lunedì 28 agosto 2023

Verga, come smontare il "meccanismo delle passioni"


Già nell’introduzione, Verga maschera l’intento di rappresentare nei Malavoglia la realtà «com’è stata» dietro un retropensiero che agisce come correttivo palinodico: precisando di volere raccontare la realtà anche «come avrebbe dovuto essere», monta sulla macchina verista, appena collaudata in Vita dei campi, un meccanismo di autodistruzione che entrerà clamorosamente in funzione tredici anni dopo con Don Candeloro e C., quando, scoprendo come nella realtà sia più facilmente ravvisabile, più che il documento umano, il sentimento interiore - e per questa via la percezione intuitiva del reale fino al grottesco, insomma l’elemento transeunte - ritratterà, come ha colto Carla Riccardi, il valsente del suo realismo epico e scioglierà quello che Luigi Russo chiama «pregiudizio veristico» in una soluzione prefiguratrice della civiltà letteraria decadentista, ancor più in chiave pirandelliana.
Quando lavora agli elaboratissimi Malavoglia, Verga non ha per nulla chiaro il progetto che ha in mano (compiacendo il Tilgher secondo cui «un autore non deve mai avere piena coscienza del suo mondo interiore») e se si ferma per mesi fino a dirsi «istupidito» non è solo a ragione delle sue luttuose vicende familiari. Pur convinto di «sapere fare lo stufato», cioè di conoscere la ricetta di quella che dev’essere la nuova maniera, sulla linea di superamento del romanzo psicologico, del realismo francese e russo e del naturalismo zoliano e con esso del recidivante pattern manzoniano, Verga non crede fino in fondo nel cespite verista e in quel crisma dell’impersonalità e dell’oggettività che lo sorregge, sebbene alla sua sola ricerca estetica venga egli comunemente ricondotto.
Quando manda a Treves i primi tre capitoli del romanzo, e ne espunge le prime quaranta pagine, rinuncia alla descrizione di ambienti, paesaggi e personaggi, e quindi agli effetti dell’oggettività scientista e positivista, perché sicuro di potere offrire una «illusione completa della realtà» - non più che un’illusione dunque - da rappresentare senza alcuna «messa in scena», al di fuori perciò non solo della tradizione del romanzo ottocentesco ma anche della lezione prevalente, quella zoliana, cui pure si mostra sinceramente bendisposto, lezione che gli imporrebbe il bando non solo dei toni elegiaci pronunciati nei modi di una pietas che non riesce a tenere al di qua di una mera condiscendenza solidaristica, ma anche degli stati di coscienza di cui invece I Malavoglia trasudano.
Convinto che se una scienza debba essere ammessa sulla nuova scena letteraria non possa essere che quella del «cuore umano», Verga non ha alcuna intenzione di fermarsi a registrare la realtà secondo il codice naturalistico. E mentre confida nell’improbabile ipotesi di riuscire a scrivere un romanzo flaubertiano che possa dare l’impressione di essersi fatto da sé, ricreando una cosmogonia umana fatta prevalentemente di contadini e pescatori che Contini riporta all’idea di «assoluto naturale», non riesce purtuttavia a liberarsi del più verghiano degli elementi malavoglieschi: l’«interiectio ex persona poëtae», l’indulgenza cioè compartecipe di tipo decisamente manzoniano verso la vicenda umana. 
L’impersonalità di Verga non va oltre l’esercizio, riuscitissimo soprattutto nei Malavoglia, dell’indiretto libero, un artificio di rara genialità (derivato certamente dallo jargon siciliano ispirato agli ctoni giri sintattici) che gli permette di esprimersi nelle vesti di autore attraverso quelli che lui chiama non a caso, quasi fungendo da regista, «i miei attori». Il distacco sentimentale, in favore di un ricercato e ostentato rigore verista, è nei Malavoglia un impegno non mantenuto dopo la strettissima medley creata tra la forma di canto popolare, amniotico e larmoyant, e il contenuto di tragedia eschilea, giapetica e splenetica, che nulla può concedere a un atteggiamento dispensatorio.
Se non bastasse la sola introduzione, dove Verga confessa di volere non tanto seguire l’esempio di Zola, per cui basta sostituire la parola romanziere a quella di medico per «illuminare il pensiero del rigore della verità scientifica», quanto smontare pezzo per pezzo «il meccanismo delle passioni» - quelle passioni che sono «il movente dell’attività umana» e il cui «congegno va complicandosi a misura che la sfera umana si allarga» - decisive appaiono le tesi espresse da Verga nella prefazione a L’amante di Gramigna (dove «il misterioso processo per cui le passioni si annodano» costituisce «l’attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l’argomento del racconto e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico») e soprattutto in Fantasticheria, che vale come cartone preparatorio dei Malavoglia ma anche come enunciato di poetica nel senso di una esplicita e incontenibile vocazione al dato memoriale e al richiamo del cuore.
