo ucciderà, forse tornando un attimo dall'Aldilà dove sa che sta per andare), cosa che non si capisce perché mai lei debba temere che lui possa fare. Semmai dovrebbe chiedergli di tacere con i figli la loro storia: invece non e, senza ragione alcuna, il poliziotto riferisce al collega anziano che la moribonda gli ha sussurrato di badare ai suoi figli. Il poliziotto avvicina allora Vivian e l’aiuta ospitandola anche in casa, mentre Peter che ha confessato ed è stato rinchiuso in carcere decide di scrivere una lunga confessione alla figlia in cui rivela tutto sulla madre, ma con il magistrato non apre bocca se non per dire che mai dirà del tradimento della moglie perché i figli un giorno non ne abbiamo un cattivo ricordo. Conclusa la lettera si uccide e la serie finisce con troppo domande senza risposta, compresa quella che riguarda la fine del cane di casa, se sia stato ucciso o sia morto di vecchiaia.</div><div style="text-align: justify;">Se questa è la sinossi essenziale, l’intreccio è una sarabanda di analessi e di giochi diacronici tra i fatti relativi al delitto e quelli anche remoti che riguardano i protagonisti, sicché quasi tutti i personaggi sono interpreti diversi secondo l'età. Ma senza tale vertiginoso <i>tourbillon</i>, se in sostanza la trama avesse seguito uno sviluppo cronologico, la serie sarebbe apparsa priva di alcun <i>appeal</i>. Il regista è stato capace di creare uno stato di <i>suspence</i> permanente per il quale si è parlato di <i>thriller</i>, ma ha dovuto tenere sempre conto per fare ciò della posizione del telespettatore e non di quelle dei protagonisti, che a cominciare da Vivian rimangono all’oscuro di molti aspetti. Si tratta di un fatto nuovo anche dal punto di vista narratologico, giacché in prima istanza sono i personaggi ad arrivare alla soluzione e alla spiegazione del caso, ottenute le quali lo spettatore è poi chiamato a trarre le fila e darsi la sua chiave di lettura. </div><div style="text-align: justify;">E’ possibile che per la pochezza della trama la regista Nina Wolfrum (donna è anche la sceneggiatrice, soggettista e produttrice Natalie Sharp: ed è di tutta evidenza la matrice femminile) abbia scelto di moltiplicare l’effetto combinatorio dei tempi della narrazione: con il risultato però di ottenere un <i>geyser </i>impazzito. Come una grossa cotoletta che se all’apparenza ingolosisce poi, tolta la mollica, si riduce a misera cosa.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-52502783424867100942023-09-02T09:38:00.005+02:002023-09-02T09:42:16.163+02:00La croce di Brandizzo? Una estrema unzione<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0Q2bhmtrMEaB_k7IHDUpSIr3sOIV3sqr3qwLQZPhN-owwjE8X2qeymJ88jBY87_WAUO2GFOA2Gx7DaoffdAs8bZcWRhBT2b3oMyTMOylBlmx7QyKfaoO1bdoJAbHMLrM5jCBgmuuM8CYDuhZHzJd1bkBqNrW3VomYbMbqLXK--YAHq7ESU4t2Y6hTJxU/s774/croce%20brandizzo.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="516" data-original-width="774" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0Q2bhmtrMEaB_k7IHDUpSIr3sOIV3sqr3qwLQZPhN-owwjE8X2qeymJ88jBY87_WAUO2GFOA2Gx7DaoffdAs8bZcWRhBT2b3oMyTMOylBlmx7QyKfaoO1bdoJAbHMLrM5jCBgmuuM8CYDuhZHzJd1bkBqNrW3VomYbMbqLXK--YAHq7ESU4t2Y6hTJxU/w400-h266/croce%20brandizzo.jpg" width="400" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Che significato dare all’episodio del giovane operaio che mentre salda una rotaia vede apparire un crocifisso incandescente e poco dopo muore travolto da un treno insieme con altri quattro manovali? Non sapendo quanto stava per avvenirgli, non si può pensare a un’allucinazione mistica, né a un fotoritocco, perché l’immagine è stata postata su Tik Tok dallo stesso operaio subito dopo l’apparizione, in piena notte e sul posto di lavoro, con una didascalia dal tenore chiaramente sincero.<span><a name='more'></a></span>La croce gli è apparsa sul serio e dunque le domande sono altre, almeno per un cristiano: perché Dio si è manifestato senza compiere il miracolo di salvargli la vita? Se il trentacinquenne Michael Zanera fosse sopravvissuto avrebbe potuto testimoniare al mondo un vero miracolo, un dono celeste nella particolarità che soltanto lui Dio aveva voluto salvare dei cinque operai sui binari, magari perché fortemente credente. Invece Dio lo ha avvertito che stava per farlo morire. Perché?</div><div style="text-align: justify;">L’episodio è fatto non per rinsaldare la fede ma per metterla in dubbio, ancor più perché il giovane scrive nel post che negli ultimi giorni più volte ha “richiamato” Dio, cioè lo ha invocato, non essendo per lui “un bel periodo”. Dunque Zanera ha bisogno di avvicinarsi a Dio, attraversa un brutto momento e invece che il soccorso richiesto e sperato ottiene la morte.</div><div style="text-align: justify;">“E' la prima volta che mi succede” scrive. “Mentre che saldo la rotaia, mi è uscito il crocifisso. Dio mi vuole dire qualcosa sicuramente, nonostante lo richiamo tutti i giorni ultimamente perché non è un bel periodo per me”. La preposizione avversativa “nonostante” fa capire che Zanera si aspetta qualcosa di negativo, altrimenti avrebbe usato la congiunzione causale “poiché”, intendendo una risposta divina finalmente arrivata. Zanera dà all’apparizione della croce (che chiama crocifisso per via della maggiore lunghezza dell’asta verticale) il significato di un presagio che non può che essere sinistro perché costituito da un segno sinonimo di morte, ma anche di sacrificio, di immolazione.</div><div style="text-align: justify;">Fervente cattolico, l’operaio rimane colpito dal messaggio di fuoco e sente di doverlo condividere su Tik Tok, confessando il suo rapporto strettissimo con l’Onnipotente fatto di ripetute invocazioni di aiuto. Giacché non rimane indifferente, probabilmente fa vedere il segno ai colleghi o a qualcuno di loro, ma non deve aver avuto alcuna conferma circa la sua supposizione che Dio voglia dire qualcosa di negativo, dal momento che i lavori proseguono e nessuno degli altri condivide il presagio sui propri social. Essendo il messaggio apparso solo a Zanera, quando anche gli altri sono impegnati nella saldatura delle rotaie, la loro supposizione, sotto forma forse di una risposta, dev’essere stata nel senso che a lui e solo a lui sarebbe in futuro successo qualcosa non di piacevole. Di qui chissà la decisione di postare l’immagine e di rivelare il mistero dell’episodio.</div><div style="text-align: justify;">E' questo che Dio voleva? Che Michael si facesse suo apostolo e annunciasse al mondo la presenza del Dio vivente che è sempre al fianco di chi sta per morire? E' stata insomma l’apparizione della croce un modo divino perché Zanera non fosse solo nel momento del trapasso? Dov’era Dio in quel momento? Era con lui.</div><div style="text-align: justify;">Non dunque un Dio cinico e beffardo che gode nell’annunciare la morte, ma un Dio caritatevole e misericordioso che, se non fa miracoli, si manifesta come viatico. Quella croce sarebbe stata perciò l’estrema unzione impartita direttamente da Dio, che non salva gli uomini o li chiama a sé secondo un criterio fideistico di appartenenza, ma che è vicino a chi crede in lui.</div><div style="text-align: justify;">Il caso può essere visto anche come prova ontologica dell’esistenza di Dio, che se all’imperatore Costantino si manifestò con lo stesso segno della croce in cielo, predicendogli una prossima vittoria in battaglia, a Michael Zanera si è rivelato con la croce scolpita su una rotaia: a indicare che proprio sulle rotaie sarebbe di lì a poco morto, ma questo legame non è stato colto dall’operaio.</div><div style="text-align: justify;">Se si pensa alle altre storiche apparizioni della croce, si vede che fanno sempre riferimento alla vita del prescelto: a San Bernardo di Chiaravalle appare sull’altare durante la messa che sta celebrando; a San Francesco e Padre Pio sotto forma di stimmate alle mani e ai piedi mentre pregano il crocifisso. La croce è il primo segno distintivo di Dio, la sua carta d’identità, e ha sempre il valore di compartecipazione, giacché Cristo muore crocifisso insieme con due individui comuni, uno ateo, l’altro perplesso. A Brandizzo è morto ancora con un credente.</div></span><p></p><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-7663599362193941922023-08-30T13:06:00.003+02:002023-09-22T20:00:01.092+02:00"Nature": l'uomo primitivo scuro come i siciliani moderni<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP_eat8LrJV5ZB6scjL7e0pV6QUBk7J19B3CS6LCGTsIuya1C65ChtcETON6Ux9SYL9TsnStyEagYNDchxzTO551lbOB0hEGZ6qznELL6pliM3YJgQAbPYWOJl3fxP7ILgCi6OhjOwIEiC3x2-jQzHKFrHAgJMfCv_9Fza53VV-3VsO8M9OiCe251uF7Q/s2048/uomo%20del%20ghiaccio.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1536" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP_eat8LrJV5ZB6scjL7e0pV6QUBk7J19B3CS6LCGTsIuya1C65ChtcETON6Ux9SYL9TsnStyEagYNDchxzTO551lbOB0hEGZ6qznELL6pliM3YJgQAbPYWOJl3fxP7ILgCi6OhjOwIEiC3x2-jQzHKFrHAgJMfCv_9Fza53VV-3VsO8M9OiCe251uF7Q/w300-h400/uomo%20del%20ghiaccio.jpg" width="300" /></a></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In un articolo apparso sul sito de "Le Scienze" (mensile italiano che ripubblica, senza controllare né sindacare, da riviste internazionali soprattutto statunitensi), così scrive una giovane studiosa californiana freelance, Freda Kreier, sul primo uomo di cui si abbia traccia e cioè Ötzi, trovato nel 1991 nell'omonima valle delle Alpi: "Ötzi non era portatore di molto Dna di cacciatori-raccoglitori europei, lasciando intendere che la sua stirpe era geneticamente isolata dagli altri europei dell'epoca. I marcatori della pigmentazione cutanea hanno rivelato che Ötzi aveva molta più melanina nella pelle di quanto ci si aspettasse, rendendolo più scuro dei siciliani moderni". <span><a name='more'></a></span>La Kreier scrive su "Nature" (dove l'articolo è apparso), "Science News", "The Mercury News" e altre testate anche online. Nel suo sito dichiara che le "piace scrivere sul mondo naturale, sul passato e sul Dna" e che "ha anche lavorato al podcast di antropologia Sapiens": dove evidentemente le hanno detto che i siciliani moderni sono scuri di carnagione e forniscono perciò un ottimo modello al quale riferire l'uomo di 5300 anni fa ricostruito a grandezza naturale al Museo di Bolzano in maniera però sbagliata perché troppo chiaro di pelle. E invece no, secondo la Kreier: era scuro e uguale ai siciliani, come sostengono le ultime ricerche. Dichiarazione che, venendo da una pseudo-scienziata ed essendo riportata da una rivista scientifica, sembra avere il crisma dell'ufficialità.</div><div style="text-align: justify;">Negli Stati Uniti e soprattutto nella costa orientale lo stereotipo del siciliano scuro di pelle persiste dunque anche in ambienti addirittura scientifici e nell'ambito di riviste di grande autorità, appunto scientifica, come "Nature". La Kreier ha elaborato un processo mentale partito da queste premesse: ricordando la ricerca del gruppo di lavoro impegnato sull'età del cosiddetto "uomo dei ghiacci", perché rinvenuto congelato, scrive che "il gruppo ha trovato un sorprendente livello di ascendenza anatolico-agricola. Si pensa che questi primi agricoltori, che vivevano nella terra stretta tra il Mediterraneo e il Mar Nero, siano migrati in Europa e si siano mescolati con i cacciatori-raccoglitori locali". I quali, essendo di carnagione chiara, avrebbero allora mitigato l'effetto della melanina e indotto a ritenere fino ad oggi che Ötzi fosse di etnia europea.</div><div style="text-align: justify;">Epperò essendo "i cacciatori-raccoglitori locali" stanziati in alta Italia, per fare capire che Ötzi si era scurito, la "scienziata" californiana non ha richiamato particolari razze indoeuropee, proprie della "terra stretta tra il Mediterraneo e il Mar Nero", ma ha indicato una popolazione, la siciliana, distante mille chilometri: per dire che l'uomo di cinquemila anni fa era "più scuro" dei siciliani moderni. E meno male.</div><div style="text-align: justify;">Quindi, se nei secoli scorsi i siciliani possono essere stati scuri, ipotesi più giustificabile per avvicinare Ötzi a loro, oggi i siciliani che la Kreier conosce e vede, cioè quelli "moderni", sono decisamente mori. Probabilmente ha visto troppo volte <i>Il padrino</i>, rimanendo colpita dalla scena in cui Michael Corleone, riparato in Sicilia, conosce Apollonia, una ragazza che gli è stata indicata dai parenti come "scura". O forse ha amato de <i>Il giorno della civetta</i> di Sciascia la trasposizione cinematografica nella quale <i>Parrinieddu</i> è interpretato da un "ominicchio" alquanto scuro oltre che oscuro. Oppure ama <i>La peste</i> di Camus, colpita da quanto Tarron dice del dottor Rieux: " Ha qualcosa del contadino siciliano, con quella pelle scura, i capelli neri e i vestiti dai colori sempre scuri".</div><div style="text-align: justify;">Certo, anche registi siciliani come Pif hanno dato il loro contributo a chi come Freda Kreier e "Nature" (nonché le nostre "Le Scienze") guarda i siciliani vede nero: nel suo film <i>La mafia uccide solo d'estate</i>, Arturo non solo è scuro di pelle ma si innamora per contrappasso di Flora, che è una ragazzina bionda e pallida come devono essere i continentali. Pif come tutti i registi isolani e gli attori, da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia a Ficarra e Picone, non fanno film per i siciliani ma sui siciliani e dunque elevano a statuto il cliché, la macchietta e la caricatura. </div><div style="text-align: justify;">Il presidente della Regione siciliana dovrebbe invitare in Sicilia la Kreier e portarla anche nell'entroterra alla scoperta di siciliani moderni e scuri. Nel 1953 Elio Vittorini, siracusano ma milanese d'adozione, andò in Sicilia con un fotografo alla ricerca di comunità lombarde rimaste integre e isolate, immaginando siciliani alti e biondi come vichinghi. Sperava di riscattare la condizione siciliana, ma al posto di lombardi trovò nelle grotte di Scicli i trogloditi di Kiafura: che erano scuri sì, ma per la sporcizia e la povertà. Non certo per la pelle.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-39766891432318969122023-08-28T10:03:00.005+02:002023-09-02T09:43:18.936+02:00Verga, come smontare il "meccanismo delle passioni"<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhR3sLI8AHrpkIRxVmoc6KA6yTTWO_or8R-CQCd3M28x4fCS9BzGWEbxZXZm2FOZ38nnVvLOLMZPTDCRHMViDs44IwMXDq4K-C5chK77SYQuFc7wwMuTxbmHRxtN5HmIKFxs7V4hL8iaWOPNR5-ZGagRgC8MxieZLKBmUUJb8cHcXHxzfBieyP2xthQSQo/s1046/giovanni_verga.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="740" data-original-width="1046" height="283" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhR3sLI8AHrpkIRxVmoc6KA6yTTWO_or8R-CQCd3M28x4fCS9BzGWEbxZXZm2FOZ38nnVvLOLMZPTDCRHMViDs44IwMXDq4K-C5chK77SYQuFc7wwMuTxbmHRxtN5HmIKFxs7V4hL8iaWOPNR5-ZGagRgC8MxieZLKBmUUJb8cHcXHxzfBieyP2xthQSQo/w400-h283/giovanni_verga.jpg" width="400" /></a></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div>Già nell’introduzione, Verga maschera l’intento di rappresentare nei <i>Malavoglia</i> la realtà «com’è stata» dietro un retropensiero che agisce come correttivo palinodico: precisando di volere raccontare la realtà anche «come avrebbe dovuto essere», monta sulla macchina verista, appena collaudata in <i>Vita dei campi</i>, un meccanismo di autodistruzione che entrerà clamorosamente in funzione tredici anni dopo con <i>Don Candeloro e C.</i>, quando, scoprendo come nella realtà sia più facilmente ravvisabile, più che il documento umano, il sentimento interiore - e per questa via la percezione intuitiva del reale fino al grottesco, insomma l’elemento transeunte - ritratterà, come ha colto Carla Riccardi, il valsente del suo realismo epico e scioglierà quello che Luigi Russo chiama «pregiudizio veristico» in una soluzione prefiguratrice della civiltà letteraria decadentista, ancor più in chiave pirandelliana.</span></div><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;">Quando lavora agli elaboratissimi <i>Malavoglia</i>, Verga non ha per nulla chiaro il progetto che ha in mano (compiacendo il Tilgher secondo cui «un autore non deve mai avere piena coscienza del suo mondo interiore») e se si ferma per mesi fino a dirsi «istupidito» non è solo a ragione delle sue luttuose vicende familiari. Pur convinto di «sapere fare lo stufato», cioè di conoscere la ricetta di quella che dev’essere la nuova maniera, sulla linea di superamento del romanzo psicologico, del realismo francese e russo e del naturalismo zoliano e con esso del recidivante <i>pattern </i>manzoniano, Verga non crede fino in fondo nel cespite verista e in quel crisma dell’impersonalità e dell’oggettività che lo sorregge, sebbene alla sua sola ricerca estetica venga egli comunemente ricondotto.</div><div style="text-align: justify;">Quando manda a Treves i primi tre capitoli del romanzo, e ne espunge le prime quaranta pagine, rinuncia alla descrizione di ambienti, paesaggi e personaggi, e quindi agli effetti dell’oggettività scientista e positivista, perché sicuro di potere offrire una «illusione completa della realtà» - non più che un’illusione dunque - da rappresentare senza alcuna «messa in scena», al di fuori perciò non solo della tradizione del romanzo ottocentesco ma anche della lezione prevalente, quella zoliana, cui pure si mostra sinceramente bendisposto, lezione che gli imporrebbe il bando non solo dei toni elegiaci pronunciati nei modi di una pietas che non riesce a tenere al di qua di una mera condiscendenza solidaristica, ma anche degli stati di coscienza di cui invece <i>I Malavoglia</i> trasudano.</div><div style="text-align: justify;">Convinto che se una scienza debba essere ammessa sulla nuova scena letteraria non possa essere che quella del «cuore umano», Verga non ha alcuna intenzione di fermarsi a registrare la realtà secondo il codice naturalistico. E mentre confida nell’improbabile ipotesi di riuscire a scrivere un romanzo flaubertiano che possa dare l’impressione di essersi fatto da sé, ricreando una cosmogonia umana fatta prevalentemente di contadini e pescatori che Contini riporta all’idea di «assoluto naturale», non riesce purtuttavia a liberarsi del più verghiano degli elementi malavoglieschi: l’«interiectio ex persona poëtae», l’indulgenza cioè compartecipe di tipo decisamente manzoniano verso la vicenda umana. </div><div style="text-align: justify;">L’impersonalità di Verga non va oltre l’esercizio, riuscitissimo soprattutto nei <i>Malavoglia</i>, dell’indiretto libero, un artificio di rara genialità (derivato certamente dallo <i>jargon </i>siciliano ispirato agli ctoni giri sintattici) che gli permette di esprimersi nelle vesti di autore attraverso quelli che lui chiama non a caso, quasi fungendo da regista, «i miei attori». Il distacco sentimentale, in favore di un ricercato e ostentato rigore verista, è nei <i>Malavoglia</i> un impegno non mantenuto dopo la strettissima <i>medley </i>creata tra la forma di canto popolare, amniotico e <i>larmoyant</i>, e il contenuto di tragedia eschilea, giapetica e splenetica, che nulla può concedere a un atteggiamento dispensatorio.