giovedì 8 maggio 2014

Siamo ciò che il caso ci ha fatto?


Il gatto di Erwin Schrödinger e il calabrone di Igor Sirosky fanno parte della stessa specie: sono indifferenti alle leggi fisiche, alla ricerca scientifica, alle prove empiriche, ai teoremi epistemologici. E rispondono soltanto a principi di natura. La quale, a sua volta, non si chiede se agisce in via di causalità o di casualità.
Il calabrone di Sirosky, avendo un’apertura alare insufficiente rispetto al volume, non potrebbe volare, ma siccome non lo sa continua a farlo; il gatto di Schrödinger (chiuso com’è in una scatola ermetica dove un contatore Geiger può fare rompere una bottiglia di gas uccidendolo) è vivo o morto a prescindere se ne siamo a conoscenza: non vedendolo, diciamo che è possibile che sia morto quanto vivo; e giudichiamo probabile che sia in una delle due condizioni secondo una legge che fino agli inizi del Novecento era ritenuta contro-natura: la legge della probabilità, fondata sul regime della statistica.

L’uomo era convinto che, come diceva Einstein, Dio non gioca a dadi e che ogni fenomeno naturale risponda a comandi deterministici legati in un rapporto di causa ed effetto. Proprio Einstein è rimasto fino alla fine contrario ad accettare le acquisizioni della meccanica quantistica, che accoglie con slancio - ribaltando il sapere umano - il principio di indeterminazione di Heisenberg, che dalla regola probabilistica risale alla scoperta che ciò che si osserva muta al variare dell’osservatore, il quale è misura di tutte le cose. Esattamente quello che diceva Protagora. Nulla è certo e predeterminato in natura, che ha anche il Caso come divinità. I classici sapevano già che il mondo cambia da persona a persona e che la fortuna disputa al destino la vicenda umana e le metamorfosi del creato. Tacito, pur non scegliendo tra la necessità del destino e il gioco del caso per spiegare le “cose umane”, ipotizzava che se il destino è segnato sin dalla nascita, nel caso in cui i fatti non corrispondano alle previsioni, la colpa è di chi ha sbagliato le predizioni, cioè di chi ha osservato lo svolgimento e ne ha tratto conclusioni “inconsulte”.

Se l’uomo misura le cose, il caso guida l’uomo. L’antropologia, una delle scienze più moderne, si fonda su entrambe le teorie: l’antropologo osserva, sul “terreno”, una comunità e la trasforma con la sua sola presenza. La sua intrusione ne modifica il comportamento ed è guidata dalla circostanza fortuita che si imbatta in individui che quel comportamento interpretino al meglio. Il suo studio dipende quindi da come osserva e da chi incontra, come dire che è la probabilità a determinare i risultati della ricerca.
La più grande scoperta della fisica è stata appunto il canone del caso, il ritorno cioè alle imperscrutabili leggi di natura, fondate su un principio, quello di probabilità, che essa stessa però non conosce. Bohr (il padre di un altro caposaldo della fisica quantistica, il principio di complementarità, che si aggiunge agli altri due grandi nuovi fondamenti del Novecento: il principio di incompletezza di Gödel e il principio di relatività di Einstein) risolse con un’accettazione di fatto il problema degli inspiegabili salti degli elettroni negli atomi e dell’imprevedibile decadimento dei nuclei radioattivi, fenomeni che avvengono su base meramente casuale: si tratta - riepiloga David Lindley in Incertezza (Einaudi, 2008) - di processi, governati dall’incertezza quantistica, che avvengono indipendentemente dal fatto che qualche osservatore vi presti attenzione.
Questo significa che le “cose umane” non sono tali perché ne veniamo a conoscenza, ma sono tali a priori. L’uomo è dunque misura delle cose sì, ma solo di quelle che può verificare e determinare. Eppure non sono anche degli eventi il distacco ad una latitudine sperduta e lontana dagli uomini di un iceberg che vada alla deriva o l’incendio che in un bosco remoto un animale provochi con una accidentale combustione? Diventano fatti solo quando l’iceberg viene intercettato o l’incendio avvistato oppure lo sono già naturaliter? Una risposta ci viene già dalla fede cristiana, che respinge il principio di realtà e si fonda su un dogma di presunzione per il quale crede chi non vede.
Il principio di verificazione e di constatazione ha dominato il pensiero filosofico fino anche al Circolo di Vienna, dove la teoria di Wittgenstein, secondo cui bisogna tacere su ciò di cui non possiamo parlare, ha portato ad affermare che anche il significato di una proposizione coincide con il metodo con cui viene verificata: come dire, ancora una volta, che l’osservatore misura e modifica la “cosa umana” come anche la cosa naturale e la cosa logica.
Se riflettiamo sulle conseguenze dell’interpretazione di Vienna, troviamo che anche chi legge un romanzo ne modifica il contenuto in maniera diversa da un altro lettore. Sicché se l’uomo è misura delle cose umane, il lettore è misura delle cose letterarie, delle opere dell’invenzione e della ricreazione del mondo. Ed è arrivato per primo rispetto ai fisici, ai filosofi e agli antropologi. Già l’uomo primitivo, notava Vico, di fronte ai fenomeni umani e materiali, "ristà": cercando di spiegarli, li osserva e li "romantizza", cioè li racconta e li traduce in metafore. Per esempio l’ira diventa sangue che ribolle perché il primitivo sente davvero questa sensazione dopo aver visto la lava di un vulcano.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce come non si possa misurare contemporanemente la velocità e la posizione di un fotone senza modificare una delle due variabili al solo compimento della misurazione, è nato con l’uomo grazie alla sua funzione innata di romantizzare il mondo, di misurarlo e di modificarlo, ognuno secondo il proprio principio di determinazione letteraria. Un modo per affermare il primato della letteratura. Gli dei, dice Omero, tessono storie perché gli uomini possano raccontarle.