Ma una prova definitiva circa il penchant paraverista dei Malavoglia, quel verismo che appare pervasivo invece nel Mastro Don Gesualdo (romanzo meno lirico e più borghese, meno epico e più naturalistico) e soprattutto nelle novelle maggiori di argomento siciliano, la offre la seconda prefazione agli stessi Malavoglia che Verga non vuole pubblicare perché in contraddizione stridente con la prima: è qui che ritroviamo tutti gli elementi che inscrivono Verga in quell’anagrafe postromantica e postmanzoniana a ridosso della quale fanno le prime prove le nuove urgenze dell’educazione pirandelliana e primonovecentesca, della coscienza, della memoria e dell’introspezione interiore, dove, pure linguisticamente, il discorso indiretto libero, dentro il quale già balugina lo stream of consciousness jocyano, si traduce nell’anteproustiano monologo interiore teso al recupero della memoria, di cui la prefazione a Nedda appare un inaspettato e rivelatore prodromo.
Nella prefazione rifiutata, l’elemento del grottesco (che fa così la sua prima presaga apparizione) viene visto come «artistico», tale da dover essere affidato agli strumenti conoscitivi di un «osservatore» che deve restituirne «la fisionomia storica» in uno stato di coercizione: non può non «subire il sentimento dell’attività umana» e non può non assistere alla «processione fantasmagorica in cui passano tutti gli appetiti, tutte le febbri, tutte le avidità, tutte le aspirazioni grandi e piccine». La preferenza verso un atteggiamento per cui il mondo debba essere, per il tramite dei suoi individui più che attraverso lo studio dei reperti sociali, immaginato e inventato anziché notomizzato e descritto è espressa da Verga in una lettera a Capuana: «Mai riusciremo ad essere schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi».
Nella stessa lettera Verga si dice indeciso se, ai fini della stesura dei Malavoglia, gli convenga stare «in riva al mare, fra quei pescatori, per coglierli vivi come Dio li ha fatti», oppure guardarli «da una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano o Firenze». In realtà una inderogabile adesione al modello verista non potrebbe instillare dubbi in Verga, che pure è altrove attentissimo a documentarsi dal vero. Di qui allora il segno che ciò che preme maggiormente a Verga agli effetti dei Malavoglia, ma soprattutto dei Vinti, è il quadro panoptico, un progetto che ritroviamo illustrato in una lettera a Salvatore Paola Ventura dove Verga confida di avere in mente «una specie di fantasmagoria della lotta per la vita che assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità di guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano, lotta provvidenziale che guida l’umanità attraverso tutti gli appetiti, alti e bassi, alla conquista della verità».
Ecco quindi che la vera poetica verghiana, tesa a determinare la verità non della realtà sociale ma del gran grottesco fantasmagorico della vita per mezzo di un’indagine che non si serva dei mezzi offerti dal positivismo biologico e lombrosiano (lo stesso che spinge un Capuana a indulgere sulla pazzia del marchese di Roccaverdina o un De Roberto a indugiare sulla linea degenerativa degli Uzeda - per rimanere nella sfera delle reazioni psichiche anziché delle azioni fisiche) ma che faccia propri gli strumenti dell’indagine psicologica, il cui esercizio preclude un disimpegno morale e, peggio ancora, un approccio dettato dallo statuto dell’oggettività; ecco allora come, nella coniugazione tra coscienza («Il realismo - dice Capuana - lo intendo come osservazione coscienziosa») e scienza, Verga riesca a rintracciare l’argomento da dare al suo verismo. Da un lato, come osserva Asor Rosa, il principio estetico, cioè la forma, prevale su quello scientifico, cioè il contenuto naturalistico, così da elevare il concetto di verità a un’altezza puramente estetica; da un altro lato Verga dichiara di volersi «mettere nella pelle dei personaggi e vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle con le loro parole»: un esperimento che lo chiama non solo a chinarsi «sui caduti per esaminarne le convulsioni» per poi dire «Che peccato!», come suggerisce una delle tante versioni teoretiche del suo credo verista, ma soprattutto a fare coincidere, seguendo con mirabile successo De Sanctis, forma e soggetto: inventando una lingua che tiene aderente all’ambiente e che cambi con l’ambiente e ricostruendo, per dirla con Russo, «le costumanze antiche e severe» di un villaggio col restituirne anche i proverbi e lo stato corale di pensiero.
Il risultato è una prova di realismo mitico entro un quadro di assoluta invenzione dove molti studiosi, da Momigliano a Russo a Serra, hanno stentato non poco a sorprendere elementi che possano dirsi autenticamente veristi se non nella chiave di un naturalismo evoluzionistico dove, come osserva Capuana, la fedeltà al reale si presenta come semplice amore del vero.
Il realismo mitico verghiano, quello stesso realismo che, privato dello sperimentalismo linguistico, porta da Teocrito a Vittorini, connota I Malavoglia in ciò, che alla fredda obiettività si sostituisce la ricerca tutta sentimentale e poetizzante della terra nativa e dei valori morali ed etici frutto di una società preferita nel suo assetto storico perché fondata sulla religione della famiglia e sulla fedeltà alla tradizione, invalendo accanto all’«ideale dell’ostrica» il contiguo mito dell’infanzia e dell’adolescenza, il vagheggiamento nostalgico del mondo «primitivo» contro l’aridità del dettato scientifico: insomma quel fulgore pure letterario che, pervadendo il Novecento e perdurando fino ad oggi, rende I Malavoglia un romanzo ancora moderno, come scritto ieri, al di là del suo carattere di opera consacrata sull’altare di un realismo verista ormai più che storicizzato.