</div><div style="text-align: justify;">Se non bastasse la sola introduzione, dove Verga confessa di volere non tanto seguire l’esempio di Zola, per cui basta sostituire la parola romanziere a quella di medico per «illuminare il pensiero del rigore della verità scientifica», quanto smontare pezzo per pezzo «il meccanismo delle passioni» - quelle passioni che sono «il movente dell’attività umana» e il cui «congegno va complicandosi a misura che la sfera umana si allarga» - decisive appaiono le tesi espresse da Verga nella prefazione a <i>L’amante di Gramigna</i> (dove «il misterioso processo per cui le passioni si annodano» costituisce «l’attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l’argomento del racconto e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico») e soprattutto in<i> Fantasticheria</i>, che vale come cartone preparatorio dei <i>Malavoglia </i>ma anche come enunciato di poetica nel senso di una esplicita e incontenibile vocazione al dato memoriale e al richiamo del cuore.</div><div style="text-align: justify;">Ma una prova definitiva circa il penchant paraverista dei <i>Malavoglia</i>, quel verismo che appare pervasivo invece nel <i>Mastro Don Gesualdo</i> (romanzo meno lirico e più borghese, meno epico e più naturalistico) e soprattutto nelle novelle maggiori di argomento siciliano, la offre la seconda prefazione agli stessi <i>Malavoglia</i> che Verga non vuole pubblicare perché in contraddizione stridente con la prima: è qui che ritroviamo tutti gli elementi che inscrivono Verga in quell’anagrafe postromantica e postmanzoniana a ridosso della quale fanno le prime prove le nuove urgenze dell’educazione pirandelliana e primonovecentesca, della coscienza, della memoria e dell’introspezione interiore, dove, pure linguisticamente, il discorso indiretto libero, dentro il quale già balugina lo<i> stream of consciousness</i> jocyano, si traduce nell’anteproustiano monologo interiore teso al recupero della memoria, di cui la prefazione a Nedda appare un inaspettato e rivelatore prodromo.</div><div style="text-align: justify;">Nella prefazione rifiutata, l’elemento del grottesco (che fa così la sua prima presaga apparizione) viene visto come «artistico», tale da dover essere affidato agli strumenti conoscitivi di un «osservatore» che deve restituirne «la fisionomia storica» in uno stato di coercizione: non può non «subire il sentimento dell’attività umana» e non può non assistere alla «processione fantasmagorica in cui passano tutti gli appetiti, tutte le febbri, tutte le avidità, tutte le aspirazioni grandi e piccine». La preferenza verso un atteggiamento per cui il mondo debba essere, per il tramite dei suoi individui più che attraverso lo studio dei reperti sociali, immaginato e inventato anziché notomizzato e descritto è espressa da Verga in una lettera a Capuana: «Mai riusciremo ad essere schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi».</div><div style="text-align: justify;">Nella stessa lettera Verga si dice indeciso se, ai fini della stesura dei <i>Malavoglia</i>, gli convenga stare «in riva al mare, fra quei pescatori, per coglierli vivi come Dio li ha fatti», oppure guardarli «da una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano o Firenze». In realtà una inderogabile adesione al modello verista non potrebbe instillare dubbi in Verga, che pure è altrove attentissimo a documentarsi dal vero. Di qui allora il segno che ciò che preme maggiormente a Verga agli effetti dei <i>Malavoglia</i>, ma soprattutto dei Vinti, è il quadro panoptico, un progetto che ritroviamo illustrato in una lettera a Salvatore Paola Ventura dove Verga confida di avere in mente «una specie di fantasmagoria della lotta per la vita che assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità di guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano, lotta provvidenziale che guida l’umanità attraverso tutti gli appetiti, alti e bassi, alla conquista della verità».</div><div style="text-align: justify;">Ecco quindi che la vera poetica verghiana, tesa a determinare la verità non della realtà sociale ma del gran grottesco fantasmagorico della vita per mezzo di un’indagine che non si serva dei mezzi offerti dal positivismo biologico e lombrosiano (lo stesso che spinge un Capuana a indulgere sulla pazzia del marchese di Roccaverdina o un De Roberto a indugiare sulla linea degenerativa degli Uzeda - per rimanere nella sfera delle reazioni psichiche anziché delle azioni fisiche) ma che faccia propri gli strumenti dell’indagine psicologica, il cui esercizio preclude un disimpegno morale e, peggio ancora, un approccio dettato dallo statuto dell’oggettività; ecco allora come, nella coniugazione tra coscienza («Il realismo - dice Capuana - lo intendo come osservazione coscienziosa») e scienza, Verga riesca a rintracciare l’argomento da dare al suo verismo. Da un lato, come osserva Asor Rosa, il principio estetico, cioè la forma, prevale su quello scientifico, cioè il contenuto naturalistico, così da elevare il concetto di verità a un’altezza puramente estetica; da un altro lato Verga dichiara di volersi «mettere nella pelle dei personaggi e vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle con le loro parole»: un esperimento che lo chiama non solo a chinarsi «sui caduti per esaminarne le convulsioni» per poi dire «Che peccato!», come suggerisce una delle tante versioni teoretiche del suo credo verista, ma soprattutto a fare coincidere, seguendo con mirabile successo De Sanctis, forma e soggetto: inventando una lingua che tiene aderente all’ambiente e che cambi con l’ambiente e ricostruendo, per dirla con Russo, «le costumanze antiche e severe» di un villaggio col restituirne anche i proverbi e lo stato corale di pensiero.</div><div style="text-align: justify;">Il risultato è una prova di realismo mitico entro un quadro di assoluta invenzione dove molti studiosi, da Momigliano a Russo a Serra, hanno stentato non poco a sorprendere elementi che possano dirsi autenticamente veristi se non nella chiave di un naturalismo evoluzionistico dove, come osserva Capuana, la fedeltà al reale si presenta come semplice amore del vero.</div><div style="text-align: justify;">Il realismo mitico verghiano, quello stesso realismo che, privato dello sperimentalismo linguistico, porta da Teocrito a Vittorini, connota <i>I Malavoglia </i>in ciò, che alla fredda obiettività si sostituisce la ricerca tutta sentimentale e poetizzante della terra nativa e dei valori morali ed etici frutto di una società preferita nel suo assetto storico perché fondata sulla religione della famiglia e sulla fedeltà alla tradizione, invalendo accanto all’«ideale dell’ostrica» il contiguo mito dell’infanzia e dell’adolescenza, il vagheggiamento nostalgico del mondo «primitivo» contro l’aridità del dettato scientifico: insomma quel fulgore pure letterario che, pervadendo il Novecento e perdurando fino ad oggi, rende<i> I Malavoglia </i>un romanzo ancora moderno, come scritto ieri, al di là del suo carattere di opera consacrata sull’altare di un realismo verista ormai più che storicizzato.</div></span><div style="text-align: justify;"><br /></div>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-30858894567259077082023-08-26T10:21:00.002+02:002023-08-26T10:49:08.425+02:00Il nostro smartphone in un dipinto dell'Ottocento<p style="text-align: right;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOP86PVsHmMOuiDuO4ACjrGbni68fWKjefK-cTCeb68yUBFeB3UIn_3tthcH93liT3O-bwpsKsdT59gVqi9b3N6WTt-DT5zIgHimJw7VotaexpeLyjRp0i-CPdUmZOKLc29Vy3NkUo8ZS_cAa8-JY9fW01HAJ5UV24egsTVMEZlQBrgG3lR42051hNdIo/s2412/Ferdinand_Georg_Waldm%C3%BCller_-_Die_Erwartete.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2412" data-original-width="2024" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOP86PVsHmMOuiDuO4ACjrGbni68fWKjefK-cTCeb68yUBFeB3UIn_3tthcH93liT3O-bwpsKsdT59gVqi9b3N6WTt-DT5zIgHimJw7VotaexpeLyjRp0i-CPdUmZOKLc29Vy3NkUo8ZS_cAa8-JY9fW01HAJ5UV24egsTVMEZlQBrgG3lR42051hNdIo/w336-h400/Ferdinand_Georg_Waldm%C3%BCller_-_Die_Erwartete.jpg" width="336" /></a></div><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Il dipinto ad olio del 1860 “Die Erwartete” (L’attesa) dell’austriaco Ferdinand Georg Waldmüller (1793-1865), l’artista preferito da Hitler, si presta a riflessioni che sottendono uno scontro di epoche e culture. Il dipinto raffigura una ragazza che risale un declivio lungo un sentiero che parte da un manipolo di case a valle.</div><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span>Sta camminando a passo lento (e che cammini e non sia ferma lo prova il suo piede destro in movimento) ed è così intenta a leggere con gli occhi bassi su un “oggetto” tenuto tra le mani incrociate a leggio da non accorgersi che pochi metri più avanti a destra un ragazzo la aspetta seduto tra i sassi con una rosa in mano pronto a porgergliela e un’altra nel nastro del cappello, segno che le ha raccolte) e a sinistra si apre un fossato, forse a lei ben noto e quindi non temuto. Si tratta di una contadinella agghindata per il dì di festa che tiene un libro di preghiere ed è diretta a una probabile chiesa lì vicina. La sua concentrazione è dunque un raccoglimento di fede nonché una preparazione liturgica minacciata dalla presenza di un giovanotto nell’abito della domenica dei ragazzi di campagna (e nei panni di un diavoletto) che la tenta romanticamente (e capziosamente) per indurla a ben altri pensieri e in peccato.</div><div style="text-align: justify;">L’attesa è lei, ovviamente da parte del giovane che aspetta da un bel po’, giacché si è messo seduto, sicché la tela è anche intitolata in italiano “L’aspettata”, ma può essere vista come situazione di entrambi: di lei che attende di arrivare alla messa e di lui che l’aspetta in cima alla salita, certo di incontrarla visto che si apposta. Lui sa anche che la fanciulla verrà da sola contro la buona norma della famiglia riunita in chiesa per la messa domenicale, come sa anche che deve mostrarsi galante per conquistarne il cuore, che ancora non ha, altrimenti lei non sarebbe così distratta da non guardare nemmeno se il suo amato sia lì ad aspettarla.</div><div style="text-align: justify;">Lo spettatore ottocentesco educato alla nuova cifra artistica del Biedemeier (attenzione alla natura e alla vita semplice della campagna e dei piccoli borghi, con una vena appena romantica: in questo dipinto ben evidente, ma senza gli orpelli e gli eccessi dello stile Impero) quel che vedeva nella tela, oggi conservata a Monaco, era una scena agreste pervasa di buoni sentimenti, elogio della natura e spiritualità religiosa.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmJPmiNQlrWVK6sMNF3HUoLQlbz1-O0Vvze_84D9m2f8sorCMUTaKFnDBLWweiNiHsHcNbp3jwp6TMcLyzfjNLGlksGTwiH4q5kGr4kIjRt-PFMoHpa3AMxnDA2Lbi7XW31MjQ7VeJ76kqN7CvrsoKnDzkCvccwEVWwwC7quPlCfjR6qsD__N3NyON-_Y/s594/L'attesa.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="594" data-original-width="495" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmJPmiNQlrWVK6sMNF3HUoLQlbz1-O0Vvze_84D9m2f8sorCMUTaKFnDBLWweiNiHsHcNbp3jwp6TMcLyzfjNLGlksGTwiH4q5kGr4kIjRt-PFMoHpa3AMxnDA2Lbi7XW31MjQ7VeJ76kqN7CvrsoKnDzkCvccwEVWwwC7quPlCfjR6qsD__N3NyON-_Y/w534-h640/L'attesa.jpg" width="534" /></a></div><div style="text-align: justify;">Ma oggi come vedremmo il dipinto? L’oggetto in possesso della ragazza che nell’Ottocento era un libretto di preghiere, da tenere fermo con entrambe le mani non solo per favorire la lettura nel cammino ma anche per poter giungerle in preghiera, è diventato uno smartphone da reggere esattamente allo stesso modo se si vuole leggere o chattare e intanto camminare. Ucronicamente, la ragazza sta allora inoltrando un messaggio Whatsapp a chi la aspetta in chiesa o fuori, oppure ne sta leggendo uno che ha appena ricevuto. In questo caso il ragazzo seduto a terra sarebbe però già in piedi perché in attesa non di dirle “Questo fiore è per te” ma di chiederle con chi massaggia, oppure di sparire prima di essere scorto.</div><div style="text-align: justify;">Waldmüller non poteva certo anticipare il tempo e farsene viaggiatore diacronico, per cui non si è preoccupato di definire con certezza quanto la ragazza tenesse in mano. Per la cultura del suo tempo, un oggetto pur sottile, piccolo, tenuto nella parte inferiore, non poteva che fare pensare a un libro di preghiere e a null’altro, benché con caratteri minuscoli (ma leggibili da una ragazza anche senza avvicinare gli occhi al testo) e in un formato insolito per un libro che sembrerebbe quindi piegato in due. </div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixUtJZM_MnwUgoldTSJvdmJKvcM1dFai4Gn60U07FpzzSKIADNI6WBJnA0F3OBD-SH4A63cAnPQ9EmWN1L-nt2wXUcyusc9OouRSh8Ti85JM68IM7TnIAsb0O-qJNVXCBCa4bBMrfwIM-rE7nrCIkED0sR3VccFZyjtoo_fZDs3HNjuND_i8J-S-FRGh4/s1280/Circus.webp" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="706" data-original-width="1280" height="177" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixUtJZM_MnwUgoldTSJvdmJKvcM1dFai4Gn60U07FpzzSKIADNI6WBJnA0F3OBD-SH4A63cAnPQ9EmWN1L-nt2wXUcyusc9OouRSh8Ti85JM68IM7TnIAsb0O-qJNVXCBCa4bBMrfwIM-rE7nrCIkED0sR3VccFZyjtoo_fZDs3HNjuND_i8J-S-FRGh4/s320/Circus.webp" width="320" /></a></div>È l’uomo del nostro tempo a vedere piuttosto un telefono mobile nel libretto, allo stesso modo che in una scena del film <i>Circus</i> del 1928 con Charlie Chaplin una donna ci sembra che tenga un cellulare all’orecchio perché ha la mano alzata alla stessa altezza. Ma certamente un artista di oggi che dipingesse una contadinella che chattando percorre un sentiero di campagna non potrebbe immaginarla in un aspetto diverso da Waldmüller che ritrae la sua in preghiera.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTQbXVgFeMP8jNp48eRPeHc4pDUZd2x6qB0-6rZgdvlolLKlb_5qfSBPieJbef05lD7IhxPwc3qKVC2BZhjq_AjVb5auEAs2jwCNb5Zcdw0A6RSWw85GZI2zY1WKiZBt7qPoOiIjWgrQ_RZsQDpdohGUv3q-SkpUUxXaRyPbSh4CPWRXkuXjcR-GdD66o/s1809/bambina..webp" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1809" data-original-width="1280" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTQbXVgFeMP8jNp48eRPeHc4pDUZd2x6qB0-6rZgdvlolLKlb_5qfSBPieJbef05lD7IhxPwc3qKVC2BZhjq_AjVb5auEAs2jwCNb5Zcdw0A6RSWw85GZI2zY1WKiZBt7qPoOiIjWgrQ_RZsQDpdohGUv3q-SkpUUxXaRyPbSh4CPWRXkuXjcR-GdD66o/s320/bambina..webp" width="226" /></a></div>Naturalmente è un gioco, che tuttavia dimostra come l’uomo contemporaneo non stia sulle spalle dei giganti del passato dai quali imparare ma tenda a vedere il passato come una parte o una proiezione del proprio presente. Così, se nella prima metà del Novecento le fotografie rivelavano, una volta sviluppato il negativo, la presenza di fantasmi non visti nella realtà, nella seconda metà tali apparizioni erano ricondotte a esseri extraterrestri, come nel caso della bambina inglese con i fiori ritratta nel 1964 dal padre e poi apparsa nella foto stampata con dietro una figura apparentemente aliena. Fantasmi e Ufo sono stati ciò che oggi è Internet, ovvero la logica dominante che annette ogni fatto inspiegabile anche trascorso ai più forti epifenomeni collettivi del momento. Il principio invalente è quello dell’eterno presente e serve a spiegare come possano sorgere dibattiti anche accademici sulle ragioni per le quali <i>socialmen </i>e <i>normal people </i>vedano in un artista ottocentesco un profeta del nostro tempo.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-55683271900074339922023-08-25T13:33:00.002+02:002023-08-25T13:33:20.179+02:00Thomas Pynchon, il postmoderno nei territori selvaggi<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiEJQwQctnF0HHSQ-rQjctqSD1J8obQX9TJcSY2lb7JD6YnPNRLmYtdtkK2rLd8JSlZ_oIyVDr0B1nTpNiXx5w-NadSi4bzCacEKc8nE_Zj8myydKaizGG5-1mBTe4H9G3mWrypFWLm75DLCPJLSJSBN8T6bLO8oFgsxvsEH29uqs6DCEGvX0E-DE8VMQs/s350/Thomas%20Pynchon.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="350" data-original-width="257" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiEJQwQctnF0HHSQ-rQjctqSD1J8obQX9TJcSY2lb7JD6YnPNRLmYtdtkK2rLd8JSlZ_oIyVDr0B1nTpNiXx5w-NadSi4bzCacEKc8nE_Zj8myydKaizGG5-1mBTe4H9G3mWrypFWLm75DLCPJLSJSBN8T6bLO8oFgsxvsEH29uqs6DCEGvX0E-DE8VMQs/w294-h400/Thomas%20Pynchon.jpeg" width="294" /></a></div><span style="font-size: medium;">Articolo già uscito su Doppiozero</span><p></p><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">A settembre saranno dieci gli anni trascorsi dall’ultimo romanzo di Thomas Pynchon, <i>La cresta dell’onda</i>, che è stato il nono titolo di una sorta di collana di denuncia e riflessione sull’America come anche sulla condizione umana. <span><a name='more'></a></span>L’86enne autore del Long Island ci ha abituati alle lunghe attese, ma non ai cambi di sistema, se – al di là dei mutamenti di rotta annunciati puntualmente dalla critica a ogni libro - anche <i>Vineland</i> del 1990, uscito diciassette anni dopo <i>L’arcobaleno della gravità </i>e considerato, forse perché posto in mezzo alla sua attività letteraria, uno spartiacque tra narrativa postmoderna e tradizionale, non reitera che lo stesso modello invariato delle<i> fabulae </i>complicate ed esorbitanti di digressioni, dei personaggi con nomi da <i>cartoons</i>, degli intrecci traboccanti di analessi, qui con minore attenzione magari per l’entropia apocalittica, il grande totem di Pynchon, ma con immutato spirito paranoico presente anch’esso come un rumore di fondo in ogni romanzo: spirito che per lo scrittore è proprio dell’uomo contemporaneo, esonerato com’è dal rendere conto delle sue decisioni giacché la volontà è determinata dalla congerie del caos probabilistico che muove le azioni umane in linea con le teorie della fisica quantistica adottate da Pynchon al pari di un criterio di condotta comportamentale e sociale oltre che quale propria fonte di ispirazione.</div><div style="text-align: justify;">Lontano come Salinger dalla ribalta, scrittore appartato ed elusivo caro ai lettori millennials e generazione zeta per la sua vena narrativa capace di coniugare noir, <i>science fiction</i>, fumetto e trame cospirative entro un geyser che esalta <i>pastiche</i>, <i>nonsense</i>, iperboli e divagazioni, chissà che l’autore ritenuto caposcuola del postmoderno non sia impegnato in un decimo romanzo non fosse che per soddisfare la sua ossessione per i numeri rotondi, la simmetria, la combinazione tra calendario e diario: un romanzo <i>of cours</i> gigantesco, tentacolare, straripante di personaggi tutti privi di una personalità e di un carattere, marionette nelle mani di complottisti, grandi vecchi, potenti di Stato ed eccentrici<i> tycoon </i>come figurano nei titoli dell’intero suo catalogo.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8gbbnEfBOoJHscdwpL1-bv-fu3jha7eMEc10b5-oRxFhP3O4mUPGyOHjVoA-VkDn1lZ_F8IJkF94JGQHCiL9FiFk-31o2kA-xvN6lLYleWRbS8JMtcNBcJqiwyG1ebFkD1Dt3DVpUU9YwJtjSOQZUeWQlMYCT1fKrn9-xFaRUoMWYveVTk3kj63K8Dig/s1540/L'incanto%20del%20lotto%2049%20pp%20160%20euro%2011,50%20.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1540" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8gbbnEfBOoJHscdwpL1-bv-fu3jha7eMEc10b5-oRxFhP3O4mUPGyOHjVoA-VkDn1lZ_F8IJkF94JGQHCiL9FiFk-31o2kA-xvN6lLYleWRbS8JMtcNBcJqiwyG1ebFkD1Dt3DVpUU9YwJtjSOQZUeWQlMYCT1fKrn9-xFaRUoMWYveVTk3kj63K8Dig/s320/L'incanto%20del%20lotto%2049%20pp%20160%20euro%2011,50%20.jpeg" width="208" /></a></div>Come John Fante, anche Thomas Pynchon è in Italia un autore di culto (prova ne siano la scelta di Sandro Veronesi di inaugurare la sua “Americana” per il Corriere della sera proprio con <i>Vineland </i>e la decisione della Einaudi di ristampare dopo diciotto anni <i>L’incanto del lotto 49</i>) e lo è in forza del disposto tra realtà e fantasia cui egli ama indulgere fino a toccare punte di visionario surrealismo, quale fu la sua più viva passione da studente. Nella celebre introduzione alla raccolta dei suoi cinque racconti <i>Un lungo apprendistato </i>che è del 1984, dove l’autore quasi cinquantenne giudica il suo giovanile tirocinio, in gran parte bocciandolo, Pynchon spiega la propria primigenia vocazione richiamando l’attrazione verso i surrealisti: “Rimasi affascinato dall’idea di poter combinare all’interno della cornice elementi che di norma non si trovano insieme, creando effetti illogici e sorprendenti. Quel che dovetti apprendere più tardi fu la necessità di modulare tale procedimento con un minimo di cura e di ragione: non è che qualsiasi combinazione di particolari andasse a bersaglio.