domenica 19 luglio 2020

Camilleri e il suo brutto doppione


L’ultimo episodio di Montalbano, intitolato Riccardino, è forse il peggiore, soprattutto quanto alla trama, che lo stesso autore boccia quando dice come personaggio al suo commissario: “Mi stai facendo scrivere di Riccardino un romanzo di merda”. Gioca, è vero, ma non scherza.
La sua struttura di metaromanzo è fondata su una missione impossibile che Camilleri si intesta come un rompicapo: fare finalmente incontrare il Montalbano televisivo con quello di carta dopo averli sempre tenuti separati. Scritto nel 2005, lo riprende nel 2016, a distanza di undici anni, non certo nel proposito di renderlo in un’altra forma, giacché non ha che rimestato lo stesso linguaggio, ma probabilmente per correggere una contraddizione di fondo, rimasta però irrisolta perché irrisolvibile. È intervenuto sulla forma perché non l’ha potuto fare sulla sostanza. Vediamo di che si tratta.  
Il libro che oggi leggiamo fu consegnato a Elvira Sellerio nel 2005. Il primo capitolo uscì in anteprima assoluta il 21 giugno 2005 sul periodico Stilos al quale Camilleri dichiarò che si trattava di un romanzo “futurissimo”, il primo peraltro con un titolo del tutto dissonante rispetto al suo modello consolidato che prevedeva una proposizione formata da un complemento di specificazione. Non era quindi ancora sua intenzione farlo uscire postumo, decisione presa solo successivamente, quando gli si chiarirà meglio lo sviluppo da un lato del rapporto tra il personaggio televisivo e quello letterario, da un altro dello stato di cedimento coscienziale della figura del personaggio e da un altro ancora del progressivo prevalere dell’elemento metafisico sulla diegesi analogica: risultato che si avrà in una prima elaborazione solo nel 2009 con La danza del gabbiano, il romanzo snodo nel quale Montalbano si chiede che tipo di storia deve raccontare a Camilleri, dice a Livia di non volere andare in vacanza nel Ragusano perché stanno girando un nuovo episodio televisivo, la soluzione del giallo arriva per un evento del tutto surreale e si ha l’affermarsi di quello che Camilleri chiamò “scarto della ragione”. 
Dall’epica della realtà Camilleri è passato all’epica dell’esistenza e nel 2016 vorrà in realtà definire il rapporto tra il suo Montalbano e quello di Zingaretti come anche quello personale con il personaggio, sicché si capisce che nel 2005 parla di “futurissimo” perché non ha chiaro il progetto. Come aveva detto di Montalbano, rimasto con un piede in aria fino a La voce del violino, non ha ancora egli stesso messo i piedi per terra. 
Ma la grande scommessa legata alla possibilità che desse soluzione a quella che era davvero la sua ossessione è stata persa. Riccardino è un romanzo legato al tempo in cui è stato scritto (tanto che Camillieri decide nel 2016 di non mutare la trama), quando i due personaggi, televisivo e cartaceo, sono in conflitto e nella prospettiva di rimanerlo. Vedendo il forte prevalere del primo, la soccombenza del modello alla copia, nel 2016 Camilleri ha inteso probabilmente dichiarare la resa del suo personaggio e, verificando come la sua creatura fosse stata ormai fagocitata dal suo doppio televisivo (mai l’ho sentito arrabbiarsi di più quando gli veniva fatto notare che, dato il successo della serie Tv, i suoi romanzi erano sempre più delle sceneggiature), ha voluto rimetterci mano per trovare come avvicinare le due figure. 
Non ci è riuscito e, recuperando la propria intransigenza, si è limitato a intervenire sulla forma a motivo anche del fatto che nel tempo il suo linguaggio si è via via andato stemperando perdendo l’originario carico dialettale per assumere forme meno espressionistiche e più piane, giusto che nel 2016 la scrittura di Camilleri non è più quella del 2005. 
La decisione di lasciare il romanzo del 2005 uguale nella sostanza lo ha indotto a mantenere, come signum individuationis, anche l’inciso in cui come autore dice al commissario che sta per compiere ottant’anni, in realtà prossimi nell’estate nel 2005. Che Riccardino sia un romanzo del 2005, perché è entro quella stagione che va inserito e non nell’altra maturata dieci anni dopo, è dimostrato dal fatto che nel 2005 esce La luna di carta, il romanzo-officina di uno sperimentalismo più marcato fatto di giochi combinatori, grovigli psicologici, effetti mantici, trovate borgesiane, volute surrealistiche. Insieme con La vampa d’agosto, Le ali della sfinge e La pista di sabbia, forma la quadrilogia dell’autoinganno lungo una linea che alla concretezza anche dei titoli sostituisce l’astrazione e lo scavo interiore del personaggio. 
