Già nell’introduzione, Verga maschera l’intento di rappresentare nei Malavoglia la realtà «com’è stata» dietro un retropensiero che agisce come correttivo palinodico: precisando di volere raccontare la realtà anche «come avrebbe dovuto essere», monta sulla macchina verista, appena collaudata in Vita dei campi, un meccanismo di autodistruzione che entrerà clamorosamente in funzione tredici anni dopo con Don Candeloro e C., quando, scoprendo come nella realtà sia più facilmente ravvisabile, più che il documento umano, il sentimento interiore - e per questa via la percezione intuitiva del reale fino al grottesco, insomma l’elemento transeunte - ritratterà, come ha colto Carla Riccardi, il valsente del suo realismo epico e scioglierà quello che Luigi Russo chiama «pregiudizio veristico» in una soluzione prefiguratrice della civiltà letteraria decadentista, ancor più in chiave pirandelliana.