</div><div style="text-align: justify;">Ma tale propensione all’effetto combinatorio, nel solco di un principio di contaminazione che è il nerbo del postmoderno e spinge verso una visione astratta, deve fare i conti nel giovane Pynchon con l’inclinazione di pari forza al dato più strettamente reale, sicché ammette nella sua Introduzione e in assoluta contraddizione, secondo un concezione molteplice della letteratura che non lo lascerà più: “A un certo punto avevo concluso che la vita personale di un individuo non c’entra niente con l’invenzione letteraria, quando, lo sanno tutti, la verità è esattamente l’opposto. Per di più ero circondato da prove contrarie, anche se deliberai di ignorarle, perché in realtà la narrativa che allora come ora più mi commuove e incontra il mio gusto è proprio quella che prende luce e verità innegabile dal fatto di essere stata trovata e attinta nei livelli più profondi e condivisi della vita reale che viviamo tutti”.</div><div style="text-align: justify;">E allora? Pynchon è un antirealista che ama l’illogico e il sorprendente oppure un realista, sia pure psicomachico, portato a cogliere luce e verità scavando nell’animo umano? Come arriva a scalare due coté così antitetici è il segreto della sua cifra quanto a soggetto e a stile. Alla fine, non riuscendo a risolvere la dicotomia, accoglie entrambe le posizioni e ne fa un tout de même originalissimo e personale. I suoi romanzi risentono dei labirinti bibliomantici e cerebrali di Borges come delle atmosfere cospirazioniste di Umberto Eco e dell’ironia beffarda di Woody Allen (che c’è tutto nel poliziotto de <i>L’incanto del lotto 49 </i>quando chiede a Oedipa ostaggio nelle mani di un invasato come si scrive il suo nome per comunicarlo ai giornalisti), non ricercano né il lieto fine né la conclusione chiusa e si tengono sempre su un piano di continua verifica di verità e valori nel proposito di smascherare la menzogna e la falsità. Tale configurazione è figlia di un percorso partito sin da giovane.</div><div style="text-align: justify;">Quando Pynchon, agli inizi degli anni Sessanta, si affaccia infatti alla letteratura, il panorama negli States è segnato dalla <i>war novel </i>e da scrittori definiti “modernisti”, perlopiù anche accademici, che hanno ereditato la tradizione ottocentesca e superato la temperie dell’<i>hard boiled </i>di Chandler e Hammett. Sono Bellow, Barth, Updike e soprattutto Normal Mailer, l’autore apripista che nel 1948 ha pubblicato “The naked and the dead” su una pattuglia di fanteria in territorio nemico, romanzo visto come un monumento costituendo il primo attacco alle derive delle falsità storiche. Anche Pynchon ne rimane impressionato, ma a sedurlo sono di più il mondo beat e la musica jazz entro un disegno inteso a rompere le strutture del romanzo tradizionale e modernista. </div><div style="text-align: justify;">Scriverà nella Introduzione a nome della sua generazione: “Contro l’innegabile forza della tradizione venivamo attratti da suggestioni centrifughe come il saggio di Norman Mailer <i>Il negro bianco</i>, l’ampia disponibilità di dischi jazz e un libro che ancora oggi annovero tra i più grandi romanzi americani: <i>Sulla strada</i> di Jack Kerouac”. Pynchon spiega bene qual è il clima dei giovani scrittori del suo tempo e lo fa ancora nella Introduzione: “Il bop e il rok’n’roll stavano allo swing e al pop postbellico come la nuova scrittura stava alla più consolidata tradizione modernista che ci somministrava l’università”.</div><div style="text-align: justify;">Le coordinate sono dunque segnate alla partenza. Pynchon diventa postmoderno, cioè un autore da “territori selvaggi”, perché i postmoderni sono più pronti dei modernisti a sovvertire le regole del romanzo tradizionale e non solo. La lotta è anche contro quegli autori trentisti che hanno fatto del giallo e del mystery il primo piatto del gusto americano, come pure contro quegli scrittori alla Hemingway, alla Faulkner e alla Steinbeck che hanno scelto il vero e il crudo della società e del loro tempo, quando piuttosto la strada del cambiamento, da Burrough a John Rechy, da Jospeh Heller all’ultimo Philip Roth, non può che passare dal noir che offre molte più possibilità di sperimentazione e libertà di manovra nel testo.</div><div style="text-align: justify;">In sostanza il postmoderno di Pynchon si caratterizza per la frenetica miscela che fa di reale e antireale nella prospettiva di una progressiva derelizione che risponde a una cosmica entropia del mondo e si consuma in un gurgite apocalittico dove trovano posto la guerra, la ricerca scientifica, la coscienza collettiva votata alla paranoia, le congiure cospirative, l’insignificanza degli individui. Pynchon non ha uno sguardo avveniristico e futurista alla Asimov, non immagina mondi ultraterreni neppure nel suo colossale e fantasioso <i>L’arcobaleno della gravità</i>, ma è al passato che si rivolge revolvendo in esso cambiamenti tanto più incisivi quanto più vede venire meno la fiducia popolare nella verificabilità e nei lieti fini. Il suo è un atteggiamento <i>counterfactual</i>, ovvero inteso a fare controstoria e <i>fact-checking</i>, anche rivalutando i mezzi espressivi e il linguaggio.</div><div style="text-align: justify;">Nel romanzo appena ripubblicato, <i>L’incanto del lotto 49</i> (che Pynchon considerava però un racconto del quale scrisse nella Introduzione di aver dimenticato quanto aveva imparato fino ad allora, perché il personaggio non è fisso e definito ma diventa tale da ricordare un film, in continuo mutamento, “anima nel suo scorrere”: progetto in verità mancato) tale veste è precisata in quella che chiama, quando riporta la trama di un dramma medievale, “renitenza rituale” (nell’originale “ritual reluctance”), che sarebbe l’ingerenza di un’ambiguità nelle parole pronunciate: “Diventa chiaro – scrive il romanzo - che certe cose non verranno dette ad alta voce; certi eventi non saranno mostrati sul palcoscenico; per quanto sia difficile immaginare di quali cose mai possa trattarsi”. Il non detto, il detto ambiguo, in altre parole la reticenza più ipocrita, costituisce allora per Pynchon il banco di prova sul quale misurare un tempo e una società chiamati a non mentire e a tenere integri i valori condivisi.</div><div style="text-align: justify;">E non a caso il romanzo uscito nel 1966 fa della Parola una propria chiave di volta, costituendosi come febbrile ricerca da parte della protagonista Oedipa Maas (versione femminile dell’enigmatico eroe greco) del significato di un nome, “Tristero”, che rimanda simultaneamente a un complotto secolare e a un mondo sommerso che vanta un proprio sistema di servizio postale utilizzato per scambiare informazioni false, nato nel Duecento tra Milano e Bergamo. Italia ed Europa sono alquanto ricorrenti nell’opera di Pynchon, per via del tema prevalente del romanzo di guerra come documento del recente conflitto mondiale, e lo è anche la mafia. Anzi Cosa nostra, come scrive l’originale. Un personaggio ad un certo punto esclama in tono faceto: “I have relatives in Sicily” e lo fa “in comic broken English”. Il traduttore italiano Massimo Bocchiola ha scelto invece di tradire totalmente l’originale traducendo così il passo: “Hopparènti in Siggilia - disse Di Presso con un comico accento siculo”.</div><div style="text-align: justify;">Lo stereotipo del siciliano mafioso e grottesco che Pynchon non ha scomodato è stato rilanciato dunque da Bocchiola distorcendo del tutto il testo e dando un accento siculo a quello che per l’autore era inglese. Per fortuna non è stato mutato “Cosa nostra” in “mafia”, permettendo così di apprezzare come nel 1965 (anno di stesura del romanzo), solo due anni dopo l’istituzione in Italia della Commissione antimafia e a quattro da <i>Il giorno della civetta </i>di Sciascia, il primo romanzo italiano di argomento mafioso, negli Usa circolasse già un’idea ben chiara e consolidata dell’onorata società. Dice infatti Metzger che “Cosa nostra non dorme mai. Veglia. E non conviene farsi vedere ad aiutare quelli che l’organizzazione non desidera siano aiutati”. Anche il newyorkese Pynchon veglia eccome, dacché all’età di ventotto anni ha un quadro molto preciso del fenomeno mafioso di origine siciliana quando in Italia la parola mafia è ancora impronunciabile (Sciascia infatti non la scrive) e davvero poco si sa di Cosa nostra anche come termine.</div><div style="text-align: justify;">Il romanzo è sovraffollato di personaggi in un carosello nel quale la sola Oedipa rimane sempre in scena, ma anche lei muore sulla pagina per un difetto che Pynchon si riconosce da giovane e che non ha risolto: quello di partire da un concetto, un’astrazione, un’idea per poi dedurne un intreccio e i personaggi. Che sono quasi sempre interpreti di sé stessi, recensioni di figure che valgono per il loro ruolo e che non appaiono mai nella loro consistenza sia fisica che spirituale.</div><div style="text-align: justify;">Oedipa Maas, nominata da un ex fidanzato esecutrice testamentaria del suo enorme patrimonio, è un personaggio paradigmatico che torna nell’ultimo romanzo del 2013, dopo quarantasette anni: in <i>La cresta dell’onda </i>la ritroviamo in Maxine Tarnow, una investigatrice incaricata di indagare sui conti di una società informatica e risucchiata nel vortice di malaffari, misteri e garbugli tra fatture false e spese ingiustificate. Le trame dei romanzi di Pynchon non sono riassumibili in alcun modo, perché simili a un grande fiume nel quale si gettano decine di affluenti anche importanti. Oggi che il postmoderno è un’esperienza passata insieme con il novecentismo, dopo il ritorno ai canoni del realismo razionalistico, Thomas Pynchon rimane in America testimone di una stagione spumeggiante e creativa presto avviata verso il tramonto, cerimoniere funebre dal quale attendersi l’ultimo acuto di voce remota o il perdurare del silenzio entro un’entropia.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-1620229363312966842023-08-21T08:51:00.002+02:002023-08-25T13:34:02.699+02:00Il mondo fatto a immagine, anche sinistra, del cerchio<p style="text-align: center;"> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUrbYRD7MEHU4jJ-rnjJxDfaLkUiOMuM1Ab6y6o_iFYdjOUFW_YPtLQbLsRMqmH2q_sOb-cyz3EkH2hscg0slUW7ZDQUFB6f9aa29-WYRTUqYTNnIkjcb17iOYUQ1OYePqN3BNOHH06A-8cSlJVKv20f17h-RkQJYnA1N7QNa-XPNyehz02LpiEbONL9k/s300/cerchio%20magico.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="298" data-original-width="300" height="397" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUrbYRD7MEHU4jJ-rnjJxDfaLkUiOMuM1Ab6y6o_iFYdjOUFW_YPtLQbLsRMqmH2q_sOb-cyz3EkH2hscg0slUW7ZDQUFB6f9aa29-WYRTUqYTNnIkjcb17iOYUQ1OYePqN3BNOHH06A-8cSlJVKv20f17h-RkQJYnA1N7QNa-XPNyehz02LpiEbONL9k/w400-h397/cerchio%20magico.png" width="400" /></a></p><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Figura geometrica inventata dall’uomo, il cerchio è un perno della natura dove tutto tende a ruotare - i pianeti, le stelle, le galassie – e a costituirsi in forma rotonda, anche contro la logica. Perché i piatti, i bicchieri, le pentole, le tazzine di caffè, sono perlopiù rotondi? Perché lo sono le penne e le matite? Ma anche le lampadine, lo sterzo della macchina, i tronchi degli alberi, gli steli, moltissimi fiori, le sigarette, gli aerei? Perché diciamo “buco” e pensiamo subito che debba essere rotondo? <span><a name='more'></a></span>Anche della testa diciamo che ci gira e se ci guardiamo vediamo che i nostri corpi sono rotondi, così le membra: gambe, braccia, torace. Arrotondati sono anche gli animali, i pesci, gli uccelli… Tutto è rotondo o pronto a ruotare. Anche il tempo che passa immaginiamo che ruoti come le lancette di un orologio. Gli alberi contano gli anni aggiungendo anelli interni. Tutto in terra e in cielo tende ad assumere una forma rotonda, sferica, circolare. </div><div style="text-align: justify;">Il moto rotatorio è l’origine della vita. Ciò che in passato era rettilineo oggi si arrotonda, si smussano gli angoli: le autovetture hanno perso gli spigoli e arrotondato le forme, così come gli arredamenti delle case e molti oggetti, compresi i telefonini e i computer. Non ci sono più spigoli. Le colline si riempiono di pale eoliche che ruotano, gli incroci stradali perdono il loro significato di disegno a croce e diventano rotatorie sembrando obbedire, dagli anni Novanta in poi, a un nuovo ordine, una specie di adeguamento all’<i>ordo naturalis</i>. Dallo stesso periodo adottiamo la chiocciola a spirale nella posta elettronica. L’uomo in sostanza sta tornando alla natura, la grande dea adorata anche nella sua versione demoniaca e perciò oggetto di culto del satanismo e del neopaganesimo, ma venerata soprattutto nei primordi dell’umanità e per tutta l’età classica.</div><div style="text-align: justify;">Conosciamo questa concezione dei cicli cosmici, concentrici come onde di frequenza, dal più grande al più piccolo. Anche di una giornata parliamo di arco e diciamo addirittura “nel giro di un’ora”, di un tempo cioè che non è più retto e lineare come in passato, quando era la clessidra a misurarlo, ma che ruota come in un orologio. O serpenteggia: come fa la spirale che gira in senso antiorario attorno alla testa di Medusa, la gorgone che Persefone vuole a guardia degli inferi. La fisica teorica ha infine dimostrato la curvatura sia del tempo che dello spazio. E persino nel Triangolo delle Bermuda piloti aerei scampati alla morte riferiscono di aver visto nuvole nel cui interno si creano spirali.</div><div style="text-align: justify;">Questo perché la natura, maligna e benigna che sia, non ama né l’angolo né la retta, ma preferisce per convenienza la sfera, sebbene Archimede dimostri che la spirale si crei su una retta. Ma al soldato romano venuto per ucciderlo dice “Non disturbare i miei cerchi”». Archimede fu tra i primissimi ad aver chiaro un fondamento della natura che possiamo vedere da noi: se in un giardino sradichiamo una piantina vediamo che si crea attorno una specie di cerchio chiamato "di accrescimento", come succede nei tronchi degli alberi e nel buco dell’ozono, oltre che nella formazione delle stelle: l’erba sarà attorno più alta e via via ricoprirà il buco accorrendo come anticorpi che cauterizzino una ferita.</div><div style="text-align: justify;">Un simile concetto figura nell’<i>Ecclesiaste</i>, il cui prologo scrive che il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana e girando girando torna sulle sue spire, così come tutto il Creato. Proprio com’è per la danza, che nasce in circolo non solo per ricordare Teseo che gira a vuoto nel labirinto ma soprattutto in armonia col firmamento nel quale gli antichi vedevano che i pianeti erranti andavano di giorno verso destra e di notte verso sinistra.</div><div style="text-align: justify;">Il moto rotatorio è oggigiorno alla base anche della nostra civiltà tecnologizzata. Ed è moto rotatorio anche il senso della velocità che il progresso tecnologico ha preso. Le scoperte scientifiche in campo informatico rendono per esempio obsoleto un prodotto appena immesso sul mercato, quindi possediamo solo mezzi del passato, nel quale veniamo ricacciati e che si perpetua continuamente. Ma nello stesso tempo internet rende tutto disponibile, quindi presente, come mai storicizzato: ogni fatto, ogni immagine, ogni documento non ha più un suo tempo ma solo il nostro. Il presente e il passato che stanno sempre più vicini, come ubbidendo a una materia oscura che li attrae, contraria all’energia oscura che espande il cosmo, si fondono e si annullano come ruotando. </div><div style="text-align: justify;">Costituiscono un unico tempo e richiamano l’idea del cane che corre in circolo per mordersi la coda e quella del mitico Urobono, il serpente che si mangia la coda e forma un cerchio. A realizzare quindi l’eterno ritorno, anche alla madre terra, quindi alla natura e al femminino sacro. Ma con un’attenzione speciale al moto rotatorio. Il quale implica concetti di natura quali la spirale e il vortice che sono anche causa di fenomeni come i tifoni e le trombe d’aria oltre che del fatto che vediamo l’acqua defluire nel nostro lavandino in forma circolare quanta più è la quantità e la velocità, a prescindere dalla rotondità del buco di scarico. Nelle <i>Nuvole</i> Socrate spiega che è il vortice celeste a muovere i venti e non Zeus. </div><div style="text-align: justify;">Così peraltro avviene in un buco nero nello spazio: i corpi celesti che finiscono oltre il suo orizzonte degli eventi spiraleggiano e vengono poi risucchiati in un vortice. Del resto le api, come gli elicotteri, traggono la loro energia dall’alta frequenza dei vortici che creano con le loro ali. E un ponte, o magari una finestra alla veneziana, cede o vibra secondo la scia vorticosa che si determina nella linea di corrente. È la legge di Von Karman, che definisce il fenomeno della risonanza: quando la frequenza di formazione dei vortici si avvicina alla frequenza di vibrazione del corpo sollecitato si ha la risonanza.</div><div style="text-align: justify;">Anche la Terra come tutti i corpi celesti è rotonda per una precisa legge di natura. Ogni stella, ogni astro, ogni pianeta è rotondo perché qualsiasi corpo tende a conservare il massimo della sua energia con il minimo sforzo. Lo sapeva anche Leonardo da Vinci: ogni azione è generata dalla natura nel “più brieve modo che trovar si puote”. Ora la sfera è l’unico solido a possedere in ogni sua parte una uguale gravità rispetto al centro, ma ha soprattutto la superficie estrema più piccola in ogni punto e quindi vanta la possibilità di scambiare meno calore con l’esterno e di conseguenza di conservarne di più, avendo perciò maggiore energia. Tutto nell’universo rotondeggia per risparmiare calore e quindi energia. Per questo l’atomo, nel mondo opposto dell’infinitamente piccolo, è rotondo. Democrito che lo scoprì lo immaginava come una pallina liscia. Ciò che però fa pensare come a quel tempo fosse più facile immaginare un atomo che non una pallina liscia.</div><div style="text-align: justify;">Anche per Aristotele sarebbe stato più agevole, raccogliendo le intuizioni di Anassimandro, dimostrare il movimento degli astri che non la loro sfericità, ma dovendo tener fermi quelli ha dovuto stabilire che questi siano sferici sulla base del fatto che la figura meno mobile è la sfera. Vedeva rotondi il sole e la luna, osservava le eclissi e deduceva dunque che lo fossero tutti i corpi celesti. Ma è proprio Aristotele ad assegnare al vortice la prima funzione del moto rotatorio che è quella di spingere ogni oggetto, celeste o terrestre, verso il centro di esso come fa, diceva, l’acqua nei “ciati” che non cadrebbe se girati vorticosamente. Non conosceva la forza centrifuga, perché a quel tempo le leggi della natura erano date da osservazioni molto elementari. Non avendo modo di vedere mai un tifone, per studiare i vortici Aristotele li guardava formarsi nei fiumi. E nei sogni, dove pure vedeva crearsi piccoli vortici. Ma anche Cartesio, quasi duemila anni dopo, osserverà ancora i fiumi per trovare i vortici e scorgerà, nei gorghi e nelle festuche che girano, anche il moto rotatorio dei pianeti. Moto rotatorio che secondo lui, non immaginando il vuoto, è dovuto allo spostamento che una forza imprime a un’altra vicina creando per inerzia un circolo.