Nel 2011 Marcelle Padovani, l’intervistatrice di Giovanni Falcone e coautrice del libro Cose di Cosa nostra, dichiarava a Radio24 che Leonardo Sciascia nel 1982 rischiò un’accusa di favoreggiamento per avere risposto “Non ricordo” a una domanda del giudice istruttore circa un incontro con un emissario di Michele Sindona avvenuto nel 1979. Il bancarottiere messinese aveva incaricato un suo uomo di Racalmuto di consegnare allo scrittore documenti sul proprio falso rapimento che, comprovandone l’innocenza, dovessero smuoverlo a prendere posizione garantista in suo favore nel momento in cui Sciascia era peraltro anche parlamentare radicale. La Padovani rivelò l’episodio dicendo di averlo appreso dallo stesso Falcone, il quale le confidò che avrebbe potuto incriminare lo scrittore di reticenza ma che non se la sentì avendo Sciascia avuto il merito di aver parlato per primo di mafia in un romanzo. In realtà sarebbe stata un’accusa vana perché Sciascia godeva dell’immunità parlamentare, fatto che avrebbe costretto Falcone a richiedere al Parlamento un’autorizzazione a procedere certamente improponibile.
In un articolo apparso il 5 febbraio 2016 sul Venerdì di Repubblica, anticipando il libro Adelphi appena uscito, Fine del carabiniere a cavallo, che riunisce articoli letterari di Sciascia, Piero Melati forniva particolari circa l’interrogatorio tenuto da Falcone. Il giudice convocò lo scrittore di notte nell’Ufficio istruzione di Palermo, dove d’inverno Sciascia risiedeva, per chiedergli ragguagli circa il contenuto di alcune intercettazioni nelle quali ricorreva il suo nome collegato a quello di Sindona. Scrive Melati che “Sciascia, seduto faccia a faccia con Falcone, non nascose la sua indignazione per essere stato convocato, e lo trattò ruvidamente. ‘Come si può anche solo pensare che io abbia a che fare con tali personaggi?’ si indignò. Falcone, a sua volta, uscì dall’incontro molto provato”. L’episodio sarebbe stato nel 1987 alla base dell’intervento di Sciascia contro “i professionisti dell’antimafia”, articolo nel quale i soli nomi che compaiono in taccia di carrieristi per meriti antimafiosi sono però quelli di Orlando e Borsellino e non di Falcone, il cui solo avanzamento di carriera sarebbe stato in realtà la chiamata al ministero della giustizia nel 1991. Ma secondo una certa pubblicistica Falcone cominciò a morire proprio dopo quel famoso articolo sul Corriere della sera.
Sciascia non parla mai dell’incontro-scontro avuto con Falcone, mentre è il giudice a rivelarlo: non solo alla Padovani ma nel ’92 anche alla giornalista de L’Ora Bianca Stancanelli, commettendo così una probabile doppia violazione del segreto d’ufficio. Sciascia però, mostrando di ricordare bene tutto, parla del caso Sindona e lo fa in un articolo del 6 marzo 1983 sull’Espresso dopo un’intervista che Nando Dalla Chiesa rilascia a Repubblica a seguito di un precedente articolo di Sciascia che dubita della possibilità che il generale Dalla Chiesa avrebbe potuto debellare la mafia se fosse stato dotato di poteri speciali.
Il figlio Nando, rilanciando le voci di un contatto dello scrittore con Sindona, lo accusa di avere dato “qualche consiglio” all’emissario del banchiere sia pur dopo essersi rifiutato di “impostare una campagna di opinione a suo favore”. In quell’occasione Sciascia rivela di avere, al tempo dei fatti, raccontato a tutti gli amici, e quindi solo entro la sua cerchia privata, della visita nella sua residenza estiva di contrada Noce a Racalmuto di un concittadino residente in America che gli “aveva parlato del suo amico Sindona e di come fosse vittima di una macchinazione”. Questo concittadino gli aveva promesso, senza chiedergli nulla, dei documenti, recapitati poi solo nel 1982 e costituiti da un memoriale, che un anno dopo, alla data dell’articolo, Sciascia non ha però, a suo dire, ancora letto. “Più tardi” scrive l’articolo “da una lettera di Sindona pubblicata da un settimanale seppi quel che Sindona avrebbe voluto da me, ma che il mio concittadino non si attentò a chiedermi”.
