sabato 19 luglio 2014

Vittorini fascista, il tempo delle menzogne



La polemica sui trascorsi fascisti di Elio Vittorini si è tenuta sempre attiva anche e soprattutto a ragione della insistita reticenza di cui l’autore siracusano ha circonfuso, nelle testimonianze che ci ha lasciato, gli anni precedenti all’insorgenza di quegli «astratti furori» che lo porteranno alla scoperta delle reali intenzioni del fascismo.
Del resto se Conversazione in Sicilia è il dolente epicedio di un giovane intellettuale che, assistendo all’offesa portata al mondo, è colto da una smania nuova, il terreno di coltura di questa febbre di crescita non può che essere un lungo stato di credente e convinta adesione al fascismo, il solo che possa, per sortire una concreta resipiscenza, portare Vittorini a dirsi furente.
Se non bastasse quanto lo stesso Vittorini scrive nella prefazione alla riedizione del Garofano rosso, un libro nel fondo dichiaratamente fascista per l’esaltazione che fa della forza dentro un quadro organico dove la ricerca della «violenza rivoluzionaria» tesa all’affermazione della forza come vita, è il motivo dominante della storia dei ragazzi siracusani che sognano il socialismo e vedono il fascismo, fuso con il primo, anzi sostituito ad esso nella supposizione che debba essere altrettanto vitale; se non bastassero quindi il Garofano e la successiva prefazione, prova dell’adesione al fascismo di Vittorini ci viene dalla sua vita. 
Nel 1926, quando ha diciotto anni e un confuso passato di anarchico, Vittorini legge "Italia barbara" di Curzio Malaparte, figura tra le più significative del fascismo di fronda antiborghese e rivoluzionario, e ottiene di vedersi pubblicato su “La Conquista dello Stato” (giornale nato qualche mese dopo l’assassinio di Matteotti, nel momento più nero del Regime, quando più ha bisogno di sostegno) un lungo encomio rivolto allo stesso Malaparte che si traduce in una occasione di celebrazione del fascismo «storico», quello strapaesano per il quale Malaparte si è fatto paladino. 
È molto difficile immaginare che un ragazzo siracusano, tutto sommato povero, di famiglia appartenente al piccolo ceto medio impiegatizio, che ha lasciato definitivamente la scuola e che non ha alcuna prospettiva di lavoro, ritenuto dai genitori dei suoi amici più cari uno sbandato e tenuto in scarsa considerazione da suo padre stesso, possa farsi strada nel mondo giornalistico e letterario nazionale senza essere condiscendente con il fascismo. In realtà Vittorini non sarebbe mai diventato quello che conosciamo se da ragazzo non avesse fatto scelte politiche nel senso di entrare a pieno titolo nel fascismo.
A pieno titolo infatti: è proprio nel 1926 che Vittorini si iscrive al fascismo. Lo rileverà egli stesso affermando di essere stato iscritto d’ufficio «come accadeva a ogni studente». Vittorini mente, come molte volte gli succede, perché nel 1926 ha già abbandonato la scuola. Sicché l’ipotesi più plausibile è che fu lui stesso, appena entrato in contatto con un grande personaggio del fascismo, a chiedere di essere iscritto al partito.
C’è poi un racconto uscito nel ’32 su “Il Bargello”, la rivista ufficiale del Pnf di Firenze, e poi su “Lavoro fascista”, intitolato Il mio ottobre fascista, a contribuire a fare chiarezza. Nel decennale della Marcia su Roma, Vittorini viene infatti richiesto di ricordare il suo ottobre e ne viene fuori l’ammissione che a quattordici anni una delle sue celebri fughe da Siracusa riguardò proprio un viaggio a Roma in treno insieme con i fascisti siracusani, per poi rimanere tutti a metà strada perché, a loro insaputa, il vagone ferroviario fu nottetempo sganciato in una stazione sperduta. Una testimonianza che difficilmente può essere ritenuta frutto di invenzione letteraria, visto l’uso che la rivista intende farne nel decimo anniversario della Marcia, testimonianza che appare rivelatrice nella parte in cui Vittorini scrive: «Si può dire che, assorbito dalle mie letture e discolerie, non mi fossi mai accorto della realtà meravigliosa di questi ragazzi in camicia nera che rivoltavano il fondo melmoso della quiete provinciale», così evocando il clima in cui sono calati i fatti descritti in Garofano rosso. Nello stesso racconto-testimonianza Vittorini rivela di avere chiesto - ma non ottenuto - la tessera già nel ’22 ma di essersi accorto «solo nel 1925 o ’26, al momento della prima leva fascista, di essere stato burlato».