</div><div style="text-align: justify;">L’uomo e la natura come sopra così sotto, insomma, secondo il principio della Tavola di smeraldo. Gli dei pagani sono una prova dell’identificazione tra cielo e terra. Passano da una dimensione all’altra e stanno in mezzo agli uomini vivendo come loro e dividendone anche le passioni. Il satanismo nasce dal desiderio di ricreare l’Aldilà da questa parte invertendo la missione di Dio nel mondo: invece della felicità nella vita eterna si cerca la fortuna nella vita terrena chiamando la natura a fare da tramite.</div><div style="text-align: justify;">Ecco allora il feticcio del cerchio, quindi del moto circolare, che è alla base anche della creazione dell’universo. Secondo una certa teoria la Terra stessa sarebbe una sfera di nummuliti, i fossili preistorici unicellulari il cui guscio è a forma di spirale. E il cerchio magico diventa quindi il sacro recinto delle divinità classiche, il luogo molto reale e solenne dove la comunione e la comunicazione con Satana o con il divino diventa possibile con l’uso di sostanze che siano quanto più naturali possibile. </div><div style="text-align: justify;">Il consumo di alcaloidi e allucinogeni, molto comune in ambito esoterico, riguarda sempre più oggi le sostanze elementari proprio per un contatto quanto più stretto e immediato con la natura, come d’altronde avveniva prima delle scoperte chimiche che ci hanno dato la morfina, la cocaina, l’Lsd, la marijuana, l’hashish. Si preferisce la materia base che è in natura, dallo stramonio alla segale cornuta, dalla mescalina al giusquiamo, dall’oppio alla cannabis e a tutta una serie di funghi come il Marasmius oreades. Questo fungo, insieme con altri dello stesso genere, è quello che crea i cosiddetti cerchi delle streghe, quei circoli che, imputati a esseri alieni e apparsi ricorrentemente in più parti del mondo, si espandono sempre più come fa l’universo, anche all’infinito, e che qualcuno ancora oggi crede che designino la circonferenza tracciata dalle streghe nei loro sabba e il loro potere di modificare la natura. </div><div style="text-align: justify;">Non avendo clorofilla e non conoscendo quindi la fotosintesi, si nutrono di materia inorganica sotterranea e, cercando nuove sostanze nutritive dopo aver bruciato quelle interne, si spostano nel terreno letteralmente verso l’esterno in un’azione simultanea. Sono ingeriti per creare come in passato stati alterati di coscienza in determinati rituali e sono allo stesso tempo visti oggi come privilegiato mezzo di identificazione con l’inferno proprio perché fonte di figure naturali a forma di cerchio.</div><div style="text-align: justify;">Nel Medioevo il cerchio lo troviamo in molte miniature e tele a circoscrivere sia il male, rappresentato da figure simbolo dei vizi umani come la lussuria o la cupidigia, sia il bene raffigurato anche da Dio o da Cristo. Basterebbe il caso di San Bernardino da Siena, processato tre volte per stregoneria per aver ostentato una tavola con dentro inscritto un cerchio solare apotropaico nel quale gli inquisitori vedevano però il simbolo del diavolo. Ma ci sono, al contrario, le catacombe protocristiane dove i simboli cristologici appaiono dentro cerchi anche a fascia larga. Il cerchio magico è anche il segno dei satanisti. È la linea circolare che circoscrive il sabba, tracciata a terra per concentrare dentro di esso le forze che legano la dimensione reale a quella infernale. Infatti al magico sono intestate varie sette anche in Italia, proprio perché diventa il sacro recinto delle divinità classiche, il luogo molto reale e solenne dove è possibile la comunione e la comunicazione con Satana o con il divino.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-81650731606537896012023-08-08T14:24:00.006+02:002023-08-14T08:25:10.684+02:00Casalvecchio e il sacro tesoro del tempo<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3TsFqq2lwXCv5sW2LKmLs63_m-JFf2aZJJhJtk9sovsBtzE6zPiU1XsiUuxGx87EryIlNfMqq4KDz3uxr-XPgUgnBnKpyX_Gc0LXpRhQqaBR2mELedMN5ZEz41_3fEi9AdBPbVL5VQDD64V3Jg15oKprxxi1UY46kN5RS7_AMGD8w6rGGWJ3xHIZ9aiM/s1024/Casalvecchio.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="684" data-original-width="1024" height="268" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3TsFqq2lwXCv5sW2LKmLs63_m-JFf2aZJJhJtk9sovsBtzE6zPiU1XsiUuxGx87EryIlNfMqq4KDz3uxr-XPgUgnBnKpyX_Gc0LXpRhQqaBR2mELedMN5ZEz41_3fEi9AdBPbVL5VQDD64V3Jg15oKprxxi1UY46kN5RS7_AMGD8w6rGGWJ3xHIZ9aiM/w400-h268/Casalvecchio.jpg" width="400" /></span></a></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Le parole sono pietre e a Casalvecchio Siculo, paesino del Taorminese, hanno la stessa età. Sono talmente antiche da essere arcaiche, sicché sanno di poca storia e molta leggenda. Raccontano di persone forse mai esistite e di vicende non avvenute ma, queste e quelle, note a tutti come reali e certe: di santi ed eremiti perciò, di monaci e pellegrini, di emigranti e operai; e poi di avventure, miti, imprese e mirabilia. <span><a name='more'></a></span>Senza che nulla di scritto sia stato lasciato di tutto ciò, perché la tradizione si è tramandata di secolo in secolo solo oralmente, come una tribù che si trasmette un mistero irrivelabile. Parole che narrano cunti, recitano preghiere, sussurrano segreti, intonano canti. Che involgono detti, proverbi, motti e motteggi: a costituire l’asse ereditario di un’identità storica che non ha un’anagrafe né un registro degli atti, ma si affida a una riserva di conoscenza e consapevolezza dove la lingua è depositata al fondo di un pozzo che è anche una fonte. Una lingua aspra che in un dialetto incontaminato e vergine fa delle consonanti un intreccio come in un ricamo e usa le vocali per mitigarne l’impulso a vorticare e rocambolare.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Di conseguenza anche le pietre sono vecchie, come le parole, e periclitano sempre più per colpa del tempo che qui è diventato enorme. Sono del bianco dell’arenaria ritinto nel colore che ha il grigio delle cose vissute, delle case passate di famiglia in famiglia e rimaste vuote ad echeggiare nomi antichi ed evocativi - Crisafulli, Sigillo, Casablanca, Chillemi, Carnabuci: etimi greci, latini, spagnoli e arabi riuniti in un retablo di epoche e culture non dissimile dalla voluta di portali, volte, archi e rosoni che del paese fa un ghirigoro di viuzze e variazioni simile al fuso che raccoglie il lino e che a Casalvecchio gira ancora in qualche casa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipQ73POOuGximQR70AJJK8dzE2QAEG0hkbF08osHYyLhc8GWxsDcb-GJ5SU2I6K7-6QqfAEzs69r2d7XL72FLBa9WUQmUWeUwwop-G-ZrwwV4E8XrErTvymYK2Tq17f_7MW4RAm6yWkk-Q581ONWIb-lURlmeqN3t5GgPkLACvhRzfGeBTDRGZOKqP9aY/s2816/P3210007.JPG" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="2112" data-original-width="2816" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipQ73POOuGximQR70AJJK8dzE2QAEG0hkbF08osHYyLhc8GWxsDcb-GJ5SU2I6K7-6QqfAEzs69r2d7XL72FLBa9WUQmUWeUwwop-G-ZrwwV4E8XrErTvymYK2Tq17f_7MW4RAm6yWkk-Q581ONWIb-lURlmeqN3t5GgPkLACvhRzfGeBTDRGZOKqP9aY/s320/P3210007.JPG" width="320" /></span></a></div><span style="font-size: large;"><br />Le parole e le pietre sono i fondamenti immateriali e materici su cui si fonda un paese che nel nome contiene il suo destino e la sua origine, ma soprattutto la sua contraddizione: perché un casale può essere vecchio solo dopo molto tempo e non può rimanere per sempre un semplice casale. Invece Casalvecchio sembra essere nato proprio di antica data e in natura di casale immutabile, come cristallizzato. O incantato. Anche quando, in età bizantina, fu chiamato <i>Palachoriòn</i>, indicava ugualmente un vecchio casale - <i>chorion </i>designando proprio il villaggio bizantino - come se altro non potesse essere che un antico borgo, quasi per effetto di un sortilegio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Nemmeno andando ancora indietro nel tempo muta l’accezione di piccolo luogo, incontrandosi durante la dominazione araba il toponimo di <i>Calatabiet</i>: che potrebbe intendere un castello (<i>kaalat</i>) proprietà di un signore chiamato ‘al Biet - così come Calatabiano (che dista una trentina di chilometri) sta per castello di ‘al Bian.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il nome<i> Calatabiet</i>, dato a Casale Vetus da Vito Amico nella sua enciclopedia del 1757, compare sul presupposto che la chiesa di San Onofrio sia la stessa citata nel privilegio che il vescovo di Messina Ugone concesse a quella non altrimenti precisata di <i>Calatabiet</i>. Un presupposto appunto: quindi mai dimostrato. Ma accolto come fondato dai moderni, secondo la determinazione dello storico casalvetino Puzzolo Sigillo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">E sia: anche se è molto probabile, a rigore di logica, che la nascita del casale debba essere ben più remota. Per due buone ragioni: non potendosi nel quattordicesimo secolo, quando appare in atti ufficiali la denominazione di <i>Palachoriòn</i>, essere definito già vecchio un casale sorto circa 400 anni prima, al tempo in cui Vito Amico fa risalire <i>Calatabiet</i>, e soprattutto non potendo il casale essere rimasto nel 1300 ancora tale dal momento che vanta una nota chiesa di Sant’Onofrio. Cosicché <i>Palachoriòn </i>risale certamente ancora più indietro nel tempo, all’epoca di <i>Pentefur</i>, com’era chiamava originariamente la contigua Savoca, quindi ai primi secoli dopo Cristo, se non ne abbia addirittura condiviso i primordiali insediamenti in età preistorica. Ma, a volere convalidare i natali arabi (legittimando così Calatabiet nel <i>kalaat </i>di ‘al Biet: che è il più remoto riferimento pseudo storico) occorre allora chiedersi chi fu ‘al Biet.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma forse la domanda, a volere temperare il rigore della storia con la levità della leggenda, è un’altra: chi sarebbe stato? La risposta è proprio in una leggenda, che tuttavia richiama un dato concreto. E questo dato concreto è costituito da una pietra che sarebbe stata la prima di Casalvecchio, quella fondativa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvkZEr11MbN2USkTKL35nVqgcfscRBy2azLc9jHkFBZwzK9LfBvKPGWz0eVJWFwwAATs6tH8shL1OdeBI3VPBlUlaxnhVINajKUylkWxD3SpqFt4KbjqHKofYo8PoQXW_HlXtdKDMpJuvyFIGOB_k5uqbDAVAWYQcli_SVIPJLi6XyynxhywG29l2qr8Q/s1920/vetrata.jpg" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="1080" data-original-width="1920" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvkZEr11MbN2USkTKL35nVqgcfscRBy2azLc9jHkFBZwzK9LfBvKPGWz0eVJWFwwAATs6tH8shL1OdeBI3VPBlUlaxnhVINajKUylkWxD3SpqFt4KbjqHKofYo8PoQXW_HlXtdKDMpJuvyFIGOB_k5uqbDAVAWYQcli_SVIPJLi6XyynxhywG29l2qr8Q/w400-h225/vetrata.jpg" width="400" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">Una vetrata della chiesa madre</span></td></tr></tbody></table><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Si narra dunque che un leggendario cavaliere, in questo caso di stirpe araba, arrivato a metà esatta del monte Sant’Elia, pose a terra un masso semicircolare o forse rotondo e come in un rito ripose nel suo incavo un pugnale tempestato di diamanti o, secondo altri, una grossa pietra preziosa, dopodiché vi eresse sopra un bastione, ancora oggi visibile, ed edificò il suo <i>kaalat</i>. E ciò l’anonimo ecista fece, continua la leggenda, in segno di augurio, lasciando in eredità un tesoro nascosto: il primo che in Sicilia non presagisse una maledizione e non mascherasse una <i>truvatura</i>, rappresentando piuttosto un talismano votato al benessere di tutti i futuri abitanti. La leggenda non lo dice, ma è plausibile che anche quando dovesse venire giù l’intero paese, la colonna di arenaria rimarrà in piedi a custodire per sempre la prima pietra e il suo prezioso segreto.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOSm42NQyAuwGm7TIDPbyYdHme6OEoZIefe1TwP3c-EVYMbhhfotrrbg0cxtyF2JAfp2P4WUggWcJ5yX01LUstlVRt0uFuObiMvsD4oefH-kFjP1d4mGKFHO8oj5IIBtDEJKR6RKKxFuwXWS3V6chyAp1j-c0eIdjMp9W2Vvym7YnfuoZaIrPptDUu8Sw/s2816/P3210043.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="2112" data-original-width="2816" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOSm42NQyAuwGm7TIDPbyYdHme6OEoZIefe1TwP3c-EVYMbhhfotrrbg0cxtyF2JAfp2P4WUggWcJ5yX01LUstlVRt0uFuObiMvsD4oefH-kFjP1d4mGKFHO8oj5IIBtDEJKR6RKKxFuwXWS3V6chyAp1j-c0eIdjMp9W2Vvym7YnfuoZaIrPptDUu8Sw/w400-h300/P3210043.JPG" width="400" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">Il sasso rotondo della leggenda</span></td></tr></tbody></table><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><span style="font-size: large;">Ma chi fu il misterioso cavaliere, nobile e ricco, che, decretando al borgo nascente i più augusti natali, non volle dargli un nome perché rimanesse un casale destinato a diventare presto vecchio e dunque eterno? E quale magia lo legò a questi paesaggi così fondi e evocativi? Quale <i>malìa</i> lo trattenne nel suo viaggio attraverso le montagne al punto da lasciare un segno propiziatorio così oscuro e divinatorio? Domande che è bello lasciare a rimbalzare da un secolo all’altro, finché la leggenda sarà tramandata e le risposte adombreranno nell’arcaico progenitore un re o un eroe. O magari perché no una divinità. Sia pure orientale.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Casalvecchio è infatti un paese chiamato Siculo che ha però scaturigini levantine. Agli inizi del secondo millennio, scacciato da tutta la Sicilia l’elemento islamico e reintrodotta la fede cristiana, nella valle dell’Agrò arriva dalla Terrasanta una comunità di monaci basiliani che si insediano nella vecchia abbazia dei santi Pietro e Paolo. Seguendo la regola di San Basilio, che predica la presenza tra la gente anziché tra flora e fauna, questi monaci amano il cenobio invece dell’eremo, per cui officiano anche nella chiesa dell’Annunziata e si fanno conoscere ai casalvetini. In conseguenza di ciò non portano in paese solo il modello di vita basiliano ma anche un santo eremita del quinto secolo vissuto nel deserto egiziano e molto venerato nelle terre copte, Santo Onofrio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il legame tra Santo Onofrio e San Basilio è testimoniato da una tela custodita per secoli nella chiesa dell’Annunziata, poi trafugata nottetempo, dove i due santi sono raffigurati insieme da un artista della scuola casalvetina del Seicento.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il culto del santo basiliano si afferma velocemente a scapito di un altro eremita anch’egli santo il quale, a differenza di Onofrio, sarebbe realmente vissuto sul monte che oggi prende il suo nome e a metà costa del quale sorge Casalvecchio. Si tratta di Sant’Elia: quello detto Juniore, nativo di Enna, vissuto in Oriente e segnalato anche in Calabria, oppure quello chiamato Speleota, originario di Reggio Calabria.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Non si sa chi dei due fosse riparato sul Sant’Elia, perché entrambi vissero nel nono secolo, dimorarono in Egitto, furono presenti nella zona taorminese duecento anni prima dell’insediamento basiliano e furono di stanza in Calabria. Ad ogni modo, grazie ai sacerdoti di San Basilio, pur non essendo mai stato a Casalvecchio, Sant’Onofrio ha finito per sovrastare Sant’Elia, che invece nel Casalvetino non solo ci sarebbe stato davvero ma forse ci sarebbe pure morto: tanto che studiosi calabresi hanno compiuto un sopralluogo nella chiesetta sulla vetta del Sant’Elia, oggi divenuta una casa di campagna, alla ricerca insieme con le prove della presenza del santo addirittura delle sue ossa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Senonché, per gli strani intrecci della storia e della leggenda (dove la storia è costituita dal cenobio basiliano e la leggenda dall’anacoretica di Onofrio ed Elia) Sant’Elia e San Basilio non hanno mai goduto di alcun culto particolare a Casalvecchio mentre Santo Onofrio, che tutto deve ai basiliani e al loro intercessore, vanta una devozione che si esprime in una grande festa di sette giorni e in una numerosa galleria di icone, statue, cappelle, edicole votive, altari, murales, santini ed effigie varie che punteggiano il paese, oltre che in una venerazione che nei secoli non si è mai allentata.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Tutto merito dei misteriosissimi monaci basiliani, apparsi d’improvviso nell’Agrò e poi scomparsi di colpo. Ma ne sono rimaste tracce consolidate ed evidenti. Che portano ai celebri Cavalieri di Malta. Vediamo come e perché.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji5NjpT6gGZ4RGsoJKWU1NOn4DgFvhC54_JSvMYnVDwI5iyt7IhMH7IwsP1dry8-kHW_5dQAIz24QOsQSl5ON6OkD3iU5ISMel-2ZNP4JSU4x7loQKauNi4RlZF4hMnkY6f368CEDmERMQW72TiooGB_FQXpdHGbg5qUNAyuKiK45d3F_DJQTZ3ZFiKAY/s2816/P4010056.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="2816" data-original-width="2112" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji5NjpT6gGZ4RGsoJKWU1NOn4DgFvhC54_JSvMYnVDwI5iyt7IhMH7IwsP1dry8-kHW_5dQAIz24QOsQSl5ON6OkD3iU5ISMel-2ZNP4JSU4x7loQKauNi4RlZF4hMnkY6f368CEDmERMQW72TiooGB_FQXpdHGbg5qUNAyuKiK45d3F_DJQTZ3ZFiKAY/w300-h400/P4010056.JPG" width="300" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">Portone secondario dell'Annunziata</span></td></tr></tbody></table><span style="font-size: large;"><br /></span><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Volte e portali di case private, fra cui uno stemma all’interno dell’Annunziata, recano la croce dei Cavalieri di Malta, segno che i templari sono passati da Casalvecchio quando i viaggi via terra evitavano la riviera troppo esposta a ogni tipo di incursione. Più che di un passaggio, deve essersi trattato però di una sosta, anzi di una permanenza: fatto però questo da doversi escludere, non ricorrendo alcuna ragione perché i crociati si trattenessero sul Sant’Elia e in un casale senz’altro tagliato fuori: tanto più che nella vicina e, a quel tempo, più importante Savoca non si segnalano altrettante testimonianze. Di chi è opera allora la serie di segni templari che costellano Casalvecchio? Certamente della presenza dei basiliani.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNsviFeaBH2OfKFIDIS7GisU1UWvLt1Y8qFdSDOryxPZTJOfrSzTe0Zy7WOO9EVGflyURNw3t0vFiOj23z_FJves7hFlIHzGHhXrjW531Y8D7j9w8BoTFkhH3bRshJqmHJoBJsoDfZVAfsWl7IhUUyklkElc4lr0DRU_roBH8dxlJLIQ8Mdztqi8lCNM4/s2210/P3290045-bis.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="2210" data-original-width="1753" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNsviFeaBH2OfKFIDIS7GisU1UWvLt1Y8qFdSDOryxPZTJOfrSzTe0Zy7WOO9EVGflyURNw3t0vFiOj23z_FJves7hFlIHzGHhXrjW531Y8D7j9w8BoTFkhH3bRshJqmHJoBJsoDfZVAfsWl7IhUUyklkElc4lr0DRU_roBH8dxlJLIQ8Mdztqi8lCNM4/w318-h400/P3290045-bis.jpg" width="318" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La Madonna Odigitria a San Nicolò</td></tr></tbody></table><br />La prova è in un enigmatico dipinto del Seicento conservato nella chiesa di San Nicolò. E’ intitolato alla Madonna dell’Itria e raffigura la Madonna seduta che tiene in braccio il Bambino, attorniata da due figure in bianco e da due monaci basiliani (riconoscibili dalla barba lunga e dal saio scuro) le cui proporzioni sono in contrasto con le prime, come se fossero state aggiunte dopo nello spazio che probabilmente occupava la veduta di un paese. Alla base della tela, dipinti alle estremità, compaiono un cane e un animale, forse un cinghiale, in un atteggiamento grottesco e intenti a guardarsi minacciosi. Una presenza oscura quanto chiarissimo è invece il significato del quadro, commissionato senz’altro dai basiliani.