Montalbano entra in rapporto diretto con l’autore, scrive lettere a sé stesso, si abbandona a suggestioni oniriche e inaugura così un percorso che da questo momento in poi andrà sempre più prendendo piede. Riccardino risponde pienamente a queste sollecitazioni, costituendone il culmine, e Camilleri ne dà atto quando nel romanzo postumo così dice come personaggio-autore parlando al commissario: “Tu accomenzasti già tempo fa con la storia delle dù fimmine e della morte del morto ammazzato con l’affare di fora. Lì hai fatto alcuni sbagli. Io non me ne sono accorto, ma qualche lettore sì e me l’ha segnalato”. Il riferimento è proprio a La luna di carta.
Nel 2007, commentando il libro in Tutto Camilleri (Barbera) così scrivevo di un irriconoscibile Montalbano: “Quando i suoi uomini lo vanno informando della serie di decessi oscuri avvenuti a Vigàta non reagisce come il lettore, che ha immediata percezione del legame tra la morte «passionale» dell’informatore scientifico e quelle inspiegabili dei notabili. Camilleri relega Montalbano nell’innocenza dell’inavvertenza, ma per fare ciò lo rende dimidiato: al punto che se gli dicono che la vittima faceva l’«informatore» pensa davvero a un confidente, preda dunque di un ésprit de l’escalier che gli annebbia la ragione e lo porta a capire tutto in ritardo. Un Montalbano in contraggenio: si ostina a non riferire al magistrato, provoca il suicidio di una donna per strapparle la verità con fare inquisitorio, non intuisce il motivo delle quotidiane convocazioni in questura, dà del tu a una donna indagata e per poco non cede alla sua avvenenza, dimentica di essere un poliziotto davanti alla bellezza dell’altra, compie ripetute violazioni domiciliari con assoluta disinvoltura”.
Riccardino è dunque un libro del 2005 e rivedendolo Camilleri ha provato ad aggiornarlo e renderlo conforme alle acquisizioni della sua ricerca in fatto anche di smagrimento della lingua, ma facendo ciò ha inteso ripudiarlo perché uscisse la sola versione corretta: sennonché la Sellerio, in una brutta operazione commerciale chiaramente opportunistica, ha stampato un’edizione con la stesura definitiva e in concomitanza un’altra più costosa che comprende anche la prima e che rocambolescamente ha intitolato Riccardino. Seguito dalla prima stesura del 2005, relegando così a un paralipomeno di appendice la versione che costituisce l’Ur-text, in realtà divenuto a quel punto solo un documento filologicamente interessante, e soprattutto scombinando le carte dell’autore, mettendo mano nei suoi cassetti e confondendo in maniera del tutto ingiustificata e inopinata il lettore. 
Nella prefazione Antonio Sellerio riporta una dichiarazione di Camilleri (senza dire però dove e quando è stata resa, perché non figura nella Nota finale, dove l’autore spiega solo di aver conservato la trama e “sistemato” la lingua) che in parte è certamente rispondente al vero (”Ho sempre distrutto tutte le tracce che portavano ai romanzi compiuti”) e in parte appare del tutto improbabile, oltre che fortemente contraddittoria: “Invece mi pare che possa giovare far vedere materialmente al lettore l’evoluzione della mia scrittura”. Camilleri ha davvero detto una cosa simile? 
In una dichiarazione all’Ansa Sellerio ha aggiunto che “Camilleri teneva a che i lettori fossero messi in grado di conoscere i cambiamenti nella sua scrittura”. Questo non risulta da nessuna parte, né c’è un solo dato di fatto che autorizzi a supporlo. Nella vasta opera dello scrittore scomparso il 17 luglio dell’anno scorso non si trova un solo titolo che sia uscito, anche a distanza di tempo, per sostituirne o solo aggiornare un altro. Nemmeno per Il re di Girgenti, che pure impegnò l’autore per oltre cinque anni spingendolo a redigere più stesure, fu ipotizzata la pubblicazione del testo scartato, quello sì del tutto diverso - persino nel contenuto - dalla versione pubblicata e certamente prova sofferta e significativa del lavoro fatto sulla lingua, ancorché secentesca. In verità Camilleri ha sempre concepito come definitivi i suoi testi, una volta consegnati all’editore: al punto da rendersi responsabile di errori usciti in volume benché ne fosse ben consapevole. La prova è nell’esperienza che ho personalmente fatto e che vale rendere oggi pubblica. 
