domenica 20 luglio 2014

La sordina malmessa a Di Matteo




Commemorando Borsellino, il pm antimafia Antonino Di Matteo, palermitano e in servizio a Palermo, è stato applaudito per quanto ha detto su Berlusconi, Napolitano e la politica in genere e duramente criticato dalla politica tutta. Chi ha parlato lo ha fatto per contestarlo.
E' su questo discrimine che paese legale e paese reale, società civile e politica, si dividono e voltano le spalle. Un magistrato non può parlare di politica, perché ciò significherebbe farla, ma può occuparsene quando negli ambienti politici si ravvisino notizie di reato. Ma perché il magistrato, essendo un cittadino dotato dei diritti politici, non può fare politica? Perché forse è chiamato a perseguirne i crimini e quindi deve tenersi distaccato e sereno? Se così fosse non dovrebbe, soprattutto in pubblico, parlare nemmeno di religione o di economia né finanche di letteratura perché può trovarsi a inquisire un prete, un bancario o uno scrittore e diventare perciò parte occulta del suo stesso processo. Non può essere dunque questo il motivo del divieto, un divieto ovviamente non sancito né sanzionato. 
Vecchia logica suggeriva un tempo di non chiedere mai a un carabiniere perché votasse, essendo tenuto al segreto, così come invaleva il costume di non assegnare questori, prefetti e ufficiali dell'Arma nella provincia di loro residenza o provenienza. L'intento era di scongiurare il rischio di condizionamento ambientale perché nell'esercizio delle sue funzioni il pubblico ufficiale deve essere del tutto imparziale senza cadere nelle maglie delle facili influenze esercitate soprattutto dai parenti. Come se si possa essere influenzati solo a casa o un parente non possa irretire il questore che operi in un'altra sede. 
Sul tema del condizionamento la legge consente tuttavia paradossi risibili come nel caso in cui il presidente di una corte d'assise raccomandi ai giurati di non tenere conto della deposizione di un teste o di un intervento delle parti, quasi che fosse possibile a un giurato cancellare dalla mente quanto ha sentito e impedirsi di crearsi quel "libero convincimento" che è alla base del discernimento dello stesso giudice, convincimento che se deve essere libero non può essere limitato secondo la volontà altrui.
Dunque, nel caso della presa di posizione di Di Matteo, come in passato di Ingroia e altri giudici e magistrati, il veto che gli verrebbe in teoria imposto di non pronunciarsi su temi politici e figure politiche deriverebbe dagli effetti che la sua posizione di forza determinerebbe nell'opinione pubblica più che dalle possibili refluenze che nella sua sfera d'azione ricadrebbero da opinioni che anche quando non esprimesse ad alta voce o per iscritto rimarrebbero comunque le sue e tali da dettare la sua iniziativa. 
In sostanza si dice al magistrato, che essendo persona bene informata sui fatti può creare consenso e dissenso attorno a un partito o a un leader, ancor più se si tratti di un magistrato antimafia che parli di mafia, che se intende parlare di politica e quindi farla deve diventare egli stesso politico e svestirsi del ruolo di inquirente o giudicante. Scelta che non viene richiesta al parroco che dal pulpito predichi la parola di un partito commista a quella di Dio o a un docente universitario che parli agli studenti o a uno scrittore che intrattenga i soci di un club service: eppure si tratta di figure sociali che quanto e forse più di un magistrato vantano un potere di influenza frutto del loro ruolo quanto della personale competenza e del credito pubblico di cui godono. Secondo questa visione nemmeno il Papa potrebbe dire una sola parola su una sola guerra dal momento che anche negli eventi bellici più deplorevoli agiscono ragioni che hanno senz'altro qualche fondamento.
Se si parte dall'idea che tutto è politica e che ogni nostra azione non è che un atto politico, di convivenza e disciplina dei rapporti sociali per l'affermazione di un principio di benessere valido per tutti, non c'è nessuno che non sia un politico che possa parlare di politica. Neppure un giornalista potrebbe farlo né un conduttore televisivo di talk show.
Tuttavia trattandosi di un magistrato, il divieto diventa categorico e riprovevole colui che lo inosservi. Eppure molti magistrati, fra cui Falcone e Borsellino, sono stati in televisione, hanno rilasciato interviste, scritto addirittura libri, intervenendo costantemente in tema di mafia e di processi ancora aperti. Nei limiti in cui non si violi il segreto istruttorio e sia pregiudicato lo stesso processo, perché il magistrato, prima come cittadino e poi come il suo ruolo gli consente, non deve esprimere opinioni delle quali risponderebbe come chiunque altro? La responsabilità, tanto reclamata, circa la sua iniziativa professionale perché dovrebbe escludere quella che riguardi la sua sfera di intendimenti e propositi? E perché la politica, che costituisce due dei tre poteri costituzionali, può criticare il terzo potere, quello giudiziario, mentre non è possibile il contrario, dal momento che sono tutt'e tre paritari e indipendenti? Meglio un giudice che tace e non risponde quindi del suo operato o un altro che parla e può perciò essere interrogato circa le sue azioni? Secondo un colorito detto diffuso negli accampamenti militari, è meglio avere uno che dalla tenda piscia fuori piuttosto che un altro che da fuori piscia dentro.