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La Madonna dell’Itria è il nome che in Sicilia prende l’Odigitria, colei che nel Bambino indica la via della salvezza. Di particolare valore simbolico è la Madonna Odigitria cosiddetta in maestà, cioè seduta su un trono, com’è quella di San Nicolò: sta a indicare un legame ancora più stretto con quanti per l’Odigitria avevano una speciale passione: i cavalieri templari. I quali, per essere i guardiani del sacro sepolcro di Gerusalemme, erano visti dunque come orientali, al pari dei monaci basiliani che nutrivano evidentemente per loro un trasporto particolare, frutto forse della loro originale e innovativa missione di stare nel mondo anziché lontano da esso. Ma non rifuggivano certo la spiritualità se la chiesa dei santi Pietro e Paolo fu fatta ricostruire da Re Ruggero in modo che il sole al tramonto illuminasse dal Sant’Elia l’altare e inducesse in inverno i monaci a celebrare il vespero in un rito tipicamente orientaleggiante.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il passaggio di Re Ruggero da Casalvecchio sarebbe testimoniato anche dal toponimo di “Acqua ruggia” conservato da una fontana alla quale il regale visitatore si sarebbe dissetato. Poco più in basso, fuori paese, un altro toponimo, “Sèlenu”, a indicare un luogo dove sorgeva una fonte che generava uno stagno, evoca un’altra epoca, molto più remota: quella della civiltà greca. A Sèlenu si sarebbero infatti rifugiati profughi di Naxos dopo l’attacco alla prima colonia greca sferrato dai Siracusani: profughi piuttosto speciali se è vero che Sèlenu sta per Seléne, la dea lunare eponime di Ecuba, la terribile madre ctonia della negromanzia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La magia dopotutto non è estranea a Casalvecchio giacché di un sortilegio è frutto la sua fondazione. Il nobile cavaliere che nella prima pietra nascose un prezioso tesoro, ad avvalorare un’origine cristiana e un passato molto meno remoto, può essere stato proprio Re Ruggero, che nella baronia di Savoca appena istituita forse pensò di insediare un ridotto, casa o palazzo, da erigere a un’altitudine poco maggiore.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma la venuta dell’Altavilla è circonfusa nella leggenda. Nulla però impedisce di lasciare che produca per intero i suoi effetti, ragione per cui può apparire stimolante l’ipotesi, molto suggestiva, che il fantomatico cavaliere ecista sia stato non il primo re di Sicilia ma il patrono di Casalvecchio Santo Onofrio: che la tradizione accredita come figlio di re e in viaggio in Sicilia, e che è raffigurato in eleganti e raffinate vesti in una delle vetrate della chiesa madre: fatto questo che ricomporrebbe l’ordine naturale delle cose e farebbe del nobile Onofrio non solo il padre di Casalvecchio ma anche il suo patrono legittimo contro le pretese sopite e soffocate di Sant’Elia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">C’è però davvero una magia che aleggia sul paese. O forse è meglio parlare di incantesimo. Inspiegabile: più il tempo passa, determinandone il deterioramento e depauperandolo di abitanti, e più Casalvecchio, onusto di secoli e oggi visibilmente vecchio - finalmente, verrebbe da dire - si conserva integro trasformandosi in uno scrigno che conserva tradizioni perdute, ricette, storie minime, proverbi e canti, nonché documenti rari, oggetti unici e preziosi: come per volontà di antichi monaci decisi a salvare il passato mettendolo al sicuro nella memoria comune e contro il principio per cui ogni tradizione è tanto più viva quanto più la popolazione è numerosa. Il tempo che passa è perciò anche il tempo che resta, per cui i casalvetini sono oggi i guardiani del sacro tesoro del tempo. Che è l’anima del paese, il suo segreto.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLsEGoVp-wHAA292VaL2iu3FecsP3Qgund24MKXVrybJDwyi11oFMi5WhXSTAJdORVJUk9c0XlcKJ99H2jhXTWXyZOiIh0IocQSZPdogOKzfsIPGfl-lbfY52k0SI1hJej6U4hupY03QvKESNqaysY2VTVagOOlQtVqnHU4MxI9cMpSjU7XrUqTdZs5YE/s2816/P3290037.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="2112" data-original-width="2816" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLsEGoVp-wHAA292VaL2iu3FecsP3Qgund24MKXVrybJDwyi11oFMi5WhXSTAJdORVJUk9c0XlcKJ99H2jhXTWXyZOiIh0IocQSZPdogOKzfsIPGfl-lbfY52k0SI1hJej6U4hupY03QvKESNqaysY2VTVagOOlQtVqnHU4MxI9cMpSjU7XrUqTdZs5YE/w400-h300/P3290037.JPG" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Copia della "Divina Commedia"</td></tr></tbody></table><br />Non può essere per caso infatti che in un paese di contadini siano stati ritrovati una <i>Divina Commedia</i> del Cinquecento, una prima edizione dei <i>Delitti e delle pene </i>di Beccaria, tele delle scuole di Antonello da Messina e Caravaggio, un messale del Settecento, una ricca varietà di articoli religiosi e di rari e ornatissimi paramenti sacerdotali. Né è un caso che si siano preservati, anche solo ad uso ormai di qualche centinaio di fedeli, riti religiosi antichissimi e immutati, celebrati al pari di sacre e misteriche cerimonie mantiche: come se la missione tramandata di generazione in generazione non sia stata che di salvaguardare a tutti i costi le tradizioni locali, il grande libro sacro dell’identità culturale, pur al costo - per contrappasso - di interventi urbanistici che hanno trasfigurato il volto del paese nel frustante tentativo di rendere nuovo un luogo che è nato invece per restare perennemente vecchio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOjKwtpH5vrpJnIDA3pXabU3NyF1il-vOuJxP8VbHrSt-FqRKeT6XhH_NIwEhk7q-LNdSS6nRi3b2mr1zkzEYk5iKecJyFBxx1OecqdLaYzO0YK1Dab4MJWJe1BWDLrCfJscb6BfQBs3fssBuGtfkvUqcob4Dq2WXsvD1NSqQcl-91LlFZp1Io__NsBsM/s1360/81Oxp3+hAVL._SL1360_.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1360" data-original-width="850" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOjKwtpH5vrpJnIDA3pXabU3NyF1il-vOuJxP8VbHrSt-FqRKeT6XhH_NIwEhk7q-LNdSS6nRi3b2mr1zkzEYk5iKecJyFBxx1OecqdLaYzO0YK1Dab4MJWJe1BWDLrCfJscb6BfQBs3fssBuGtfkvUqcob4Dq2WXsvD1NSqQcl-91LlFZp1Io__NsBsM/s320/81Oxp3+hAVL._SL1360_.jpg" width="200" /></a></div>Un caso di conservazione degli antichi retaggi ha davvero dello straordinario, forse del miracoloso. Riguarda la fiaba “Peppe lo scaltro”, una delle tante storie popolari raccolte nel Messinese da una studiosa svizzera dell’Ottocento, Laura Gonzenbach, che la riteneva propria del repertorio peloritano e che invece rimanda a un racconto addirittura babilonese. Secondo gli studiosi la fiaba è morta da tempo ed è ormai sconosciuta, perduta dalla memoria storica e divenuta irrecuperabile. E invece sopravvive ancora. Proprio a Casalvecchio, dove c’è ancora, nella popolazione più anziana, chi la conosce benissimo, sia pure con leggere varianti rispetto al testo mesopotamico e a quello rintracciato dalla Gonzenbach.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Un vero mistero come il tempo non sia riuscito a eliminare un così labile racconto orale. Segno che la tradizione è fortissima se non incrollabile. Una tradizione che all’elemento religioso affianca, alla stessa stregua e senza alcun intento dissacratorio, quello pagano. La festa di Sant’Onofrio ne è la rappresentazione più vivida. Al punto che il patrono vanta due statue: una del Cinquecento a mezzo busto di legno, e l’altra del Settecento in argento e a tutta figura.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La seconda fu commissionata dalla popolazione dopo essere scampata alla peste del 1743. Portata a valle, la statua lignea lasciata a fare da barriera all’epidemia compì il prodigio sicché Casalvecchio fu il solo paese dell’Agrò a non avere avuto un solo caso mortale di peste. In segno di ringraziamento fu realizzata una nuova statua del santo, più grande e bella, ma dello stesso tipo: sguardo ieratico, capelli lunghi a mo’ di tunica, mani giunte in preghiera. Per rendersi grati al patrono, i casalvetini istituirono sulla cima di Sant’Elia, dov’era l’antica chiesa di San Cosimo, poi ricostruita e intitolata ai santi medici Cosma e Damiano, un lazzaretto aperto a tutti gli appestati dell’Agrò, senza alcun timore di venire contagiati, essendo stati resi immuni dal loro protettore. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrwbNRnLFPpxN4b7i1B63ti7Wsc4MZGC29xZvV4CWJ0y3hf-meQbXsJodr2_SgooBdoOH_mEiBfSpnXpWdx9HQx9IsWtNI7kmKJ684T8F0duunKJWQ_05wSgW-fvvakejBwcZbLcmhWc72xIbhUQS9n4cLHXDfuQ4TDsHNG8kETGZzD28V4rq-ge_lvDM/s1920/pietra.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="1080" data-original-width="1920" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrwbNRnLFPpxN4b7i1B63ti7Wsc4MZGC29xZvV4CWJ0y3hf-meQbXsJodr2_SgooBdoOH_mEiBfSpnXpWdx9HQx9IsWtNI7kmKJ684T8F0duunKJWQ_05wSgW-fvvakejBwcZbLcmhWc72xIbhUQS9n4cLHXDfuQ4TDsHNG8kETGZzD28V4rq-ge_lvDM/w400-h225/pietra.jpg" width="400" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">La pietra con l'incisione del 1743</span></td></tr></tbody></table><span style="font-size: large;"><br />Su una pietra oggi sepolta nell’erba sono state trovate incise una croce e la data del 1743, a ricordo del trauma. La peste in realtà costituì il male più temibile se in una campana del campanile della matrice appare incisa l’implorazione “Liberaci Signore dalla peste, dalla fame e dalla guerra”.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Per rafforzare la protezione del patrono e la propria devozione, i fedeli vollero allora che la nuova statua argentea non mandasse in soffitta quella lignea ma si aggiungesse ad essa: per questo le due statue sono da allora oggetto entrambe dello stesso culto. Quasi: perché quella antica è esposta nell’abside della matrice mentre quella nuova è rinchiusa nel museo parrocchiale. Ma è questa che viene condotta in processione a chiusura dei festeggiamenti. Senonché si è pensato di fare uscire i due fercoli contemporaneamente nel senso che il mezzobusto viene lasciato a “Pestarriu”, il luogo dove la peste si fermò e dove oggi sorge una cappella, ed è poi riportato a spalla in paese perché vada incontro al suo doppio d’argento. Un incontro di identificazione che ne ricorda un altro: quello della pace e della fratellanza tra le confraternite dell’Annunziata e di San Teodoro, momento che si tinge di spirito laico e popolare frammisto al culto più partecipato.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La cerimonia va scemando ma resiste ancora e viene celebrata negli anni in cui è possibile organizzarla provvedendo in largo anticipo alla preparazione di particolari foglie,<i> 'i barbaschi</i>, che vengono portate in processione e richiedono un lungo tempo di lavorazione. La cerimonia della pace, con il bacio degli stendardi, ricorda la fine di un acceso contrasto divampato nel Settecento tra le confraternite per una questione di precedenza nelle processioni. Col tempo la pace fu poi concepita come motivo di riconciliazione tra due persone non della stessa confraternita che essendo in lite, venissero invitate, una all’insaputa dell’altra, a inalberare gli stendardi ed essere così costrette a baciarsi e fare pace.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Oggi l’affiatamento è tale che le confraternite si sono divise anche i turni: negli anni pari i fedeli si riuniscono la Domenica delle palme all’Annunziata, in quelli dispari si ritrovano a San Teodoro. Così avviene anche per le processioni dell’Addolorata, che è all’Annunziata, e dell’Ecce Homo che staziona nella chiesa di San Nicolò, in sostituzione di quella inagibile di San Teodoro: negli anni dispari è l’Ecce Homo ad uscire il primo giorno, mentre l’indomani spetta all’Addolorata.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXxn8mHAwfYY40B2unlk7My08qFQlQvAiUAsyzby35UzfxFl-Bs-I8hPkGEaXTnzWb6fBqZa78qJjuIXMPJyCYYbjlnUg3yCiaXfuPawM2dEoTid0fq_oRNva9-8gF6_Bkcnu-WBaTSYXgDfOoogBbPvhVoCwaWY6SPyzhO17pRmhXizm5YVd3_9Jvps8/s600/sciccareddu.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="399" data-original-width="600" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXxn8mHAwfYY40B2unlk7My08qFQlQvAiUAsyzby35UzfxFl-Bs-I8hPkGEaXTnzWb6fBqZa78qJjuIXMPJyCYYbjlnUg3yCiaXfuPawM2dEoTid0fq_oRNva9-8gF6_Bkcnu-WBaTSYXgDfOoogBbPvhVoCwaWY6SPyzhO17pRmhXizm5YVd3_9Jvps8/w400-h266/sciccareddu.jpg" width="400" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">'U sciccareddu</span></td></tr></tbody></table><span style="font-size: large;"><br />Il progressivo spopolamento ha scolorito la tradizionale rappacificazione tra compaesani in lite, ma non ha intaccato le oltranze pagane legate ai festeggiamenti patronali. Sagre gastronomiche e giochi di strada fanno da contorno ai due momenti più attesi: <i>‘u sciccareddu </i>e <i>‘u camiddu</i>. Il primo intende celebrare il compagno più fedele del contadino casalvetino e proporre un caratteristico carosello (da decenni emulato in paesi vicini come Limina, Rina di Savoca e Gallodoro) di un asinello in legno profilato di fiaccole che si accendono in successione. Un uomo vestito di rosso e appositamente protetto dai lanci incendiari corre con lo scafo addosso seminando lo scompiglio tra la folla divertita. Ma più che inneggiare all’asino, il rituale profano irride forse ad antichi signori quali furono gli sceicchi arabi.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhAoKmCDfQ_CdEpkwMOCnkC0003IhSL3eOn6eCviLoIDEcb3swHFJulO6hHz5UIrpy2B12kTsw_mPQlhqfE_MJgceF28aYwP5qYdpCkqT2OVnO6D-QEMO3foI1p-z0LtvatrdXO2J4oncullT80k0Dftxet_XCcbLQ4Pr18HZwn9dDNjJ-23O9LAKpMeTU/s800/Casalvecchio-Cammiddu1.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-size: large;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="800" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhAoKmCDfQ_CdEpkwMOCnkC0003IhSL3eOn6eCviLoIDEcb3swHFJulO6hHz5UIrpy2B12kTsw_mPQlhqfE_MJgceF28aYwP5qYdpCkqT2OVnO6D-QEMO3foI1p-z0LtvatrdXO2J4oncullT80k0Dftxet_XCcbLQ4Pr18HZwn9dDNjJ-23O9LAKpMeTU/w400-h300/Casalvecchio-Cammiddu1.jpg" width="400" /></span></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: medium;">'U cammiddu</span></td></tr></tbody></table><span style="font-size: large;"><br />In questa chiave, lo stesso tono di sberleffo si ritrova nella rappresentazione del<i> camiddu </i>che precede per le stesse vie del paese la solenne processione del patrono, una canzonatura all’indirizzo della prospiciente Savoca il cui bivertice orografico appare proprio in forma di doppia gobba di cammello. Due uomini nascosti fino ai piedi sostengono un imballo rivestito di rosso e culminante in un collo di cammello la cui testa è azionata da un filo che muove anche la bocca. Un cammelliere, munito di un bastone, guida <i>‘u camiddu</i> assestandogli, al suono di un rutilante tamburo, colpi che sono di punizione e castigo, essendo il cammello allegoria di Savoca e il cammelliere simbolo di Casalvecchio, il paese diventato autonomo e passato da sottomesso a soprastante.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma il cammello è anche uno degli attributi di Sant’Onofrio, anacoreta del deserto, per cui potrebbe sottendere un significato meno profano e più aderente al sentimento devozionale, nulla o poco la metafora riguardando Savoca. L’effetto che il curioso sembiante sortisce al suo apparire nelle viuzze è comunque di fare scappare i bambini, così come non diversamente <i>‘u sciccareddu </i>spariglia la gente in un clima che, contrariamente al senso ascetico di raccoglimento che il patrono ispira, è di tripudio e di euforia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsqsfQM8y3l0-ngW44vYZUz_neawfev6G4TTirzYUU-23-KMykBzMdqvs6YUTmQuuS2lfTBWlIvFHhw4RvofdeLvWmA2XxSdcJkOEAa716ThP0-4dLKfqEmGpJXLlUlcp4NbgvzN8oy--G8dNQhFFbaqxgjqPeZaA55SQ1Qn1hutxrMeQ_wrkE2-WHTrw/s800/Casalvecchio-cerca.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="800" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsqsfQM8y3l0-ngW44vYZUz_neawfev6G4TTirzYUU-23-KMykBzMdqvs6YUTmQuuS2lfTBWlIvFHhw4RvofdeLvWmA2XxSdcJkOEAa716ThP0-4dLKfqEmGpJXLlUlcp4NbgvzN8oy--G8dNQhFFbaqxgjqPeZaA55SQ1Qn1hutxrMeQ_wrkE2-WHTrw/w400-h300/Casalvecchio-cerca.jpg" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">'A cerca della Settimana santa</td></tr></tbody></table><br />Tutto il contrario dei riti della Settimana Santa che costituiscono un appuntamento devozionale più sentito del Natale e di intensità pari alla festa del patrono. Ricche e suggestive le iniziative in calendario. Spiccano, richiamando ogni anno un gran numero di forestieri, <i>‘a cerca </i>e <i>‘i varetti</i> del Venerdì Santo. La prima è un originale e antico canovaccio, cantato in un misto di siciliano, italiano e latino, che la notte del giovedì simboleggia la ricerca per le vie del paese di Dio da parte di personaggi avvolti dentro lunghe tuniche bianche in atteggiamento penitenziale chiamati <i>babbaluci</i> perché come le lumache nascondono la testa. Portano una croce e, impetrando a gran voce il perdono di Cristo tradito e destinato alla croce, rumoreggiano con le catene e le troccole, speciali congegni lo sbattere delle cui palette di legno produce un suono sinistro, quasi medievale e di significato espiatorio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Le varette la sera di venerdì formano una processione composta dai più importanti gruppi statuari delle chiese casalvetine e sfilano illuminate in un’aria mesta, curiale, tra ali di fedeli che tengono lampade votive accese e colorano la notte di luminescenze ed abbagli così gravidi di spiritualità da fare di ogni scorcio del paese una manifestazione del divino o il barlume di una città sacra.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Sagre e riti religiosi, rappresentazioni profane e liturgie sacre sono sempre musicati dalla banda comunale, fondata all’indomani della partenza da Casalvecchio di un centinaio di volontari garibaldini salutati da una fanfara e chiamati “i montanari di Casalvecchio”. Da allora la banda “Città di Casalvecchio Siculo” ha scandito ogni momento pubblico della vita paesana: accompagnando anche i pellegrini che a piedi, in viaggi di due o tre giorni, si recavano al santuario della Madonna di Tindari o alle più vicine Madonne dell’Aiuto e del Carmelo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Tanto fervore religioso non si è disperso, ma solo ridotto per via del calo demografico. Oggi i pellegrinaggi sono iniziativa di altri Comuni vicini e i casalvetini vi si aggregano, seppure non nel numero di un tempo. Tuttavia la banda musicale è rimasta a fare, puntuale e ufficiale, da colonna sonora alla vita del paese. Il cui simbolo principale è la chiesa madre.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Due sono gli ingressi principali, uno rivolto ad oriente e l’altro verso il mare, nelle direzioni che uniscono la scaturigine religiosa e l’aspirazione sociale. Al sobrio aspetto esterno in barocco siciliano fa da contrappunto la ricchezza dell’interno a una sola navata, trapunta di dipinti, altari, stucchi e affreschi di vertiginosa bellezza, in gran parte opera di un genio casalvetino di adozione, Tore Calabrò, che vi ha lavorato a metà del secolo scorso. Ma ricorrono anche particolari che mascherano motivi curiosamente irrisolti se non anche esoterici.