«È molto più facile cedere a una corrente che resistervi» dice Vittorini nella prefazione al Garofano rosso, confessando un cedimento che va almeno fino al 1929, cioè a Scarico di coscienza, ma che dev’essere prolungato al 1936, alla guerra civile in Spagna, che segna il momento in cui Vittorini rompe con il fascismo. Vittorini diventa fascista quando lo è già da due anni anche Brancati. E come Brancati, proprio nel 1936, matura il ripudio del fascismo (dal cui partito viene espulso) e con esso le opere scritte sotto la sua cappa. Brancati ripudierà L’amico del vincitore e Vittorini disconoscerà Il garofano rosso. Il percorso di entrambi è lo stesso di Pirandello, divenuto fascista (come Brancati) nel 1924, in un’età nella quale gli scrittori siciliani, pur di quel fascismo di sinistra che sarebbe poi confluito in blocco nel neorealismo partigiano, altra alternativa di successo non trovano che di iscriversi al Pnf.
Vittorini quindi si iscrive al Pnf due anni dopo Brancati e Pirandello, ancorché due anni prima manifesti il desiderio di avere la tessera. E si iscrive al fascismo perché, nel 1926, conosce Malaparte, che gli spiana la strada verso “La Fiera letteraria”, “La Stampa” e soprattutto “Solaria”. Nel ’46 afferma accorato sul “Politecnico”: «Debbo dirlo a questi ragazzi che mi scrivono. Anch’io sono stato uno di loro» - la stessa frase che pronuncerà ormai adulto a un bar della Darsena guardando i ragazzi siracusani. E per spiegare il perché di un’adesione disdicevole ricorre alla differenza tra fascismo-sostantivo e fascismo-aggettivo, riconoscendosi nel secondo quale istanza di «migliore giustizia sociale» nella cui veste il fascismo era apparso a tutti i giovani quattordicenni nutriti dall’«illusione che il fascismo potesse a poco a poco trasformarsi in una specie di collettivismo». 
Nell’educazione letteraria di Vittorini la chiave è Malaparte, ma l’influenza del pratese non può spingersi al punto da ipotizzare che Vittorini diventa fascista perché plagiato da Malaparte, perché l’autore siciliano comincia a prendere le distanze dal suo maestro già a partire dal ’29 e da quello Scarico di coscienza che è una presa di posizione innanzitutto antistrapaesana oltre che una nuova presa di coscienza in senso antifascista, o meglio diretta contro lo spirito letterario nazionale e la sua integrità e levatura classica. La verità è che Vittorini non ha mai voluto fare piena chiarezza sui suoi trascorsi giovanili e su quella contraddizione che lo porta in poco tempo a passare dalla parte degli anarchici e dei comunisti a quella dei fascisti. Nel ’46 sul “Politecnico” scrive: «Avevo già quattordici anni l’anno della Marcia su Roma. Avevo sentito parlare di come era nato il fascismo. Eppure (dopo una prima diffidenza dovuta al fatto di essere stato iscritto d’ufficio, come studente di scuola, nelle organizzazioni giovanili fasciste) anch’io “mi agitai” su fogli fascisti più o meno di provincia». 
Si tratta di una rivelazione che postula un impegno letterario-giornalistico di tipo fascista già all’età di quattordici anni e su giornali di provincia. Poi nel ’49 Vittorini scrive: «Ero stato iscritto d’ufficio nel 1926, mentre frequentavo ancora la scuola, come accadeva ad ogni studente». Ma nel 1926 Vittorini non ha quattordici anni, età in cui ci ha detto di essere stato iscritto d’ufficio nelle organizzazioni giovanili, bensì diciotto. Probabilmente l’iscrizione a quattordici anni nelle organizzazioni giovanili si ha realmente d’ufficio (benché egli ci dica di averla nello stesso anno richiesta al partito) mentre quella a diciotto segue a una formale domanda.
Ma fascista, oltre che massone è stato anche il padre di Vittorini, quel Sebastiano ferroviere che nel ’24 accolse Mussolini a Siracusa con un lungo encomio ufficiale e facendogli dono devoto del suo Eschilo. È pur vero che anche il padre Sebastiano risulterà sgradito al fascismo e sarà duramente avversato, in ciò seguendo le orme del figlio, ma a differenza di lui fu meno fascista (anche perché non iscritto al partito) e non ricercò mai, al fine di richiamare attenzione sulla sua attività letteraria, alcuna occasione per entrare in contatto con personalità letterarie fasciste, nemmeno compulsando il figlio. Scriverà invece sul “Politecnico” assieme all’altro figlio Ugo e collaborerà con Elio in ricerche in Sicilia, ma nulla sappiamo di ciò che pensava del figlio diciottenne che leggeva al Bar Minerva in Ortigia Proust e "Italia barbara" scegliendo un bel giorno di prendere carta e penna e scrivere a Malaparte, così aprendosi la porta al successo, come pure poi ai suoi salvifici «astratti furori».

Da Maschere siciliane, Aragno 2007