giovedì 20 luglio 2017

E se il Porto di Ulisse fosse Agnone?




Secondo una diffusa interpretazione dell’Odissea, superati l’empusa e il gorgo di Scilla e Cariddi, Ulisse approda in Sicilia, con cui è identificata “l’isola del Sole”: identificazione disinvolta, dal momento che non si comprende come Odisseo, nel racconto che fa ad Alcinoo, possa sapere, trattandosi della Sicilia e non di Itaca, di avere davanti un’isola e non un continente. Ad ogni modo vi arriva autix’epeita, cioè subito dopo. Questo significa che attracca in un punto della costa ionica, non lontano dallo Stretto siculo-calabro. Ma dove?
La tradizione ha voluto che due siano ancora oggi le località chiamate “Porto d’Ulisse”: il porticciolo di Ognina a Catania e la baia di Ispica, nella zona tra l’Isola delle Correnti e il Focallo. La ricerca storica e filologica non si è impegnata molto nello sforzo di individuare il porto esatto ed ha peraltro lasciato che gli studi si fermassero addirittura all’Ottocento, quando si credette davvero che Omero raccontasse dal vero. A Ispica l’ultimo ricercatore è stato fino a qualche anno fa Sesto Bellisario, che in un libro sull’antica Apolline non ha però indagato il fondamento del toponimo, così affidando ogni supposizione ancora alla leggenda: secondo una versione della quale Ulisse sbarca proprio nell’insenatura iblea pullulante di buoi sacri al sole, come tramandano - o sembrano tramandare - autori quali Cicerone e Plinio. La baia in realtà, con il promontorio chiamato Punta Castellazzo, si offre senz’altro come porto naturale, dalle acque calme quali le indica il testo omerico e in epoca panellenica operante realmente da scalo marittimo, peraltro molto attivo e battuto soprattutto dai Fenici. 
Depone a favore del Porto d’Ulisse ispicese contro quello etneo il discorso che Euriloco fa a Odisseo per convincerlo ad ancorare, prospettandogli il rischio di finire preda di una tempesta di vento e delle correnti che imperversano nella notte, fenomeno che se può essere documentato all’incrocio tra lo Jonio e il Mediterraneo non lo è invece nel più riparato spazio marino prospiciente Catania. 
Altri argomenti a favore sono suggeriti ancora dal testo quando riporta che la nave viene tirata a secco dentro una grotta, magari una delle tante spelonche o un anfratto della baia; che per un mese si alza un vento aspro e incessante; e che la nave, preso il largo, viene colpita prima da Zefiro, che è un vento di ponente, e poi da Noto, vento impetuoso che soffia da sud, entrambi incompatibili con il Mare Jonio visti i danni disastrosi subiti dall’imbarcazione, che seppure voluti da Zeus cui tutto è possibile non sono certo coerenti con l’assetto realistico-naturalistico dato dall’autore agli avvenimenti. Ma ci sono da considerare altri aspetti e la possibilità di trovare un terzo Porto Ulisse.
Attenendoci al testo, vediamo che, sbarcati gli Achei nell’isola e messo al sicuro il vascello, mentre gli uomini si riposano, Ulisse si inoltra nell’entroterra per pregare gli dèi e chiedere di poter conoscere la via del ritorno. In verità non ha motivo di spostarsi per pregare, potendo solo appartarsi sulla spiaggia, sicché appare chiaro che allontanandosi va in direzione di un tempio, che ovviamente non dev’essere molto distante e che conosce. Quale? Omero non lo lascia neppure immaginare, ma al suo posto ha provveduto l’esegesi antica. 
Nella “Vita di Marcello” Plutarco annota che Ulisse va nel tempio delle dee madri dove lascia con alcune offerte tra aste e rotelle di rame anche la propria iscrizione perché il suo atto divenga di pubblica conoscenza, essendo evidentemente molto sentito. Nello stesso tempio andrà Scipione Africano e c’è già stato Merione Cretese, entrambi portando donativi e decisi a “firmare” anche loro la propria presenza. 
Ma dov’è questo tempio? E perché Ulisse ci va? E chi è Merione? E chi sono poi le dee madri tanto adorate da indurre un re nobilissimo e straniero come Odisseo a raggiungerle? Nessuna di queste domande ha avuto una risposta certa. Ma è nondimeno altrettanto certo un punto: la confusione fatta dagli scrittori di tutti i tempi, che è enorme.
A farne molta è nel secondo Cinquecento Tommaso Fazello, un’autorità riconosciuta, che nella sua “Historia di Sicilia”, parla del Porto d’Ulisse in riferimento non alla baia del Focallo né al porticciolo di Catania di Ognina, bensì a un terzo luogo chiamato Ingiuni, che sarebbe Igniuni, come dice Vito Amico, cioè l’odierna Agnone, ovvero lo sbocco a mare di Lentini, dove al tempo di Fazello si teneva una grande fiera del grano e secondo Amico operava un caricatorio di frumento, segno che dunque l’attracco fungeva come porto di carico e scarico. 