Il concittadino è il fratello di Joe Macaluso, il vero americano, colui che ha seguìto Sindona in Italia durante la sua fuga dopo il falso rapimento e in preparazione di un colpo di Stato da attuare in combutta con la mafia siciliana. Sciascia dunque nega nel suo articolo di avere dato alcun consiglio a Macaluso, ma nulla dice del reale interesse mostrato alla vicenda. Pare logico tuttavia supporre che se Macaluso si permette di promettergli dei documenti ciò può fare perché Sciascia glieli richiede o acconsente ad averli: ma forse non per apprestare una campagna garantista quanto per valutare se farne oggetto di un suo intervento da scrittore in vista di un pamphlet sull’oscuro caso del bancarottiere detenuto in America e in contatto con il presidente Reagan ai fini di una grazia da ottenere.
Il giudice Falcone apprende di Sciascia dalle intercettazioni disposte nell’ambito dell’inchiesta su Sindona e trova naturale convocarlo come persona informata sui fatti o comunque sulle ragioni del suo nome finito in bocca agli intercettati. Sciascia si adombra per essere stato sottoposto a interrogatorio (pur con le precauzioni legate all’orario) e Falcone si risente perché proprio Sciascia, il vate della giustizia senza concessioni, si è stizzito non comprendendo perciò che, come da lui stesso teorizzato, la giustizia fa il suo corso come nella transustanziazione, cioè a prescindere dai peccati del sacerdote – e dunque dal giudice.
Questo Macaluso compaesano di Sciascia e probabile amico d’infanzia, prima di rivolgersi allo scrittore ha contattato un altro racalmutese, Calogero Taverna, ispettore della Banca d’Italia, il quale però dichiara di non aver voluto nemmeno vedere i documenti e, una volta andato in pensione, pone la questione se il dossier si trovi adesso nella sede della fondazione Sciascia o sia in possesso degli eredi. Appare strano che Macaluso, su possibile direttiva del fratello o di Sindona, si rivolga prima a Taverna e soltanto dopo a Sciascia, che è dotato di ben altri mezzi per montare una campagna di sensibilizzazione. Sta di fatto che lo scrittore accetta il memoriale ma non ne fa alcun uso. Alla fine il caso finisce per pesargli addosso come una macchia, tant’è che nel 2010 il procuratore generale di Roma, nel processo per la morte di Calvi, si rifiuta di accettare le ragioni della difesa fondate sull’ipotesi del suicidio del banchiere sostenuta anche da Sciascia, in riferimento al cui ruolo, da ridimensionare nell’ambito del processo, ha parole di censura: “Come dimenticare gli incontri del 1979 con gli emissari di Michele Sindona e i consigli impartiti per pilotare la campagna stampa a favore dello stesso Sindona, ovvero la sua convinzione che fosse un perseguitato politico e la segnalazione che Sciascia assume di aver ricevuto da Giuseppe Macaluso (proprio la stessa persona che era contraria all’escussione di Buscetta in seno alla Commissione antimafia, voluta dall’On. Violante), tanto da indicare referenti politici per sostenere la sua causa?”.
Sull’intera vicenda pesano ancora oggi molti aspetti contraddittori e irrisolti, come l’ubicazione del memoriale Sindona che Sciascia ammette in verità di aver avuto. Sarebbe interessante accertare il motivo per cui lo scrittore non ne fece alcun uso. Non lo ritenne importante? E poi: perché, pur sapendo che era in qualche modo riconducibile al banchiere, ricevette ed ascoltò Macaluso, che gli chiese di potergli parlare da solo e certamente perorò la causa di un Sindona ingiustamente perseguitato? Un’altra domanda su tutte: perché Sciascia risponde “non ricordo” al giudice Falcone quando poi, nell’articolo del 1983, mostra di avere buona memoria anche se non su tutti i particolari? A suo indubbio merito va però il silenzio che si dà prima e dopo il 1983, tenendo il quale ottiene però che il caso si intorbidi e finisca per gettare un’ombra sulla sua condotta.