Il romanzo che ha vinto lo Strega – opera di un autore, Sandro Veronesi, già insignito del massimo premio italiano per Caos calmo, libro non dissimile da Il colibrì, peraltro con la stessa epigrafe di Beckett, quasi un’intimazione: “Non posso continuare. Continuerò” – comincia con un’affermazione che vìola uno dei princìpi fondamentali di narratologia: scrivendo dopo otto righe che “la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede”, Veronesi teorizza l’unificazione di ciò che deve invece rimanere rigorosamente separato, appunto la descrizione e la narrazione, tecniche che rispondono a esigenze ben diverse, ecfrasiche la prima e diegetiche la seconda. Salvo poi occupare ben nove pagine di un interminabile e stucchevole elenco di oggetti di arredamento, prezzo compreso, tredici per una relazione scientifica destinata a un convegno senza però un solo termine scientifico, sei per riportare la biografia del vignettista Osamu Tezuka; e salvo sciorinare una tirata da costipazione descrivendo quanto vede dai pini di Via di Monte Caprino a Roma. Descrizione che fa a pugni con la narrazione quando appare un altro elenco, quello dei volumi mancanti della collezione Urania, farcito dei racconti circa la loro perdita: un effetto Salambò (dal titolo del romanzo di Flaubert gravido di numeri privi di ogni relazione con la trama, puro storytelling) decisamente molto sgradevole.
Violazione altrettanto grave è ancora quella della regola fissata già da Aristotele secondo cui in un romanzo (o tragedia o poema che sia) l’accidentalità e il superfluo vanno eliminati, mentre Veronesi abbonda in maniera incontenibile nel circostanziale e nel banale secondando pure una forma di minimalismo che trascende nell’insignificanza quando rivela che un’amaca costa 62,99 euro e non 104 grazie all’offerta della settimana trovata all’aeroporto di Monaco o quando indugia a spiegare, come fosse per lui una grande scoperta, perché i periodici riportino la data di pubblicazione di quattordici giorni dopo o ancora quando si impegna in una cervellotica tirata per dimostrare che un uomo è morto (addirittura schiacciato da un carico di acqua sganciato da un elicottero) per una frazione di secondo sufficiente perché un altro si senta il suo assassino.
Ma gli ineffabili Amici della domenica hanno graziosamente sorvolato su tali sottigliezze, come pure – ancora nelle primissime pagine - su due termini che stanno insieme come i capponi di Renzo: “esiziale”, che è buono per la Crusca, e “capoccella”, tipico dei ‘noantri, espressione gergale che poi ne richiama altre (toscane) quali “accapò” o “fittonata”. Già nel solo primo capitolo di appena quattro pagine compare poi una costruzione sintattica – “instillandovi prima incredulità, poi sconcerto e infine un dolore che non potranno essere curati dalla sua (dell’oculista) scienza” – che pretende di mettere sotto cura pure emozioni come l’incredulità e lo sconcerto.
Il rispetto dell’italiano e della buona forma non è la prima preoccupazione di Veronesi se si lascia andare a frasi del tipo “ospitare un demone anche solo perifericamente”, “espressioni scarognate”, “se ne commosse”, “vecchi amici con cui non c’era null’altro di cui parlare se non i vecchi tempi”, “dopo appena due giorni la tragedia di Larnaca cominciò a scivolare indietro nei sommari, là dove lo spazio si comprime inesorabilmente” (ma Veronesi sa cosa sono i sommari nei giornali? Scivolano? Si comprimono?) e si concede per soprammercato un “ius repertoris” di conio tutto personale, una corriva citazione come “lo zio Albert” per ricordare Einstein e un americaneggiante slang quale “tentacoli che gli risalgono su per il collo” che ricorda ben altra espressione, peraltro riportata eccome, oltre che monologhi interiori e supposti flussi di coscienza spalmati in periodi lunghi anche tredici pagine come nel caso del ricordo di Adele morta.
Veronesi è magistrale nel lavorare in distrazione e di assurdo, parola che gli piace molto adottare. Due soli esempi: Carrera e Carradori si danno appuntamento per la sera al telefono ma quando poi si sentono si dicono “Buongiorno”; nella lettera del 2015 a Luisa, Marco parla della notte in cui l’ha vista con Giacomo e usa il passato prossimo quando però sono passati ben quarant’anni. Imperdibile poi la distinzione tra la bolla e il mostro, la prima chiamata per qualche motivo “discorso” e il secondo “fuori discorso”. Niente, è vero, a paragone dell’incipit stravagante di Caos calmo, dove l’io narrante soccorre una donna in mare e avvinghiato a lei per salvarla si ritrova un’erezione come se fosse su un autobus affollato.