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il tetto a cassettoni di pregevole fattura è intarsiato di cariatidi delle quali due, una di fronte all’altra, raffigurano una donna e un uomo con i piedi di caprone, implicazione decisamente pagana ricordando il dio Pan, protettore dei pastori e dei campi, qui trasfigurato in un improbabile simbolo cristiano. Una terza cariatide più discosta incombe dall’alto in figura di donna con la bocca spalancata nell’atteggiamento di chi urla. O di chi è indemoniato.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Un altro elemento di difficile simbologia è il cerchio che si trova disegnato a terra al fondo della navata. Si tratta di una composizione dell’antico pavimento di pietra di Taormina che richiama il nodo di Salomone ma che sarebbe opera di maestri arabi, a conferma che questo tempio può essere stato in età saracena una moschea o in seguito un luogo di culto ebraico. Si è scoperto che la sua circonferenza è identica a quella della campana grande del campanile, coincidenza questa che rimane senza interpretazione.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8XEN3uLxitu2PH5i7IWzIK51MNC0QlBafSPciQf462sWwS3NQfAy5wKLp_NpveAdzut0hXGtrbSFhCJ8EWGrFqCKESrr2tpk7yilf2XgE7YhHoA9bwK_ahDQdAdYBovsmNc949UGEnxUfKiz1cCkisZeGym42_Ap6U7fJ4nTMs8lOl0ZncF755gO6XzY/s2816/P3290009.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="2816" data-original-width="2112" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8XEN3uLxitu2PH5i7IWzIK51MNC0QlBafSPciQf462sWwS3NQfAy5wKLp_NpveAdzut0hXGtrbSFhCJ8EWGrFqCKESrr2tpk7yilf2XgE7YhHoA9bwK_ahDQdAdYBovsmNc949UGEnxUfKiz1cCkisZeGym42_Ap6U7fJ4nTMs8lOl0ZncF755gO6XzY/w300-h400/P3290009.JPG" width="300" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il dipinto del Crocifisso alla Matrice</td></tr></tbody></table><br />Una sorpresa è il paesaggio in un angolo della tela del più realistico Crocifisso che sia immaginabile. Si scorge una torre e c’è chi non esclude che possa trattarsi dell’alto campanile di San Teodoro, improvvisamente crollato e perduto in un’epoca imprecisabile: dimostrerebbe che l’opera è di fattura squisitamente locale e quindi frutto di un’arte che aveva raggiunto punte estetiche ammirevoli.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ne è testimonianza l’attiguo museo parrocchiale allestito sotto la canonica e sopra le tremende carceri borboniche dove i detenuti, in un paese mite come Casalvecchio, mosso solo da ideali risorgimentali e unitari, non potevano che essere prigionieri politici. Erano tenuti rinchiusi in celle anguste, fredde, umide e tali da costringere a stare solo seduti, fatto che impediva ogni accenno di ribellione e favoriva una facile morte.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il museo presenta un repertorio che vanta come pezzi unici la grande vara d’argento di Sant’Onofrio, una pianeta ricamatissima e di inestimabile valore, un dipinto di San Nicolò con le mani colorate inopinatamente di rosso, che tuttavia può essere di guanti cardinalizi, un’<i>Ascensione</i> di fattura caravaggesca nella quale pare abbia messo mano, nelle due figure in basso, lo stesso Merisi mentre era diretto a Messina, nonché svariati arredi ecclesiastici. Lo stesso museo ospita strumenti della civiltà contadina e reperti della vita civile a formare con la sfera celeste un connubio tra terra e cielo, natura e cultura, che è forse l’anima di Casalvecchio.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgABlrogKzMhl69BQWQslddDVVz88DYoqpWJF_fcLH1nMmBzR0Oa4WXyyUf4-gC8aL_0Fcc_-XsGFxJY5ptIigQVVDvUfNz4w_FfFyv2Iv181-ZQ0NXLcn2B36CbgjSeuDrwWhSxeoflySccT25M9lMSgYkDXAZaFVJZsFn_wDKJTPY-nthFZs1glWd1eo/s2816/P3290006.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="2816" data-original-width="2112" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgABlrogKzMhl69BQWQslddDVVz88DYoqpWJF_fcLH1nMmBzR0Oa4WXyyUf4-gC8aL_0Fcc_-XsGFxJY5ptIigQVVDvUfNz4w_FfFyv2Iv181-ZQ0NXLcn2B36CbgjSeuDrwWhSxeoflySccT25M9lMSgYkDXAZaFVJZsFn_wDKJTPY-nthFZs1glWd1eo/w300-h400/P3290006.JPG" width="300" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La tela della Sacra famiglia</td></tr></tbody></table><br />Ma la maggiore sorpresa della matrice è il dipinto della Sacra famiglia sull’altare di San Giuseppe, opera secentesca di scuola casalvetina. Si vede Maria che, intenta a leggere un libro, rivolge uno sguardo di sufficienza al Bambino tenuto in braccio da un Giuseppe assente e dimesso. La Madonna è posta a un livello superiore e preponderante: condizione indebita per una donna se si pensa al periodo al quale la tela risale, ma epifanica quanto allo stato di importanza che la donna casalvetina avrebbe meritato a partire dal secolo successivo con la coltivazione del baco da seta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Casalvecchio è stato infatti il paese delle farfalle. A metà di ogni primavera, per quasi tre secoli, il cielo si colorava di screziature variopinte che volteggiavano minuscole insieme con le rondini sotto i balconi e - nell’azzurro turchese che confondeva all’orizzonte cielo e mare - prendeva le tinte della buona fortuna, quando ogni sole che tramontava dietro Roccafiorita annunciava un’alba di belle speranze e una notte di lucciole e cicale. Sembrava che il mondo delle filande e delle falene, grande quanto la profondità del panorama circostante, non dovesse finire mai più, con la sua gente operosa e felice. E la sua natura prospera e generosa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma non è stato così. Le farfalle sono sparite insieme con le cicale e le lucciole, la cui scomparsa da tutte le campagne italiane ha lasciato sgomento Pier Paolo Pasolini. Erano gli anni Cinquanta del secolo scorso e la storia millenaria di Casalvecchio Siculo, che aveva le lucciole, le cicale e soprattutto le farfalle, si preparava a cambiare aspetto ancora una volta: come facevano i bachi da seta, che passavano di muta in muta e, rinchiudendosi nei bozzoli, promettevano di tornare.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma nel volgere di un breve tempo ormai lontano le larve sono sparite da Casalvecchio, colpa della seta sintetica e dell’alto costo della manodopera conseguenza delle guerre mondiali. La loro mancanza ha immiserito i gelsi che non rinverdiscono più. E con le foglie di gelso anche le farfalle si sono eclissate lasciando un ricordo “straziante”, come Pasolini definiva la scomparsa delle lucciole.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Ma in un’enciclopedia del 1840 Casalvecchio, borgo del distretto di Castroreale, tra l’Agrò e la Savoca, era segnalato per l’esportazione di olio e appunto di seta. Il museo parrocchiale custodisce oggi reperti che sono cimeli di una cultura che ha fatto epoca. Casalvecchio riforniva di seta industrie del Nord come la Foppapedretti e lavorava la seta con una sapienza che ne faceva una fiera eccezione tra Messina e Catania.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Senza più la seta, anche la produzione dell’olio è però venuta meno: come se l’intero destino del paese fosse dipeso da quel verme pigro e multiforme che in primavera portava per tutta l’estate lo sconquasso in ogni casa le cui finestre aperte propagavano voci, suoni e odori, facendo sentire tutti più vicini e accomunati: abitanti, bachi, gelsi e farfalle. Come in una grande favola.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">A metà dell’Ottocento il paese vantava una popolazione di 3633 abitanti, che sarebbero saliti quasi a cinquemila negli anni Trenta, diventando il più popoloso della riviera. Casalvecchio era perciò un paese ricco, di famiglie in affari, di case munifiche e quindi in grado di privarsi di preziosa manodopera.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmiZg4C90y5VpvJP6vBIq_GccR1sF86GWFKcAhzeO8NtXcmsAdfmwNdxg48_ey8VC1Wou3IWF5WRTl4z7sZ41-SSkYY5sGqWhRJbBHOV54ezjPj5LPN3psjmt8rZXi7ORmdeeLoTUnyzrZD5nw8MR84_BD9EjuxrJp4PZR2adldzjdAcCTgHs1WZKjCA8/s2816/P3260053.JPG" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="2816" data-original-width="2112" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmiZg4C90y5VpvJP6vBIq_GccR1sF86GWFKcAhzeO8NtXcmsAdfmwNdxg48_ey8VC1Wou3IWF5WRTl4z7sZ41-SSkYY5sGqWhRJbBHOV54ezjPj5LPN3psjmt8rZXi7ORmdeeLoTUnyzrZD5nw8MR84_BD9EjuxrJp4PZR2adldzjdAcCTgHs1WZKjCA8/w300-h400/P3260053.JPG" width="300" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il monumento ai Caduti</td></tr></tbody></table><br />Cosicché il suo tributo all’unità d’Italia fu versato da cento volontari garibaldini e quello alla patria, nella prima e nella seconda guerra mondiale, dal sangue di oltre cento giovani soldati i cui nomi oggi campeggiano nella lapide di una piazza intitolata ai Caduti e coronata da un monumento che celebra l’elevazione morale dell’uomo e la perenzione della sua dignità.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Temperamenti arditi dunque i casalvetini. Ma ancor di più forse le casalvetine. Qui non è mai esistita la figura della casalinga. Qui le donne sono sempre state lavoratrici del tutto equiparate agli uomini, esperte tessitrici e abili contadine, oltre che sveglie contabili e pratiche negoziatrici. E riunendo a questo modo industria e agricoltura - i due grandi comparti alternativi nel pieno dell’età industriale - hanno elevato il baco ad artefice dell’emancipazione del paese e a suo segnatempo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Senza il baco che ha portato denaro sonante nelle case, la tradizionale devozione religiosa, così sentita quanto la storica vocazione politica, non si sarebbe infatti profusa nel prezioso repertorio sacro che il museo conserva come prova di un fasto che innanzitutto è sociale e civile. Il baco ha reso ricco il paese e il paese ha sempre ringraziato il cielo. In uno stemma borbonico il numero delle monete scolpite su un lato indica l’appartenenza a una terra di notevoli risorse.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">La crescita demografica era cominciata un secolo prima proprio con la seta. Nel 1713, secondo il <i>Lexicon topographicum </i>di Vito Amico, gli abitanti erano stati 1882, distribuiti in 500 case. Oggi 500 sono invece tutti gli abitanti, tolti i 400 compaesani disseminati nelle frazioni, 300 dei quali solo a Rimiti, la borgata più popolosa, quando una volta erano Misitano e Mitta, in un gioco di pieno e vuoto che è anch’esso un inganno della storia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Rimiti prende il nome dagli eremiti che hanno santificato questa terra, a riprova che essa fu dimora e teatro di spiriti solitari che hanno però lasciato tracce soprattutto nella coscienza comune. E’ forse questo lo spirito che assicura a Casalvecchio l’immortalità.</span></div><div style="font-size: x-large; text-align: justify;"><br /></div>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-90372662144576450322023-08-06T12:05:00.004+02:002023-08-08T14:37:53.004+02:00Un tramezzino come trama per Cassar Scalia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWuUtFDZMg8d2BlpFnZPDep_Mcj-8wpeOAhXb5CN9bidU6amD3JTqvCKfPy8pkLg4JLlxQrERLjiS84XvY3EYn6FLY7-GLJm0G2g29pI-VsoS2OwhQgujS68gRes78GXhyd1HLkyAd306x3gxqprpKB3U8ERGfnqrzv8ncOGzqcHQBC1RlVLKD99fMlKc/s2303/Cassar-Scalia-Cristina_-foto-di-Giliola-Chiste.webp" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="1535" data-original-width="2303" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWuUtFDZMg8d2BlpFnZPDep_Mcj-8wpeOAhXb5CN9bidU6amD3JTqvCKfPy8pkLg4JLlxQrERLjiS84XvY3EYn6FLY7-GLJm0G2g29pI-VsoS2OwhQgujS68gRes78GXhyd1HLkyAd306x3gxqprpKB3U8ERGfnqrzv8ncOGzqcHQBC1RlVLKD99fMlKc/w400-h266/Cassar-Scalia-Cristina_-foto-di-Giliola-Chiste.webp" width="400" /></a></div><p><span style="font-size: medium;"> Articolo già uscito su Reset</span></p><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">A chi piace Camilleri non può non piacere anche la siciliana Cristina Cassar Scalia che lo ha ricalcato doviziosamente come in una decalcomania: facendone una brutta copia, è vero, ma ottenendo il vantaggio dell’automobilista che si accoda a un’ambulanza. <span><a name='more'></a></span>Tant’è che i suoi romanzi vendono a man bassa e hanno un pubblico dichiaratamente camilleriano, anzi è proprio lo stesso: quello rimasto orfano e in cerca di eredi, che ama il <i>pastiche</i> linguistico, la battuta di spirito magari volgare (più efficace in una donna), la trama intricata ma facile da seguire, i personaggi macchiettistici e fortemente caratterizzati, i bozzetti di ambiente, i quadri dialogici da avanspettacolo.</div><div style="text-align: justify;">Cassar Scalia, oftalmologa che non si è servita delle sue conoscenze specialistiche per inventare un’eroina seriale che fosse un medico (come ha fatto Alessia Gazzola, sua <i>confrère</i> e conterranea, con Costanza Macallè), preferendo scimmiottare e saccheggiare il fortunato Montalbano mutuando dal suo mondo anche i personaggi di contorno, ha dato vita nel 2018 alla sua problematica vicequestora Vanina Guarrasi (cognome trapanese e non palermitano quale è lei) con <i>Sabbia nera</i>, romanzo farcito di termini in dialetto siciliano riportati rigorosamente in corsivo, come fossero barbarismi, fatto di scarsa concessione all’artificio della regressione e dunque al parlato mimetico, di una lingua sorvegliata e uno stile senza eccessive accensioni ironiche e punte espressionistiche, proprio com’era stato con i precedenti titoli Sperling & Kupfer <i>La seconda estate</i> e <i>Le stanze dello scirocco</i>.</div><div style="text-align: justify;">Come nel secondo titolo della serie poliziesca, <i>La logica della lampara </i>del 2019, la lezione di Camilleri è presente quanto alla formazione della squadra della sezione Reati contro la persona che Guarrasi dirige e alla costruzione della sua vita privata, dove sono presenti un’Angelina provetta cuoca che si chiama Bettina, un ristoratore di nome Nino che ricorda fin troppo il più noto Enzo, l’avversione verso il Pm Vassalli copiato su Tommaseo, i siparietti con il vice della Scientifica Manenti spiccicato Pasquano, la debolezza tutta montalbaniana per la buona tavola.</div><div style="text-align: justify;">Ma la svolta si ha quando Cassar Scalia scopre che può rifare Camilleri più che imitarlo, per modo che con <i>La salita dei saponari</i> del 2020, un anno dopo la morte dell’autore agrigentino, la sostituzione sulla scena assume il senso di nu avvicendamento che sa di usurpazione: la lingua diventa fortemente dialettale, così come i mezzi di espressione che si servono di termini, detti, circonlocuzioni e modi di dire siciliani integrati nel testo come elemento narrativo portante, alla Camilleri, senza tuttavia sostituire il dialetto borghese alla lingua madre; lo stile si tinge del colore della <i>sotie</i> girata dal lato della facile presa sul pubblico <i>mass-cult</i>; i personaggi si precisano in maschere immodificabili e, come nei fumetti, ma diversamente che in Montalbano, che invecchia di episodio in episodio, le condizioni individuali di ciascuno rimangono inalterate, al punto che non c’è romanzo, compreso l’ultimo appena uscito, <i>La banda dei carusi</i> (Einaudi come tutti gli altri del ciclo) dove gli anni trascorsi dal mancato attentato al sostituto palermitano Malfitano, l’ex fidanzato di Vanina (che ha sempre trentanove anni), avvenuto 14 agosto 2011, non siano sempre quattro.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8jgB4WoPXHAH_TzDSbIfYwErXRGkLz_UJWbU-_3SvclusWRKhjpLvwba-TDkn8qPlgqrmgVFzR0EKgxD5ZvxVdeOEIa69xlnoI0bsxv3qs7uKbpl00PrqFbgr-YhkcKhV7iicCP4ZcYZRGL3vD5gQWCCSXhdYyTVba7g_l6YOy9ORr37E4UbYoEu7Avg/s839/La%20banda%20dei%20carusi.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="839" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8jgB4WoPXHAH_TzDSbIfYwErXRGkLz_UJWbU-_3SvclusWRKhjpLvwba-TDkn8qPlgqrmgVFzR0EKgxD5ZvxVdeOEIa69xlnoI0bsxv3qs7uKbpl00PrqFbgr-YhkcKhV7iicCP4ZcYZRGL3vD5gQWCCSXhdYyTVba7g_l6YOy9ORr37E4UbYoEu7Avg/s320/La%20banda%20dei%20carusi.jpg" width="204" /></a></div>Ci vuole certamente una bella faccia tosta per rubare davanti a tutti e rendersi il lavoro facile facile dovendo provvedere alla sola <i>fabula</i> perché quanto all’intreccio si tratta solo di riempire moduli predisposti da un altro, nella significativa differenza tra Camilleri e lei della focalizzazione dell’azione che nel primo è sempre puntata su Montalbano per cui ogni scena è vista e vissuta da lui, dal quale il lettore non si allontana mai, mentre in lei la scelta è stata quella della via in discesa del narratore onnisciente, sicché abbiamo azioni dove Vanina Guarrasi è assente: il modo migliore insomma per dare alla trama uno sviluppo molto più elementare e con poca fatica.</div><div style="text-align: justify;">Ma uguale è lo strumento che permette alla vicequestora di giungere alla soluzione del caso. Nell’ultimo titolo, l’ottavo del ciclo, alla Guarrasi si accende di colpo una lampadina nella testa, esattamente com’è per il flash che scatta a Montalbano, lampadina che le fa esclamare: “Minchia, che scimunita che sono”. Un po’ in ritardo per la verità perché il lettore attento ci è arrivato da nu pezzo. Sembra di sentire in Guarrasi la voce di Montalbano che dice “Bih, che camurria”, “Chi fa, babbìa?”, mentre la vediamo parlare come lui di “fame lupigna”, alzare la voce ai sottoposti, commuoversi per niente, fare predilezioni in ufficio arrivando a concedere che venga chiamata “capo” solo da quanti le sono graditi, perché tutti gli altri devono chiamarla “dottoressa”: un caso di ipertrofia dell’io che meriterebbe certamente una buona visita psichiatrica, sindrome alla quale il pur malmostoso Montalbano non è rimasto mai esposto.</div><div style="text-align: justify;">Uguale è anche la stucchevole propensione in entrambi gli autori di ripresentare a ogni episodio i personaggi, i loro caratteri e i loro ruoli, propensione che in Cassar Scalia diventa maniacale quando ripete fino all’ossessione che Vanina ha perso il padre ammazzato dalla mafia, che ha salvato il suo fidanzato da nu attentato e dopo ha cambiato città e incarico, fino alla rutilante distinzione tra gli arancini catanesi e le arancine palermitane proposta a ogni occasione. Il ricalco che Cassar Scalia compie della sua Guarrasi su Montalbano è talmente sfrontato che in <i>La banda dei carusi</i> la vicequestora, trovandosi a Palermo, si concede una passeggiata lungo il molo del porto turistico solo per riflettere, proprio come usa il commissario di Camilleri che si ritira a pensare al molo di Vigata. A parte vanno considerati errori blu come nella frase “L’Etna ancora innevata, stranamente tranquilla”, non visti né dall’agenzia Grandi&Associati né dagli editor Einaudi, ed espressioni dialettali sbagliate come “a tignitè” invece del più catanese “a tinchité”.</div><div style="text-align: justify;">Cassar Scalia copia Camilleri anche nel disordine relativo alla successione degli episodi, che non seguono un ordine cronologico legato al tempo della narrazione perché il tempo della scrittura non ne tiene conto. Senonché nell’autrice originaria di Noto e trapiantata a Catania il conflitto è molto più evidente.