Articolo uscito su Libero il 18 agosto 2020
Un gran pasticcio quello che la Sellerio ha combinato pubblicando Riccardino, l’ultimo episodio del ciclo di Montalbano che Camilleri consegnò nel 2005 ad Elvira Sellerio e volle rivedere nel 2016 solo per “sistemarlo”, come disse chiaramente. Escogitando di pubblicare due volte il testo originario, prima nella Memoria (con la Nota dell’autore scritta però nel 2016) e poi, insieme con quello definitivo, in un volume fuori collana più costoso, rilegato e col nastrino segnalibro, intitolato Riccardino, seguìto dalla prima stesura del 2005, la casa editrice palermitana ha clamorosamente invertito nell’edizione di lusso addirittura le stesure, ponendo in apertura la più vecchia, ma datandola al 2016, e facendola seguire dalla più recente con la data del 2005. Una beffa ai lettori, chiamati a valutare l’evoluzione della scrittura e messi invece di fronte a un esempio semmai di regressione, di cui però non si sono potuti rendere conto.
Ma perché stampare un secondo concomitante volume di pregio con il testo originario già compreso in un altro paperback se lo stesso editore nella sua Nota parla di stesura definitiva e non di rifacimento alla maniera di “Ventisettana” e “Quarantana” dei Promessi sposi? La risposta è fornita dallo stesso editore che riporta a mo’ di epigrafe una dichiarazione di Camilleri: «Ho sempre distrutto tutte le tracce che portavano ai romanzi compiuti, invece mi pare che possa giovare far vedere materialmente al lettore l’evoluzione della mia scrittura». Sennonché l’editore parla solo di desiderio espresso dall’autore senza precisare quando e come sarebbe stato reso: certamente dopo il 2016, giacché non è contenuto nella Nota dell’autore dove solo si legge: “Non ho cambiato nulla della trama, però ho pensato fosse doveroso aggiornare la lingua. In questi anni si è tanto evoluta».
Quando allora Camilleri avrebbe manifestato un desiderio tale da contraddire il suo stesso operato e smentire la sua natura di autore nazional-popolare, tutt’altro che disposto a fare dei suoi lettori dei raffinati filologi sfidati a distinguere testi glottologicamente complessi oltre che diventare esperti di dialetto siciliano, in particolare agrigentino? Qualora se ne trovasse qualcuno, oggi leggerebbe comunque la stesura del 2005 seguìta da quella del 2016 credendo di fare il contrario. Un pasticcio appunto: senza contare le tante inesattezze dell’editore, a partire dalla pretesa di attribuire una paternità sciasciana a Camilleri, segnando l’inizio del suo successo con l’invito ricevuto dallo scrittore di Racalmuto a scrivere La strage dimenticata, così da dargli natali selleriani, quando il padre di Montalbano aveva già da anni esordito con Il corso delle cose (dove il commissario appariva in taccia di maresciallo) e Un filo di fumo, il primo uscito da Lalli e il secondo da Garzanti. Altra inesattezza la vantata originalità del testo del 2005 di cui in verità proprio quell’anno un quotidiano siciliano anticipò il primo capitolo, molto difforme dal selleriano.
Una terza impostura, la più significativa, riguarda la tesi secondo cui Camilleri avrebbe compiuto nel 2016 “un intervento profondissimo nella lingua”, declaratoria invero necessaria per giustificare la doppia pubblicazione di un testo che, come qualsiasi altro, è stato piuttosto rivisto nei modi di un lavoro di rifinitura proprio di ogni autore. Rimettendoci mano, Camilleri ha voluto di fatto eliminare il primo e proporre il secondo, operando interventi circoscritti e limitati: tanto da indurre in confusione lo stesso editore, che se ha trasposto le due stesure è perché non si è accorto delle superficiali differenze testuali. L’autore ha solo compiuto aggiustamenti rivolti soprattutto a smagrire il linguaggio, rendendo il siciliano un dialetto borghese col mutare per esempio parole come “mittuta” in “messa”, “spaddre” in “spalli”, “vuciulera” in “vociusa”, “nuatri” in “noi”, “rapruta” in “aperta”, e riconformando giri sintattici nella prospettiva di una lingua che nel 2016 non è più in Camilleri – che se ne accorge e lo scrive pure – quella vernacolarissima e a coda di topo del 2005.
Chiamato a spiegare il perché dei due “Riccardini”, Salvatore Silvano Nigro, l’eccellente esperto selleriano di Camilleri, ha finito per teorizzare una “lingua bastarda” che si è evoluta in una “lingua vigatese”: «La distinzione – dice – è dello stesso Camilleri nel testo del secondo "Riccardino", volendo egli distinguere tra mescolanza di italiano e dialetto e sincretismo siculoitaliano». Epperò Camilleri ha fatto altro: ha semplicemente sostituito nel 2016 l’espressione “lingua bastarda” con “lingua ‘nventata”, senza offrire alcun segnale circa un nuovo corso semantico, ma intendendo appena rendere più comprensibile un aggettivo alquanto fuorviante. La “lingua vigatese” non appare dunque nel 2016 perché è nata “bastarda” e inventata già in origine, suscettibile nondimeno di aggiornamenti essendo oggetto di progressive evoluzioni letterarie volute dallo scrittore.
Quanto alla pubblicazione del secondo Riccardino, Nigro dice che «l’ha voluta Camilleri, ribadendola per iscritto». Dunque ci sarebbe una dichiarazione scritta, elemento decisivo che però l’editore non ha provveduto a ricordare nella propria Nota. Ma a quando risalirebbe tale lettera? Nigro è laconico: «La lettera esiste. Io l’ho vista e l’ho letta. Ma occorre chiedere alla famiglia e alla assistente di Camilleri». Richiesti di un chiarimento, sia la famiglia che Valentina Alferj, nonché Antonio Sellerio, hanno tuttavia preferito tacere, destando in tal modo non pochi dubbi su una lettera che rivelerebbe un Camilleri così in contraggenio da far sospettare che negli anni dal 2016 al 2019 abbia ceduto all’idea molto materiale che, sfruttando il fascino del libro consegnato nel 2005 perché fosse postumo, fare uscire due “Riccardini” anziché uno sarebbe stato ben più lucroso, ben sapendo peraltro che ogni sua parola vale 80 centesimi. E in realtà i due “vini da tavola” (come in Riccardino sono chiamati due poliziotti) hanno avuto entrambi fortuna.