Licenze, si dirà: come quella che si prese Paolo Giordano, vincitore anch’esso dello Strega nel 2009 con il celebrato La solitudine dei numeri primi, dove una bambina diventa zoppa perché a una gita scolastica, facendo prevalere - a sette anni - il pudore sulla paura di restare sola nella nebbia fitta, si apparta per andare di corpo e ruzzola; o come l’altra licenza che Giorgio Fontana, vincendo nel 2014 il Campiello, si prese con Morte di un uomo felice, dove un sostituto procuratore dice, come se fosse un giudice: “So che il mio compito finisce con una pena giusta per i colpevoli”, fanfaluca che non trattenne però la Sellerio dallo scrivere nel risvolto che l’autore “riflette sulla giustizia, le sue possibilità, i suoi limiti”.
Questi sono i romanzi che vincono i premi letterari più ambìti. Ma Il colibrì sbaraglia tutti. Soprattutto per una gemma che in uno Strega non dovrebbe davvero farsi trovare: il 17 ottobre 2008 Marco Carrera, il protagonista, scrive una email al fratello Giacomo e dice di non ricordare cos’è il frontespizio, sicché controlla Wikipedia e legge che è “la pagina iniziale di un libro, ovvero quella che il lettore vede per prima dopo aver aperto la copertina”. Sennonché nel 2008, l’ultima versione aggiornata della voce “frontespizio” precedente al 17 ottobre era stata del 6 ottobre e si leggeva, con qualche errore di concordanza, che il frontespizio “è la scritta, posta all'inizio delle pubblicazioni monografiche che presenta le informazioni più complete su di essa e sulle opere in essa contenute”. Veronesi che ha fatto? Ha consultato oggi l’enciclopedia telematica e ne ha ricopiato la definizione, dimenticando che nel 2008 il suo Marco avrebbe semmai potuto leggere ben altro.
Ma non è finita. Nella stessa email Marco scrive al fratello che la collezione di Urania deve tenerla lui nella casa di Chapel Hill, “che io - precisa - ho visto soltanto dall’alto con Google Earth”. Ma nel 2008 su Google Earth era possibile vedere appena una rappresentazione tridimensionale di sole 39 città Usa, per le quali il database permetteva di sovrapporre alle immagini poligoni grigi che indicavano la topologia degli edifici. Nonostante simili zeppe, sfuggite pure all’editing della casa editrice, i quattrocento giurati dello Strega sono stati generosissimi, premiando un romanzo che sconta pure gravissimi difetti di fabbrica.
Quello insanabile riguarda la costruzione diacronica dei tempi della narrazione, del tutto disarticolati rispetto a quelli della scrittura. Veronesi ha scelto di seguire non uno sviluppo cronologico della trama, ma di usare prolessi e analessi come in un geyser, saltando da un decennio all’altro, poi tornando indietro di trent’anni, quindi balzando nel futuro anche di dieci lustri: obbligando così il lettore a fare come per Cent’anni di solitudine e annotarsi cioè in un foglio – ma lì soltanto per i personaggi - le evoluzioni di ciascuno di essi, allo scopo di non perdersi nella giungla secolare di Macondo. In Il colibrì il solo forse a non smarrirsi nella impicciatissima tela da lui stesso intrecciata è stato l’autore. Il quale, scombinando come sabbia l’intreccio e la fabula, ha forse pensato di innovare la vena sperimentalistica che ogni tanto in Italia spunta qui e là impressionando vivamente i critici letterari ed evidentemente i giurati del Ninfeo, ma non ha ottenuto che una gran miscela di tempi, indicativi, passati, imperfetti, trapassati, una maionese impazzita del tutto indigesta ai lettori, costretti a ogni capitolo corrispondente a una nuova epoca a situare di nuovo fatti e personaggi dando loro un’età e domandarsi quali avvenimenti siano già avvenuti o meno. L’escursione turbinosa da un’epoca all’altra toglie a un certo punto al lettore il controllo del romanzo, necessario per sapere dove si è giunti nella narrazione. La tentazione è allora di rimescolare a proprio piacimento i capitoli e ordinarli secondo nuovi criteri, nella certezza che spostandoli nulla muti circa la struttura di un intreccio che non ha alcun criterio fondato e soprattutto alcuna giustificazione.
Quel che è peggio e irreparabile è in ciò, che la diacronia decontestualizzata, distorcendo l’uso dei tempi, rende il romanzo privo di un suo genere perché accresce la distanza del narratore dai fatti e dai personaggi e non offre alcun ubi consistam. Non è un romanzo d’ambiente, né storico, né sociale, né intimistico, né introspettivo, né psicomachico.
Forse sarebbe potuto piacere a Pirandello per certe derive gnoseologiche, ma lui ne avrebbe fatto sì un rompicapo, tuttavia lo avrebbe smontato e riscritto perché non fosse la forma a costituirsi in rovello ma la sostanza e cioè la mente umana. Veronesi ha fatto al contrario, riducendo la coscienza in epifenomeni elementari e facendone epifanie da caos scalminato. Si potrebbe dire allora che è un patchwork alla Veronesi, un colibrì che assomiglia a un millepiedi. E si deve dire senz'altro che i soloni dello Strega ne vanno proprio pazzi. Dio salvi la letteratura dagli Strega.