<i> La banda dei carusi </i>ne è una prova. Uscito dopo <i>Il re dei gelati</i>, riesuma la figura del commissario in pensione Biagio Patanè che ha esordito in <i>L’uomo del porto</i>, tornando nel successivo <i>Il talento del cappellano</i> e riapparendo ancora l’anno scorso in <i>La carrozza della santa</i> in veste sempre di collaboratore di grande esperienza della vicequestora ma anche di scarso genio se è succube di una moglie ottantenne come lui che è gelosissima proprio della Guarrasi: una cavatina farsesca e indigesta degna del peggiore Martoglio.</div><div style="text-align: justify;">Patanè è un personaggio che manca nei primi tre titoli, <i>Sabbia nera</i>, <i>La logica della lampara</i> e <i>La salita dei saponari</i>, perché appare la prima volta in <i>L’uomo del porto </i>dove figurano ragazzi che, salvati dalla droga e dalla delinquenza da un parroco sociale e scomodo, si dimostrano decisivi nelle indagini sull’omicidio del professore La Barbera. Il romanzo è ambientato nel 2016, giacché la Guarrasi osserva che il “santo cristiano” non si era ancora adeguato nel 2016 alla tecnologia, mentre<i> Il talento del cappellano</i> è calato nel 2017, circostanza che si deduce da quanto dice la vicequestora, secondo cui la doppia Sim negli Iphone sarebbe stata introdotta solo nel 2018. Non ci sono elementi per dire in quale anno si svolge la trama de <i>La carrozza della santa</i>, ma sappiamo per certo che i fatti narrati in <i>La banda dei carusi </i>sono collocati agli inizi di aprile del 2017, quando è davvero improbabile che nei tre mesi precedenti, se il caso è dello stesso anno, si siano svolti quelli de <i>La carrozza della santa</i>.</div><div style="text-align: justify;">I carusi del titolo sono gli stessi de <i>L’uomo del porto</i>, dove compaiono anche la compagna di La Barbera, Vera Fisichella, Thomas Ruscica, che sarà ucciso in <i>La banda dei carusi</i>, la sua ragazza Emanuela Greco e il padre avvocato. Il romanzo è da ritenere quindi la prosecuzione de <i>L’uomo del porto</i>, un secondo tomo, se non lo fosse però anche de<i> Il talento del cappellano</i>, dal momento che lo spasimante di Vanina, Manfredi Monterreale, capisce di non avere molte speranze contro Paolo Malfitano (di cui lei è sempre innamorata, ma per qualche motivo legato a turbe psicologiche non vuole tornarci) dopo che il Pm si presenta in casa di Vanina, lui presente, alla fine de <i>Il talento del cappellano</i>. Epperò riesce a portare Vanina in moto al porto a consumare granite e brioche sul molo come una notte hanno fatto in <i>L’uomo del porto</i> mangiando panini.</div><div style="text-align: justify;"><i>Il re del gelato</i>, anch’esso di quest’anno, è stato allora un’interruzione e probabilmente risale agli anni precedenti l’arrivo di Patanè, ma Cassar Scalia ha scelto di non dare spiegazioni sui tempi della narrazione e della scrittura, sperando che il lettore non faccia caso ai dettagli e lasciando che si interroghi da un lato sul perché<i> La banda dei carusi </i>non sia uscito dopo <i>L’uomo del porto</i> o magari dopo <i>Il talento del cappellano</i> e da un altro sulle ragioni per cui sia quest’ultimo titolo che il precedente si chiudano con l’arrivo improvviso di Malfitano in casa di Vanina, presente Manfredi. Forse all’autrice è piaciuto così tanto il finale da soap opera da proporlo identico due volte e da rimandare così La banda dei carusi a dopo <i>La carrozza della santa</i> e <i>Il re del gelato</i>. Per fare dimenticare.</div><div style="text-align: justify;"><i>La banda dei carusi</i> involge un sostanziale cliché per il quale il centro storico di Catania attorno a Via San Cristoforo sia il regno della mafia e della delinquenza, quale in precedenti titoli l’autrice ha già stabilito. Un ragazzo della zona malfamata, spacciatore e consumare di droga sostenuto dalla famiglia che lo vuole delinquente come tutti, si converte al bene dopo essere stato recuperato dalla comunità di don Rosario, sicché cerca di salvare quanti più coetanei dalla perdizione di cui è fomite il suo quartiere. Scontato allora che venga ucciso, ma chi è stato? La mafia che tutela i propri torbidi interessi, dallo spaccio alla prostituzione, o qualche parente di un ragazzo redento che invece di ringraziarlo per avergli salvato il figlio lo ammazza, oppure è stata, perché no, la sua ragazza, gelosa più della moglie di Patanè e alla quale Thomas non dice niente del suo impegno civile né lei lo capisce?</div><div style="text-align: justify;">Da un’improbabilità all’altra, il romanzo si avvia mestamente, senza colpi di scena, all’accensione della “lampadina” che illumina la lenta testa della vicequestora e porta a una conclusione, già in partenza annunciata nell’ovvia considerazione che solo chi non vuole un parente o una fidanzata riportati sulla retta via può concepire di uccidere il novello Don Bosco. Per Cassar Scalia come pure per Camilleri la lampadina funziona come un <i>deus ex machina</i> che scende dall’Olimpo per sbrogliare vicende umane. Sicuramente è un deficit, che però in Camilleri è camuffato entro strumenti quali lo “sgorbio” e il “saltafosso” che rispondono a logiche sherlockholmesiane e sono il portato di un crescendo di intuizioni, mentre in Cassar Scalia l’illuminazione improvvisa arriva al pari del ritrovamento degli occhiali sul naso, per essere appunto “scimunita”. Insomma più che una trama abbiamo avuto stavolta un tramezzino con dentro un po’ di tutto, tranne il giallo.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-90790859930990348382023-07-27T10:38:00.007+02:002023-08-09T15:54:01.604+02:00Mark Twain, il genio delle conferenze e delle interviste<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDhd798FYPweoeYjNYMvoPFEYoiSZb6EGyDLY9-I1BUD_oWN_63-YSAtELplswg7GaCPMPpR8Ee311ihCTQoD0EZ-ZNuD_m_dGML8VqiPm9FhmJKl6eqShatmBO-bbDTVaK4vtxl6fHy_y6P44CyKuwjOMKtNdoqeSXn1zKJZ2Rx5QFfvjTfKnZch8DE4/s1125/Mark%20Twain.jpeg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="757" data-original-width="1125" height="269" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDhd798FYPweoeYjNYMvoPFEYoiSZb6EGyDLY9-I1BUD_oWN_63-YSAtELplswg7GaCPMPpR8Ee311ihCTQoD0EZ-ZNuD_m_dGML8VqiPm9FhmJKl6eqShatmBO-bbDTVaK4vtxl6fHy_y6P44CyKuwjOMKtNdoqeSXn1zKJZ2Rx5QFfvjTfKnZch8DE4/w400-h269/Mark%20Twain.jpeg" width="400" /></a></div><p><span style="font-size: medium;">Articolo apparso già su Doppiozero</span></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Mark Twain (interlocutore brillante e non solo scintillante, secondo una sua sottile distinzione) rilasciò 258 interviste, raccolte in un volume del 2006 uscito negli Usa. Insieme con la <i>Autobiografia</i>, cominciata nel 1870 e terminata nel 1910, l’anno della morte, per cui l’autore del Missouri scrisse che la dettava dalla tomba, le interviste costituiscono il nerbo di un’opera che però recede di fronte alla grandezza di uno scrittore spiccato nell’orale quanto nello scritto, certamente disomogeneo e discontinuo nel valore complessivo.<span><a name='more'></a></span> Twain, al secolo Samuel Langhorne Clemens, nacque infatti come oratore, quando ancora giovane rivelò una vena di loquacità ed eloquenza che ne fecero un conferenziere richiestissimo e strapagato, tale da mutare il genere delle “lectures” di moda nella prima metà dell’Ottocento come seriosi <i>readings</i> in forme di intrattenimento improntate all’umorismo e all’arguzia.</div><div style="text-align: justify;">Twain eccelse nel dare più spettacolo che prove di letteratura. Dopotutto il celebrato critico del suo tempo, da lui molto ammirato, William Dean Howells, disse che era lo scrittore americano meno letterato che conoscesse, contraddetto tuttavia da Ernest Hemingway che lo riteneva invece “il precursore della letteratura americana contemporanea”.</div><div style="text-align: justify;">Di essere un illetterato ne era ben cosciente egli stesso, se di Rudyard Kipling, andato da giovanissimo a intervistarlo, disse: “Io e lui insieme conosciamo tutto lo scibile; lui sa tutto ciò che si può sapere, io so il resto”. Ma sapeva di poter dare ragione a Hemingway, al punto da recriminare sul fatto che le università Usa elargissero lauree ad honorem a studiosi destinati a essere presto dimenticati mentre ignoravano lui che si era consegnato alla posterità. In realtà ebbe quattro lauree, ma pretendeva di avere diritto a molte altre, mai pago di successo come anche e soprattutto di denaro. Epperò si faceva pagare le conferenze ma non le interviste, alle quali si concedeva con degnazione mista alla stessa <i>verve </i>che il pubblico di America, Europa e Asia ben gli riconosceva. Un pubblico che, ammirando il polemista, lo ascoltava sui temi del momento, dal copyright all’Europa ancora feudale, dalla pochezza di Roosevelt ai vizi degli americani, per poi chiedergli però sempre di Tom Sawyer e Huckleberry Finn, i due personaggi che nel 1876 il primo e otto anni dopo il secondo decretarono la sua fama di scrittore, rimasta legata principalmente a quei due romanzi di avventura, l’argomento preferito sia nelle “lectures” che nelle interviste.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoahrStRzoiU4CW5Ch0Gg_yuEWXDQ2EJRe6bkpYMqfzpiU_0CGoY3mrqyVPN2BlXUENfWn02kGL9kT5qeLm06k8UJwNEI69yVdC3agkGwjJG3aV3_MVMlXZzlRig2fHoqBaDJ1qFArGneP2uN1ck-inQDrcDNKND0Sj6-sYxF5UAqO_RNHjms25fDgpsI/s1012/Parla%20Mar%20Twain.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1012" data-original-width="724" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoahrStRzoiU4CW5Ch0Gg_yuEWXDQ2EJRe6bkpYMqfzpiU_0CGoY3mrqyVPN2BlXUENfWn02kGL9kT5qeLm06k8UJwNEI69yVdC3agkGwjJG3aV3_MVMlXZzlRig2fHoqBaDJ1qFArGneP2uN1ck-inQDrcDNKND0Sj6-sYxF5UAqO_RNHjms25fDgpsI/s320/Parla%20Mar%20Twain.jpg" width="229" /></a></div>Ora, per l’editrice Lorenzo de’ Medici Press di Firenze, il classicista Aldo Setaioli, per l’occasione rimbalzato nella letteratura nordamericana, ha tradotto tredici interviste dell’edizione inglese, attenendosi a un criterio di relazione proprio con le due opere, che però è valido per dodici di esse, perché l’ultima, posta in Appendice, suona come variazione dissonante benché molto gustosa per il contenuto. Il titolo del libro, <i>Parla Mark Twain </i>(euro 14, pp. 110), mantiene quanto promette, perché Sawyer e Huckleberry non sono i soli temi di interesse delle interviste, molto più variegate e nello stesso tempo estranee alla vita dell’uomo privato perché relative alla sola attività pubblica: coprono infatti un periodo, compreso tra il 1885 e il 1906, che coincide con il progressivo mutamento del carattere dell’autore, partito da un umorismo ricco di spirito e via via proclive a un pessimismo umbratile e malmostoso che accompagna una produzione letteraria sempre meno riconoscibile nella sua cifra originaria.</div><div style="text-align: justify;">Nel 1885 il meglio Twain lo ha dato già con i due romanzi maggiori, ma anche con <i>Il principe e il povero</i> nel 1881 e V<i>ita sul Mississippi</i> del 1883. Ma ci sono stati altri libri di successo come <i>Gli innocenti all’estero </i>del 1869, <i>Vita dura</i> del 1872 e <i>Una passeggiata in Europa</i> del 1880, che (dice Twain in un’intervista proprio del 1885) hanno venduto rispettivamente 170 mila, 150 mila e 90 mila copie. Numeri da best seller. Ma quel che seguirà non accrescerà il suo nome, che curiosamente continuerà fino alla fine a tenere nondimeno una quotazione altissima per via della sua veste di conferenziere come pure della qualità delle sue interviste. Dalle quali nulla infatti trapela delle tragedie che funestarono la sua vita, come se Twain riuscisse pubblicamente a sdoppiarsi in un Clemens privato di altra cotta.</div><div style="text-align: justify;">Passa un anno e già nel 1886, in una lettera a Howells, confida di aver scoperto che l’amata moglie Livy ha indotto le figlie a tenersi alla larga da lui, perché preda di improvvisi scatti di collera e divenuto imprevedibile nei suoi cambiamenti istantanei di umore. Eppure in pubblico appare amabile, sapido, divertente, sagace, appunto brillante. Né è da meno nelle interviste, nelle quali ama il <i>tall tale</i>, la vanteria, dire cose che non pensa o apparire diverso. Nel 1890 va a trovarlo Kipling, appena ventiquattrenne, e gli chiede se scriverà una autobiografia, cosa che ha già cominciato invero a fare da vent’anni. “Sì – risponde Twain – e sarà come quella scritta da altri, col più sincero desiderio di presentarmi come un uomo migliore in ogni piccola faccenda a mio discredito e, come gli altri, non riuscirò a far sì che il lettore creda ad altro che alla verità”. Probabilmente pensa alle tre figlie e alla moglie solo alle quali vuole apparire un uomo migliore, perché al pubblico dei suoi lettori intende mostrarsi per quello che è creduto: un grande umorista, un eccellente conversatore e un impareggiabile scrittore. Ma col tempo diventa altro. Nel 1904, a Firenze, alla moglie morente scrive un melenso biglietto che dimostra come ha perso del tutto la sua vena umoristica: “Io credo nell’immortalità dell’anima più di quanto non ci creda”.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOZt6FUzTNAuL5WWZKmDHpJ_ShJP_-5r6unzeUvAMiPRte0W6C7xbMB4ddw3N-PFCYsGsJQU6_VmK2NiOESXMUDKhzQFw3kyi4QuglbGG5N8hUI9fPzkDMECo60yCLFC75nUXMQNTCqKf74iDmqa8gVmstU5N27tj8olFx8o8pOIfyjVNwTqOg4RNaCxE/s832/Autobiografia%20Donzelli%202014.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="832" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOZt6FUzTNAuL5WWZKmDHpJ_ShJP_-5r6unzeUvAMiPRte0W6C7xbMB4ddw3N-PFCYsGsJQU6_VmK2NiOESXMUDKhzQFw3kyi4QuglbGG5N8hUI9fPzkDMECo60yCLFC75nUXMQNTCqKf74iDmqa8gVmstU5N27tj8olFx8o8pOIfyjVNwTqOg4RNaCxE/s320/Autobiografia%20Donzelli%202014.jpg" width="206" /></a></div>Cinque anni dopo, rimasto solo, gli morirà la figlia Jean, una perdita più dolorosa di quella di Susy, morta nel 1896 a ventiquattro anni. Gli resterà Carla, che però vive in Europa, sicché vivrà gli ultimi anni in una immensa casa di cui si chiederà perché l’ha costruita, sprofondato nel pessimismo più cupo, mascherato tuttavia dietro una vita pubblica che godrà di onorificenze, celebrazioni, feste e viaggi cui si presterà al pari di un clown che ride mentre piange non visto. E riverserà nella sua autobiografia l’agro di un umorismo ormai ridotto a lepida amenità: spiegherà che veste sempre di bianco per apparire pulito irridendo a quanti vestono di scuro indossando abiti che “sono più beni immobili che proprietà personali; portano tanta terra da poterla seminare e ricavarne un raccolto”. Dirà della sua folta capigliatura che la lava ogni giorno a differenza di tutti: “In tutti i miei settantadue anni non ho mai incontrato un somaro può somaro della razza umana”, che si mette a tavola lavandosi prima le mani e tenendo i capelli sporchi, perché “lo sanno tutti” che troppo acqua ne guasta la radice. L’umorismo è diventato ormai acredine, ma non è mai stato in lui, a differenza dell’opinione prevalente, un modo per suscitare il riso.</div><div style="text-align: justify;">Quando in un’intervista gli chiedono una definizione, spiega che il riso nasce dal contrasto (il “sentimento del contrario” di Pirandello) e che è un funerale a suscitarlo maggiormente. “La fonte segreta dello humour non è la gioia, ma il dolore” scriverà nella Autobiografia dove si trova la sua teoria secondo cui “l’umorismo è soltanto un aroma, un ornamento” e ha una durata di trent’anni, dopo i quali “la materia dei suoi ammonimenti può cessare di essere nuova e divenire banale, allora la predica non interessa più nessuno. Io ho sempre predicato. Questo è il motivo per cui sono durato trent’anni. Se l’umorismo è venuto spontaneamente e senza invito gli ho fatto posto nella mia predica, ma non scrivevo la predica per amore dell’umorismo. La predica l’avrei scritta lo stesso, bussasse o no alla porta l’umorismo”.</div><div style="text-align: justify;">Il “grande umorista”, come in coro gli intervistatori lo nominano perché tale fama si era fatto, si sentiva più che altro un predicatore laico chiamato ad ammaestrare e ammonire. Questo tono moralistico cambia la prospettiva nella quale Twain è stato riguardato, ma appare evidente che il predicatore è quello degli anni successivi ai grandi romanzi fino al 1885, perché proprio Tom Sawyer e Huckleberry Finn sono la prova della sua prorompente vena umoristica, schietta e sorgiva. Fino alla fine ha voluto giocare con la natura dei suoi capi d’opera tenendo vivo l’equivoco se fossero libri per ragazzi o per adulti, probabilmente per non dargli un target preciso, quindi per avere maggiori profitti. </div><div style="text-align: justify;">Già nella premessa alle<i> Avventure di Tom Sawyer</i> scrive: “Sebbene il mio libro si proponga soprattutto di divertire ragazzi e ragazze, spero che non sarà evitato per questo dagli uomini e dalle donne, perché in parte la mia intenzione è stata di tentar di ricordare piacevolmente agli adulti com’era un tempo essi stessi”. La stessa intenzione permane circa i fini delle <i>Avventure di Huckleberry Finn</i>, romanzo che negli anni, come rivela Twain nel 1905 nella <i>Autobiografia</i>, viene cacciato da molte biblioteche pubbliche contrarie a fornire modelli di ragazzi bugiardi e malandrini.</div><div style="text-align: justify;">Nel 1905 gli scrive un dirigente della biblioteca di Brooklyn che lo informa della decisione della signorina direttrice di cacciare Finn dagli scaffali dei ragazzi per riporlo in quello degli adulti. A sua detta era nata una discussione perché “Huck era un ragazzo bugiardo che diceva ‘sudore’ quando avrebbe dovuto dire ‘traspirazione’”, dacché per poter riportare il romanzo dove era destinato gli chiede su Huck “qualche parola a riprova della bontà del suo animo”. Twain gli risponde dicendosi turbato: “Scrissi Tom Sawyer e Huckleberry Finn per adulti soltanto e provo fastidio ogni volta che sento che ne viene permessa la lettura ai ragazzi. L’animo contaminato in gioventù non potrà mai essere reso di nuovo puro; è un’esperienza che ho fatta io stesso e ancora non si placa il rancore che nutro verso gli infidi custodi della mia gioventù che non solo mi permisero ma mi obbligarono alla lettura dell’intera Bibbia, non espurgata, prima che avessi quindici ani. A nessuno è dato di fare questa esperienza e continuare a respirare aria pura da questa parte della tomba; chiedetelo a quella signorina e vi dirà così. Onestamente vorrei poter dire qualche parola buona a difesa dell’animo di Huck, com’è vosto desdierio, ma in realtà secondo me esso non è migliore di quello di salomone, davide, Satana e di tutti gli altri della sacra confraternita. Nel caso che ci sia una Bibbia non espurgata nel reparto Ragazzi, vorreste aiutare la signorina ad allontanare Huck e Tom da così discutibile compagnia?”.</div><div style="text-align: justify;">Alcuni mesi dopo la casa di Twain viene assediata dai giornalisti, venuti a sapere di una sua lettera alla biblioteca di Brooklyn di cui chiedono copia. Lo rassicura il fatto che il contenuto non è stato reso noto dal bibliotecario, consapevole del gran rumore che susciterebbe. Senonché è egli stesso nella Autobiografia a rendere noto l’episodio pubblicando le lettere e pure il nome del bibliotecario, che gli aveva raccomandato assoluta riservatezza, ma sa che il libro uscirà postumo e quel che gli preme è di mantenere per sempre la doppia veste dei suoi due romanzi. Che però diventeranno e rimarranno fino ad oggi libri per ragazzi.