Nel febbraio del 2010 Camilleri permise gratuitamente a Stilos di pubblicare, solo come libro omaggio allegato alla rivista, il suo racconto lungo “Lo stivale di Garibaldi”, che insieme con “Il palato assoluto”, altro racconto inedito uscito lo stesso anno su Stilos, è poi stato raccolto nel libro Sellerio del 2016 La cappella di famiglia. Quando lessi il dattiloscritto, come al solito scritto a caratteri molto grandi (per i suoi nuovi problemi di vista) e con un'ampia spaziatura, trovai due errori gravi. Il primo, in occasione del viaggio per mare del prefetto Falconcini: “Biniditto omo, ma non c’era il treno?”. Il treno riappare più avanti quando scrive, rivolto direttamente al personaggio: “Possibbili che non accapisci che il distino ti sta dicenno: talè, Falconcini, sta attento che viniri ‘n Sicilia non è cosa, ti conveni ristari supra al postali, tornaritinni a Palermo e da lì pigliari il treno per il continenti?”. Avendo l’arrivo del prefetto una data precisa nel racconto (“Erano le deci del matino del tridici di austo del milli e ottocento e sissantadù”), l’errore consistette nell’anticipare di un anno la nascita in Sicilia della prima linea ferrata Palermo-Bagheria. 
L’altra svista era legata a un’altra data, laddove Falconcini veniva fatto sbarcare a Palermo “un anno appresso lo sbarco di Garibaldi”. Che però è del 1860. Feci notare i due infortuni a Camilleri che ovviamente mi autorizzò a modificarli accettando la mia soluzione: nel primo caso scrivendo “Biniditto omo, ma non c’erano mezzi più comodi?”, nel secondo “papore” al posto di “treno” e nel terzo “due anni appresso”. Il testo consegnato alla Sellerio e apparso nella raccolta di racconti del 2016 è quello originale e mantiene quindi i clamorosi strafalcioni, segno che la casa editrice palermitana non sottopose ad alcun editing un dattiloscritto ritenuto sacro e infallibile. Quel che rileva è che, forse per dimenticanza, nemmeno Camilleri si preoccupò di apportare nell’originale le correzioni da lui stesso autorizzate. Riteneva definitivo il suo testo così come era uscito dalle sue mani. 
Se questo fece proprio nell’anno, il 2016, in cui Antonio Sellerio dichiara che lo scrittore riprese Riccardino, lo stesso anno in cui deve aver consegnato alla Sellerio “Lo stivale di Garibaldi” scorretto, viene fatto di credere che, se in uno lascia gli errori o addirittura se ne dimentica, nell’altro voglia sì apportare delle modifiche sostanziali, correggendo errori di altra natura, ma rinunci a farlo e, fermandosi alla superficie, preferisca mantenere un romanzo sbagliato, dalla trama farraginosa, che tuttavia considera unico e indivisibile: ma come consegnato non più nel 2005 bensì nel 2016 riveduto e corretto unicamente nella forma lessicale. 
Non c’è dubbio (per usare una sua espressione tipica) che nella Nota Camilleri avrebbe dichiarato la volontà di vedere pubblicate entrambe le stesure, anzi ci avrebbe anche ragionato sopra fornendo ogni spiegazione di una scelta del tutto nuova e inopinata. Non l’ha fatto, perché si sarebbe tradito. Chi conosce la sua vita e la sua opera, sa bene che non avrebbe mai portato i suoi lettori a mutarsi in glottologi e filologi e studiare - lui così nazionalpopolare - differenze linguistiche e sottigliezze semantiche proprio per smussare le quali ha voluto “sistemare” Riccardino. Pubblicando anche la versione scorretta in un secondo libro, si è commemorato Camilleri nel peggiore dei modi. Ma nel migliore guardando ai maggiori incassi. Una pessima trovata quella di Antonio Sellerio. La madre, Elvira, non l'avrebbe mai avuta.