L’equivoco che lo storico domenicano di Sciacca ingenera è di chiamare la località Lognina, cosa che indurrà un secolo dopo Pietro Carrera (un prete passato alla storia come un accanito giocatore di scacchi e un grande mistificatore della storia) a individuare il porto di Ulisse a Ognina, contrada periferica e marina di Catania, e a montare un vertiginoso teorema che prende a pretesto il nome di Ongia dato da Fazello alla località originaria per risalire all’etimologia di Ognina, attribuire ad Ongia la natura di Madre magna e identificarla nella madre degli dèi Cibele, pretendendo infine di unificare le dee madri del fantomatico tempio nel nome di una Grande madre, Cibele appunto, adorata nella città leggendaria e favolosa visitata da Ulisse: la piccola ma celeberrima Engio, per Carrera storpiatura naturalmente di Ongia, come Cibali, quartiere catanese, lo è di Cibele. Una grande impostura.
Carrera, autore delle contestatissime “Memorie historiche della città di Catania”, adduce l’esistenza di una epigrafe mai trovata e tacciata di falso per spiegare alcune medaglie di una collezione privata che raffigurerebbero la dea Ongia, epiclesi di Cibele e personificazione delle dee madri di Engio, attribuendole il titolo di Madre magna alla quale il pastore Aci eleva un tempio a Lognina, cioè nel porto di Ulisse. 
Appare evidente che il proposito di Carrera, nativo di Militello ma catanese di adozione, è di dare a Catania origini mitiche se non divine, senonché è onesto quando ammette che esiste un’altra località chiamata Lognina e si trova “nella marina di Siracusa”, dotata anch’essa di un naturale porto-insenatura che come quello etneo ben si presta all’attracco di una nave in un territorio al riparo. Che Lognina aretusea sia allora un possibile Porto d’Ulisse? Questo non è adombrato da alcuna fonte, tuttavia Siracusa ha un suo ruolo nel gioco combinatorio di ipotesi. 
Fazello scrive infatti che i Romani aspettano di assalire Siracusa tenendo cento navi all’àncora in località Morgantia, città marittima fondata dai Morgeti e citata da Cicerone e Strabone, sorta sulle ceneri dell’antichissima Engio, che dunque deve essere stata anch’essa marittima e, secondo Fazello, non lontana dal fiume Teria, che poi diventa il Giaretta e oggi è il Gornalunga. Proprio nel testo omerico (nella traduzione prosastica di Guido Paduano) è descritto l’ancoraggio della nave nel “porto profondo, vicino all’acqua dolce”, quindi in un fiume, quale poteva essere appunto il Teria che sfociava non lontano da Agnone. La quale Agnone è per Fazello il vero Porto d’Ulisse e pure l’antica Engio. 
Vito Amico però lo smentisce e dà ragione a Cluverio il quale non ha dubbi a indicare Engio ai piedi di Gangi, dove oggi è accettato che la città pregreca venga ufficialmente situata. Secondo Amico sarebbe stata distrutta da Federico II nel tredicesimo secolo per essersi ribellata al suo scettro, senonché Fazello ci dice che l’imperatore svevo c’entra sì con Engio ma perché si rese artefice della costruzione ad Agnone di un tempio mai finito che doveva essere “maraviglioso”.
In effetti sono legittimi i dubbi sulla localizzazione a Gangi di Engio, la città che con Minoa fu la prima a essere fondata da popolazioni straniere, in questo caso cretesi. La storia “favolosa” della Sicilia, quella dell’età antecedente all’arrivo dei Greci, racconta che i cretesi, dopo la morte del loro re Minosse, rimasero in Sicilia ma si divisero: una parte fondò Minoa e un’altra percorse la costa e la risalì fino ad arrivare nel luogo dove edificò Engio. Un’altra lezione vuole che i cretesi in dissidio anziché seguire la riviera si siano inoltrati nell’entroterra e abbiano fondato Engio dal nome del fiume che l’attraversa, fiume del quale però non si ha alcuna traccia.
La città trova poi nel compatriota Merione (reduce con la sua armata da Troia e giunto forse per caso o disavventura in Sicilia, proprio come Ulisse) la sua fortuna perché grazie a lui conquista con la forza un vasto territorio circostante e diventa così opulenta da costruire un costosissimo tempio dedicato alle dee madri cretesi, nessuna delle quali nominata ma acquisite insieme per una sorta di Pantheon di divinità greche che guadagna larghissima rinomanza, tanto da essere noto anche ad Ulisse. Per costruire il tempio Diodoro Siculo riferisce che fu necessario prelevare con dei carri i sassi da Astigione de’ gli Agrinei, città distante dodici miglia e mezzo e identificabile con Agira, che era la sua patria. Ma ostano alcune obiezioni, la più convincente delle quali è quella agitata proprio da Carrera, secondo cui la distanza tra Gangi e Agira era pressoché il doppio e la strada si presentava del tutto impraticabile anche per dei carri. 
