mercoledì 7 maggio 2014

L'ultima operazione di Gomorra



Fino a che punto una fiction rimane tale e non diventa un documento e quindi è potenzialmente offensivo? La serie Sky in dodici puntate di Gomorra iniziata ieri sera ha tutte le caratteristiche per risultare non tanto una denuncia dei mali di Napoli ma una sua condanna.
La docufiction è un genere di nuova invenzione che intende coniugare verità e immaginazione portando a moderni esiti la teoria manzoniana che faceva del romanzo storico "un misto di invenzione e storia". Lo stesso Manzoni si rendeva però conto che il patto con il lettore non può essere tradito per cui l'autore deve far sì che si capisca bene quando racconta e quando riferisce, quando cioè dice il vero e quando il falso. Il rischio altrimenti è di rilasciare la licenza di offendere e diffamare a chi possiede solo la libertà letteraria. Per ovviare a questo rischio di malinteso Manzoni inventò nei Promessi sposi i "cantucci lirici", stabiliti per appartarsi di tanto in tanto con il lettore e fare insieme il punto scoprendo le carte. 
Sotto l'usbergo della narrativa, che immunizza l'autore, può essere nascosto infatti ogni coltello e possono essere perpetrate autentiche campagne di denigrazione. Legittimi quindi i cartelloni apparsi nei giorni scorsi a Napoli contro la serie televisiva diretta da Sollima, perché, dopo aver visto le prime puntate, l'impressione - quanto alla location di Scampia e le sue Vele che molte volte abbiamo visto nei telegiornali con i morti ammazzati in primo piano e retate vere - è che Scampia sia solo camorra e che Napoli un inferno esattamente uguale a quello descritto da Giorgio Bocca, che però non ricorse alla fiction per fare il giornalista. 
Il film del regista di Romanzo criminale ha preteso di trasporre in Gomorra il libro-inchiesta di Saviano, il padre della docufiction italiana, facendone non un'opera dal vero ma un'autentica presa dal vero, non esitando ad adottare il dialetto più mimetico, entrando nelle case di Scampia, percorrendone le vie degradate e i ballatoi delle Vele simbolo di violenza. Nemmeno per un momento si è avuta l'impressione di assistere a un film, sembrando a tutti che le riprese documentassero piuttosto una vicenda che si svolgesse istantaneamente.
Se Sollima avesse scelto - e chissà che non ci abbia pensato - di registrare con le cineprese a spalla, come con "un occhio fotografico" estraneo, quindi in movimento, l'effetto sarebbe stato di renderci testimoni oculari di fatti realmente avvenuti. Sotto l'aspetto del reality va dunque riconosciuto alla produzione il massimo merito, ma si fatica a ritenere questo Gomorra un'opera artistica, quindi finzionale. 
Come il libro di Saviano ebbe uno straordinario successo proprio sulla base di un inganno, frutto di una commistione vertiginosa e abilmente orchestrata di documento e finzione, saggio e romanzo, reportage e sceneggiatura, così anche la trasposizione televisiva paga l'eccesso di docufiction che la connatura. L'errore, se errore può essere definita una trovata che è stata vincente ai fini del successo della serie, è stato quello di girare una storia di camorra ambientata a Scampia proprio ed esattamente a Scampia, quando la famigerata periferia napoletana poteva essere ricreata altrove e non necessariamente così com'è nella realtà. Sarebbe bastato, come un tempo, installare un cartello stradale con su scritto il nome del luogo e Scampia sarebbe stata "davvero" Scampia senza però esserlo veramente.
In questo intreccio altamente straniante di vero e finto, dove il vero supera di gran lunga il falso, il film si propone come tale ma risulta un documentario del tipo di quelli che oggi raccontano i fatti sceneggiandoli e molte volte con l'uso dei dialoghi, proprio come in un film. Lo straniamento del telespettatore giunge al massimo quando, girando appena canale, si ritrova a Scampia, quella vera, resa in un documentario vero che intende raccontare "l'altra Scampia", l'autentica. Che però abbiamo appena visto dal momento che la Scampia del film ci viene proposta appunto come autentica. Sicché viene da chiederci qual è più aderente alla verità: se è quella filmica, allora il documentario è un infingimento dovuto come atto risarcitorio alla popolazione offesa e indignata; se è quella del documentario, allora il film pecca nell'esasperare in negativo una Scampia che non c'è.
Queste operazioni, letterarie, cinematografiche o televisive che siano, che tendono a rappresentare la realtà dal vero servendosi di strumenti nati per raccontare il falso rischiano di collassare quando non trovano un punto di equilibrio insuperabile. Gomorra di Sollima ha abbondantemente superato questo punto invadendo in profondità i territori del vero e ottenendo il favore del pubblico non per il contenuto del film ma per la forma, cioè per la sua realizzazione, per l'aspetto. Il contenuto offre infatti una trama già vista e abbastanza rimestata: due famiglie camorriste in lotta si disputano il territorio e gli affari mentre i suoi membri riecheggiano le volute psicomachiche dei Soprano. 
Le loro vicende non impressionano nessuno. A impressionare davvero è vedere le Vele e Scampia come non l'abbiamo mai vista: nei particolari, negli arredamenti delle case, negli interni, nell'erba selvatica. Ci si alza con il vago senso di essere stati presenti e di sentirsi persone informate dei fatti. Ottimo lavoro quello di Sollima, ma non ci dica che ha fatto un film. Ha fatto un'indagine istruendo un processo e arrivando a una sentenza di condanna. Come ha già fatto Saviano dopotutto. Entrambi non hanno pensato di verificare un'ipotesi ma hanno voluto dimostrare una tesi. Da deduttivi che si sono detti sono risultati induttivi. Napoli non è Scampia e Scampia non è Napoli. Ma nei quaranta Paesi dove il film è stato venduto è questa l'idea di Napoli regno di camorra che inevitabilmente passerà.