</div></span><p></p>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-46489040094913060352023-07-21T22:42:00.006+02:002023-08-09T15:54:15.870+02:00Rossitto, il leader dei braccianti che infiammò il Pci ibleo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbSw6wnloYsmlEWtw5Zh4Y61gHD6IQXjnEUr8L1c6nOrLC6J0Qai_t8Q44J_vAcEjSVkvV2haYmyZn6oYAILwlgD7gae7UGpawug9ESp-4f8au0wmfff3vrF4_HkREP7EEzFoLcpiuPDnXvKgiQlJfTrxd507Qfwx-dKZxFArD41vCYJ5Kf6WtUqcH02s/s600/Una-storia-da-riconfigurare.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="440" data-original-width="600" height="294" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbSw6wnloYsmlEWtw5Zh4Y61gHD6IQXjnEUr8L1c6nOrLC6J0Qai_t8Q44J_vAcEjSVkvV2haYmyZn6oYAILwlgD7gae7UGpawug9ESp-4f8au0wmfff3vrF4_HkREP7EEzFoLcpiuPDnXvKgiQlJfTrxd507Qfwx-dKZxFArD41vCYJ5Kf6WtUqcH02s/w400-h294/Una-storia-da-riconfigurare.jpg" width="400" /></a></div><p style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"> <span style="text-align: justify;">Quanto la sinistra deve a Feliciano Rossitto il suo zoccolo ibleo? Disse di lui a Ragusa Pio La Torre: il dirigente comunista più popolare della provincia ha il merito di aver allestito la più forte organizzazione di partito in Sicilia. Secondo Francesco Renda, Rossitto rifondò addirittura il Pci isolano.</span></span></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span>Di più. Quanto l’agricoltura trasformata iblea è debitrice di Rossitto? L’alfiere delle lotte per l’imponibile di manodopera fu infatti anche il padre della legge sulla serricoltura. Rossitto scrisse il testo di getto, in campagna, dopo che il segretario dei braccianti Salvatore La Cognata lo portò a vedere sorgere le prime serre. C’erano stati una gelata devastante, una manifestazione con ventimila contadini e diciassette giorni di sciopero per il contratto di compartecipazione. Era il ’63 e Rossitto era appena diventato deputato.</div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZ_uBm28WFuUnu4gQMrRdyEN9wljhlYSFHzjGadF1QEftof3zr3yfOiZZqQ-Rox4T6s6ToqlWsKuBfbaP1kjStwtKAQyCIvR4uGbViYR_Qmyd-hcIjffHrCW2eie0X4rABmkUhV1l3UjJgwza-okuY7cRrGwvZYF0ZgJJqfeWc3sJNww-x_2hKRzt7boI/s300/feliciano_rossitto-207x300.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="207" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZ_uBm28WFuUnu4gQMrRdyEN9wljhlYSFHzjGadF1QEftof3zr3yfOiZZqQ-Rox4T6s6ToqlWsKuBfbaP1kjStwtKAQyCIvR4uGbViYR_Qmyd-hcIjffHrCW2eie0X4rABmkUhV1l3UjJgwza-okuY7cRrGwvZYF0ZgJJqfeWc3sJNww-x_2hKRzt7boI/s1600/feliciano_rossitto-207x300.jpg" width="207" /></a></div>Più che confidare nelle possibilità dell’industria in provincia di Ragusa (uscita in ginocchio dalle disillusioni della Gulf) Rossitto credeva piuttosto nelle potenzialità disattese dell’agricoltura. Di fronte alle masse contadine la cui conduzione, come disse Pietro Ancona, “era una ingiuria come atto morale”) Rossitto diede prova di come la politica possa essere messa al servizio della gente invece che di se stessi o del partito. Riprese la bozza del comunista Rosario Iacono, affossata dalla sordità della classe politica siciliana e, scavalcando anche il Pci, contattò tutti i capigruppo prospettando una proposta di legge unitaria. Fu così che ottenne la legge 26 rinunciando noncurante al proprio nome in calce al testo legislativo.</div><div style="text-align: justify;">La vita di Feliciano Rossitto ebbe nel quindicennio ragusano il suo fondamento. Il segretario nazionale della Federbraccianti, divenuto segretario confederale della Cgil, fu proprio a Ragusa che si formò. “su una lambretta con un fasciacollo e senza cappotto. Come tanti storici sindacalisti siciliani del Secondo dopoguerra, Rossitto amava il rapporto con la gente. L’andava a trovare fino a Monterosso, fino a Giarratana, oppure al bar di Ciccio<i> u magu</i> o al al caffè Giampiccolo di Ragusa. E tornava nella sua pensioncina in Via Ecce Homo a notte fonda con i brividi che la sua tubercolosi di moltiplicava senza però riuscire a fiaccarlo. Pur avendo connaturata in sé l’eccezionale dote appartenuta a Di Vittorio che lo faceva essere al tempo stesso dirigente di partito e dirigente sindacale, Rossitto dimostrò nei fatti di avere una visione soreliana della politica, preferendo i rapporti di massa che gli consentiva il sindacato ai negoziati ristretti e diplomatici che gli imponeva la logica di partito.</div><div style="text-align: justify;">Quando fu eletto segretario della Federbraccianti aveva vent’anni e una leggera balbuzie. I contadini erano perplessi e dicevano che “non si esprimeva bene”. Ma si ricredettero presto e tutti, constatando come Rossitto fosse di una intelligenza superiore che non concedeva ostacolo alla propria autorità. Si vedeva che sarebbe arrivato molto lontano. E forse per questo ci fu chi provò a impedirgli i primi passi.</div><div style="text-align: justify;">Dopo l’esperienza d’esordio alla Camera del lavoro di Comiso, promosse quelle che chiamava “riunione di caseggiato” e quando gli uomini erano fuori “per la settimana” parlava alle sole donne. Che considerava lavoratrici nella veste di casalinghe più che in quella di spigolatrici. Diceva loro che “il lavoro lo conquista tutta la famiglia”.</div><div style="text-align: justify;">Non fu la sola priva di lungimiranza che diede. A differenza di Saro Iacono (che ammetterà la propria miopia), ebbe chiaro che i coltivatori diretti non potevano essere lasciati fuori né dal sindacato né dal partito. Pio La Torre avrebbe chiamato questo errore del Pci siciliano “limite di classe”. Un limite che costituì la prima versione del Fattore K in formato siciliano: “la ristrettezza della visione dello schieramento delle forze motrici dello sviluppo siciliano”.</div><div style="text-align: justify;">Fu proprio Rossitto a costituire a Ragusa una federazione autonoma di coltivatori diretti, precorrendo tutti i tempi. Era successo che ad affittuari e mezzadri erano pervenute spropositate ingiunzioni di pagamento per i profitti di guerra. Benché fossero iscritti alla Bonomiana, i contadini si rivolsero a Rossitto perché la Dc aveva risolto che gli intrallazzi fatti col grano andassero pagati senza remissione, Rossitto colse al volo l’occasione: sposò la causa dei coltivatori diretti e costituì una federazione autonoma a capo della quale mise un democristiano baciato dalla fortuna, Carmelo Antoci. E sarebbe stato proprio questo Antoci, con il beneplacito anche di Nenni e Togliatti, a essere eletto deputato regionale come indipendente. Con i voti dei coltivatori diretti dc e dei braccianti comunisti. Un capolavoro politico.</div><div style="text-align: justify;">Geniale anche il tiro al circolo “9 Aprile 21”, meglio conosciuto come “circolo dei ceci” per la larga mano di Lupis. La Federbraccianti aveva bisogno di un circolo e mise gli occhi su quel ritrovo, proprio in Piazza San Giovanni, che ad averlo in pugno sarebbe stato come sferrarne uno a Lupis, partito socialista e tornato amerikano. Rossitto mandò, un giorno uno e un giorno l’altro, la bellezza di quattrocento braccianti a iscriversi. Quando si votò per il rinnovo del consiglio di amministrazione fu un gioco conquistare la maggioranza, Ma per Rossitto non fu per niente un gioco districarsi in politica nel suo stesso partito.</div><div style="text-align: justify;">Teorico che non disdegnava l’azione, quando si trattò di organizzare il primo sciopero dei braccianti per strappare al prefetto il decreto sull’imponibile di manodopera, fu lui a dirigere il picchettaggio. Mandò di posta alle uscite di Ragusa militanti camuffati da braccianti. Al sopraggiungere della polizia, i finti contadini dicevano di aspettare i carri dei compagni per andare insieme in campagna. Appena un carro arrivava montavano sopra e, con le buone o meno, convincevano i contadini a tornare indietro.</div><div style="text-align: justify;">Un’altra volta, di fronte all’ordine del questore di non creare assembramenti in piazza, suggerì ai braccianti di passeggiare da soli da un punto all’altro di Piazza San Giovanni sotto gli occhi dei polizia e carabinieri che non riuscirono a trovare, tra mille dimostranti, due soli che potessero dirsi in compagnia.</div><div style="text-align: justify;">In realtà Rossitto primeggiò come impareggiabile organizzatore. Con tutta la Federterra, il giovanissimo studente di Giurisprudenza insedia in ogni paese, oltre alle leghe comunali, anche organismi di sua ideazione, cioè comitati di agitazione formati da quaranta attivisti che egli ama chiamare “i quaranta spietati”. Quando divampano le lotte per l’applicazione dei decreti Gullo-Segni sull’assegnazione delle terre incolte e malcoltivate, Rossitto capeggia l’occupazione dei fondi del conte Lanza, del marchese Arezzo, del barone Mormina e non ha timore di denunciare su “La Voce del popolo” le intimidazioni di campieri e soprastanti che posano a mafiosi, mentre in tutta la Sicilia i sindacalisti cadono uccisi.</div><div style="text-align: justify;">Varata la riforma agraria siciliana, Rossitto si batte per la sua applicazione, ma il suo nome, nel campo delle battaglie per il miglioramento delle condizioni dei contadini rimane certamente legato alla lotta per l’imponibile di manodopera. Un dato per tutti: mentre a Palermo la Federbraccianti non riesce ad andare in un anno oltre le ventimila giornate lavorative, a Ragusa i braccianti ne ottengono ben 450 mila, ciò che consente di tenere a freno l’esasperazione dei disoccupati e di contenere le dimostrazioni di piazza, quindi anche i morti. Ma non mancano né sangue né manette. Sono i tempi in cui le Camere del lavoro rimangono aperte anche di notte.</div><div style="text-align: justify;">In forza dei risultati conseguiti, Rossitto guadagna meriti che non sfuggono ai quadri regionali comunisti. Dopo un’esperienza da segretario del Pci a Ragusa, viene quindi chiamato nella segreteria regionale del partito, da dove torna presto nel sindacato occupando la carica di segretario regionale della Cgil. Ma rimane legatissimo a Ragusa.</div><div style="text-align: justify;">Quando perciò il Pci valuta a livello regionale l’opportunità di portare all’Ars un deputato che venga dal sindaco, la scelta non può che cadere su di lui. Il Pci siciliano trova naturale candidare Rossitto nel collegio di Ragusa, visto che peraltro Iacono si è ritirato anche per motivi di salute.</div><div style="text-align: justify;">A quel tempo i quadri dirigenti del partito ibleo si chiamano Virgilio Failla, Guglielmo Nicastro, Filippo Traina, Saro Iacono. Ma non sono un corpo unico, perché il Pci ibleo appare una grande montagna con due versanti: quello vittoriese e quello ragusano., C’è un esponente comisano, Giacomo Cagnes, chiamato da tutti Nicola, che aspetta da anni di essere candidato. Nel ’63 ritiene giunto il suo momento e il partito è d’accordo. Ma quando arriva l’imposizione da Palermo di preferirgli Rossitto, Cagnes si ribella e trova a sostenerlo la parte vittoriese del partito. Invece che rispondere “obbedisco”, irridendo ai ferrei dogmi del centralismo democratico pretende e ottiene la candidatura. Arriva, in sede di comitato federale provinciale, vicinissimo all’espulsione, richiesta a gran voce dalla parte ragusana del Pci, ma è la federazione che decide, Comune per Comune e sezione per sezione, a chi debbano andare i voti comunisti. Il partito dispone insindacabilmente promozioni e bocciature. La spaccatura interna, che si traduce peraltro in una scandalosa disobbedienza nei confronti del livello regionale, ha effetti pesanti su una base profondamente turbata. I massimi dirigenti provinciali prendono posizione per uno dei due schieramenti. Cagnes aveva sostenuto Traina contro Iacono, per cui il vittoriese Traina lo appoggia contro Rossitto. A Traina si aggiunge addirittura il secondo candidato, Guglielmo Nicastro, vittoriese anch’egli, mentre il leader provinciale, Virgilio Failla, prova una impossibile mediazione schierandosi con Rossitto ma rimanendosene di fatto defilato.</div><div style="text-align: justify;">Lo scontro elettorale è duro e i risultati nel sono la prova: Rossitto vince nella zona ragusana, Cagnes in quella vittoriese. Così Rossitto, il più grande dirigente comunista che Ragusa ha mai avuto, arriva all’Ars sull’onda di una imbarazzante guerra intestina. Che viene combattuta con tutti i mezzi, come farebbero due partiti avversari: volantini nell’area di influenza ostile, manifesti coperti, comizi boicottati. A Chiaramonte un quadro locale, certo Angelica, viene addirittura pagato perché non sostenga Rossitto. Il quale ottiene l’elezione, va a Palermo deputato e dopo pochi mesi si dimette peer tornarsene tra i suoi contadini, pronto per andare a ricoprire a Roma la carica di segretario nazionale della Federbraccianti. Dando a tutti e soprattutto ai suoi cari compagni di partito una grande lezione di vita.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9138488742489117740.post-43447869154398339582023-07-04T07:57:00.010+02:002023-08-08T14:35:37.206+02:00Vita di Gesù, Scritture da correggere<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBuiagopai8_a_ekWnVIXLvXjasB_IvEh8JXwNqxs6ofKpc0zzCu4bYH_nCx9ew664vqVMsw93Tqs_KIfAW_CuV6Ios4Z0GGiiKVut1vy-sIgIkq6zHqwBuar-hsXNpLvm44rCqDXplaSGE2NApVHHFv7OTYCVIMT7GlKMpJemY-O6V_6TOXoC1hmOq7w/s400/ges%C3%B9-manda-gli-apostoli.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="286" data-original-width="400" height="286" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBuiagopai8_a_ekWnVIXLvXjasB_IvEh8JXwNqxs6ofKpc0zzCu4bYH_nCx9ew664vqVMsw93Tqs_KIfAW_CuV6Ios4Z0GGiiKVut1vy-sIgIkq6zHqwBuar-hsXNpLvm44rCqDXplaSGE2NApVHHFv7OTYCVIMT7GlKMpJemY-O6V_6TOXoC1hmOq7w/w400-h286/ges%C3%B9-manda-gli-apostoli.jpg" width="400" /></a></div><p><span style="font-size: medium;"> Articolo uscito su Libero il 2 luglio 2023</span></p><p></p><span style="font-size: large;"><div style="text-align: justify;">Seppure in uno stile fin troppo elementare, quasi da intervento orale trascritto, poco sorvegliato e piuttosto lasco, <i>In quel tempo</i> (Solferino, pp. 256, euro 17) di Roberto Volpi offre un originale contributo alla conoscenza del Nuovo Testamento sotto l’aspetto di quelle che l’autore chiama “valutazioni quantitative” e che attendono allo studio statistico (la sua specialità: si ricordi <i>Dio nell’incerto</i> di due anni fa) della vita di Gesù e della nascita del cristianesimo. <span><a name='more'></a></span><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDvK_eCKxjqNzD-_XO2GPTKYm-LyTj17kVAb-K9bUE2EQSvVV7GwCZUh-x73_L76YCfUAhSTRo-a0Pp9Cwd8eQXbkdqeSvK-XcRAhpWVGTPvXGTRM1FuvH10SX6N3ItfZbMW7ZW15f0pxvxYMLCRAnjR2oGNtSXBJyVwKtgFp20NhaFtIacLqIF7W3izM/s551/In%20quel%20tempo.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="551" data-original-width="350" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDvK_eCKxjqNzD-_XO2GPTKYm-LyTj17kVAb-K9bUE2EQSvVV7GwCZUh-x73_L76YCfUAhSTRo-a0Pp9Cwd8eQXbkdqeSvK-XcRAhpWVGTPvXGTRM1FuvH10SX6N3ItfZbMW7ZW15f0pxvxYMLCRAnjR2oGNtSXBJyVwKtgFp20NhaFtIacLqIF7W3izM/s320/In%20quel%20tempo.jpg" width="203" /></a></div>Ma oltre alle cifre troviamo anche i simboli nel quadro di un’esegesi volta a dare significati mascherati in vicende, luoghi, percorsi e parabole: con il rischio però di incorrere in clamorose zeppe, come quella del viaggio verso Emmaus, distante da Gerusalemme undici chilometri, numero posto a indicare la somma degli apostoli dopo la morte di Giuda, per una deduzione di pura fantasia perché la Bibbia parla di sessanta stadi, misura corrispondente a circa quindici chilometri.</div><div style="text-align: justify;">Nondimeno appare suggestivo lo sguardo di Volpi sui Vangeli, se letti con la consapevolezza di oggi che porta a dare un senso distorto a parole come “folla”, “moltitudine”, “popolo”, “mare”, “deserto”, “monti”, che nella Palestina del primissimo secolo corrispondevano a una geografia minimale e a un mondo semantico compreso in una sfera iperbolica ed enfatica perché intesa dalle Scritture a ricondurre sempre il Messia storico e umano alla dimensione divina facendo della predicazione un viatico della Passione. Così il Mare di Galilea, che ha conservato tutt’oggi il nome, è piuttosto un lago mentre monti e deserti non sono che surrogati di colline e pianure spoglie. La stessa Galilea non è al tempo di Gesù che una piccola regione di 700-800 chilometri quadri con una popolazione tra i settanta e gli ottantamila abitanti, per modo che i raduni di massa di cui parlano i sinottici vanno ridimensionati abbondantemente.</div><div style="text-align: justify;">Gesù, che è in un’età matura quando appare, vista la durata media della vita, predica nella sola Galilea ebraica (ignorando quindi le due “grandi” città di Tiberiade e Sapphoris, perché di fede ellenistico-romana) e la attraversa in tutta la sua estensione, ma muovendosi quasi sempre ai bordi del lago, dove lo raggiungono le folle di pellegrini che molte volte sono composte dagli stessi seguaci decisi a riascoltare la sua voce. Ciò riduce ancora la consistenza della folla, termine che nei testi si muta in quello di “popolo” quando Gesù arriva a Gerusalemme, indicando la natura di cittadini dei gerosolimitani, ai quali però, nota Volpi, Cristo non parla mai se non nel Tempio, il solo luogo che lui frequenta raggiungendolo dal Monte degli Ulivi e dell’Orto di Getsemani che sono fuori città dove dimora venendo da Betania.</div><div style="text-align: justify;">Gesù in realtà non entra mai nel cuore della città sacra se non unicamente durante il calvario, perché il Monte del tempio è a ridosso delle tre porte di ingresso e gli basta costeggiare le mura per arrivarci. Volpi nota come Gesù eviti dunque ostinatamente la città, che in verità non conquista mai perché è la città a conquistare lui catturandolo e mandandolo a morte. Dopo la quale, il popolo diventa nei Vangeli “moltitudine” in un’accezione dunque di gente non è ferma qual è una folla in ascolto, né astratta com’è per un “popolo”, ma in movimento e in agitazione, a rappresentare la nascita del cristianesimo e l’avvento sulla scena del suo vero fondatore, Paolo di Tarso, che costituisce il terzo atto, dopo la Galilea e Gerusalemme, della storia della fede cristiana proposta da Volpi. La quale storia nei Vangeli è narrata per diffondere la Buona novella, sicché nulla dice degli insuccessi di Gesù, che converte al nuovo Verbo quasi tutta la Galilea, si spinge nella miscredente Samaria ma fallisce nella meta decisiva, dove sono la roccaforte dell’ebraismo e il quartiere generale del paganesimo romano.</div><div style="text-align: justify;">Volpi sottolinea il “taglio netto” che si produce tra la predicazione “domestica” in Galilea e la Passione che ha per teatro Gerusalemme, dove si ha una seconda cesura tra tempio e città. È in forza dell’apostolato svolto al chiuso che nasce l’avversione nei suoi confronti secondo uno schema per il quale il Gesù storico definito da Ratzinger, fonte privilegiata di Volpi, opera sempre in funzione di quello divino che solo a scribi e farisei, grandi sacerdoti e cohanim poteva rivelarsi.</div><div style="text-align: justify;">Il libro è introdotto dal cardinale Camillo Ruini, che pur esprimendo esplicite riserve sulle competenze specifiche dell’autore in fatto di questioni teologiche, dallo stesso Volpi peraltro ammesse, ne loda “l’approccio” mostrato a una tematica riguardata con occhio nuovo.</div></span>giannibonina.blogspot.comhttp://www.blogger.com/profile/12311108191895018313noreply@blogger.com0