Il tempio si trovava peraltro in un territorio dove erano ad esso consacrati tremila buoi, una quantità tale da richiedere foraggio che solo un terreno frumentario poteva assicurare e non certo uno sassoso. Engio doveva dunque trovarsi in tutt’altro posto. Ma dove?
A stare ancora al testo dell’Odissea, Ulisse e i suoi compagni vedono e sentono le vacche del sole già dalla nave. Sono sacre e sono tantissime perché intoccabili. Pascolano liberamente in un terreno che può dare loro ogni sostentamento. A dare ragione a Fazello che stabilisce Engio ad Agnone dove fissa anche il Porto d’Ulisse, la millenaria questione se Engio fosse una città marittima o mediterranea (cioè interna) sarebbe dunque risolta a favore della prima ipotesi. 
Agnone non ha un porto naturale ma gode di un’insenatura posta al riparo di una rocca e di una spiaggia lunga e sabbiosa a ridosso di probabili pascoli molto ubertosi. E comunque è stato un approdo per navi mercantili. L’assenza di un porto naturale ha impedito che il luogo venisse chiamato anch’esso Porto d’Ulisse? L’ipotesi Fazello, il solo che chiama così il posto, soddisfa in verità il testo omerico, perché quando Odisseo si addentra nell’isola è chiaro che non va lontano: si raccoglie in preghiera nel tempio, poi viene colto dal sonno e quando si sveglia sente l’odore di bruciato delle vacche arrostite e quindi corre dai compagni. 
Fazello peraltro si vale di Diodoro per provare l’esistenza di Engio nei paraggi di Leontini giacché lo storico di Agira attesta che Timoleonte si accampa a ridosso di Leontini per prendere Engio che è nelle mani del tiranno Leptine, il quale signoreggia anche sulla vicina Apollonia che a sua volta è vicina a Centoripe, l’unica città di cui si conosca il sito. Ma Diodoro serve di più a Carrera che non a Fazello, perché per il catanese Engio si trova a Monte Turcisi, nel territorio di Castel di Iudica, alla testa dei fiumi Dittaino e Gornalunga, in un punto a metà dove oggi sono visibili sulla sommità del rilievo resti di una fortificazione greca sorta in una zona prevalentemente sassosa. Questa localizzazione di Engio torna utile per avvalorare il prelievo di sassi da Agira perché la distanza è la più vicina a quella di dodici miglia e mezza stabilita da Diodoro, ma cade in contrasto con l’ipotesi di Engio città marittima, che è più conforme alle indicazioni omeriche. Alla fine Fazello confessa di non avere idea di dove fosse Engio, ma insiste sulla sua posizione marittima.
Certamente non è rimasta traccia alcuna dell’ipotetico tempio di Agnone, né del resto c’è niente a Porto Ulisse di Ispica e a Porto Ulisse di Ognina che faccia pensare a un tempio così antico. Ma se si prende per buona la parte del teorema Carrera che della “città delle dee” qual era Engio (città santa e meta sacra dell’antichità più remota, coeva alla guerra di Troia e risalente quindi a oltre mille anni prima di Cristo, in un’epoca dominata dalla cultura matriarcale) fa una ipostasi della dea Cibele, nel senso che tutte le dee madri sono trasposizioni della sola Madre magna, l’indicazione di Agnone riprende valore: non tanto perché la presenza di Cibele in Sicilia è testimoniata solo dai Santoni di Palazzolo Acreide, l’antica Akrai che dalla costa dista una decina di miglia, ma che non fu un centro religioso, quanto perché, volendo immaginare una ipostatizzazione delle dee madri in una non è a Cibele che conviene guardare ma alla dea Hybla, la divinità anellenica più diffusa tra Sicani e Siculi, la vera Madre magna siciliana che con i Greci diventerà poi Demetra. La dea Hybla fu particolarmente venerata in tutte le città che presero il suo nome, che furono almeno tre, una delle quali Megara Iblea, posta a pochissima distanza da Agnone, nelle cui vicinanze è dunque possibile supporre un tempio dove venisse adorata l’ancestrale dea sicana, così potente e nota - in Sicilia ben più di Cibele - da spingere Ulisse a rivolgersi a lei, anche in segno di omaggio reso a una dea signora dei luoghi dove è approdato.
Si tratta di congetture, non diverse dalle altre avanzate finora. Lo è anche quella che prende le mosse da Fazello e porta ad Agnone e per questa via alla dea Hybla e all’antica Engio. Che Ulisse possa essere andato a pregare ai suoi piedi è congettura che si ammanta di una veste tutta siciliana.