lunedì 21 luglio 2014

Scalfari e Francesco, pianeti in avvicinamento













Gli articoli che la domenica Eugenio Scalfari scrive su Repubblica meritano di essere letti sempre e con attenzione. Restituiscono un italiano compenetrato da cittadino nelle sorti del Paese non meno che nelle proprie da persona.
Da quando ha incontrato per la prima volta papa Francesco, Scalfari ci aggiorna circa l'evoluzione di un rapporto nel quale l'ateo che è in lui sta combattendo con un altro se stesso in una sfida nella quale è in gioco non tanto la sua anima quanto la sua coscienza di illuminista e materialista. Si colgono segni, da un incontro a una telefonata, di un disagio che potrebbe preludere a un cedimento o a un avvertimento: come se Scalfari (autore di un libro con il quale ha voltairianamente smantellato il credo nel soprannaturale e di un altro nel quale è la modernità l'unica fede cui oggi rivolgerci e con essa il pensiero più di un Montaigne che di un Kierkegaard) stesse facendo, nel momento non remotissimo di dover incontrare l'Angelo, i conti con quanto una vita aristotelicamente vissuta gli ha instillato: la realtà come prodotto di un determinismo più che altro meccanico e la scienza come unico fattore creativo, con la sola concessione al mondo etereo e invisibile della presenza e della forza delle idee. 

In pensatori del suo genere, così come in omologhi quali Pasolini e Sciascia, l'ultraterreno è una dimensione spinoziana della superstizione, una condizione molto umana. E nell'ultraterreno anche il divino può convertirsi in qualcosa di terreno e positivo, nel cui ambito solo le figure reali dei profeti e dei messia possono trovare interesse e considerazione. Per questa via Scalfari può dunque dire che del cristianesimo è proprio Cristo, il Gesù terreno, che sollecita la sua attenzione: non è poco, anzi è moltissimo, se si pensa che il cristianesimo è fondato, in quell'innovazione che costituisce una vera rivoluzione, un fatto inimmaginabile da mente umana, proprio sulla doppia natura di Dio che si fa uomo, sicché chi crede in Gesù ed è conquistato dalla sua esperienza di vita non può non credere in Dio e in quanto egli insegna, a cominciare dal mistero della resurrezione dei corpi.

Scriveva ieri Scalfari: "Io non cambio il mio modo di pensare ma sento cambiare il mio modo di sentire". Ora già Hume ci ha detto che pensare e sentire sono manifestazioni rispettivamente delle "impressioni" e delle "idee", le quali costituiscono le due classi poste sotto il nome di "percezioni" e che sono diverse solo quanto alla forza con cui ci sovvengono. Quindi Scalfari non pensa e non sente che la stessa cosa, ma con un diverso grado. Quando di conseguenza dice che conversare con Francesco "è una profonda stimolazione dello spirito", ecco che il cambiamento che lui nota in se stesso - nel sentire e quindi nel pensare - non è che una crescita spirituale. I cristiani chiamano questo stato "via della salvezza", quindi della "conversione". E di questa si tratta, se si legge attentamente la parte in cui Scalfari dice di ammirare "la predicazione di Gesù di Nazareth come è riferita dai vangeli e approfondita e commentata dalle lettere di Paolo alle nascenti comunità della nuova religione". 

I vangeli non sono che le sacre scritture neotestamentarie e riferiscono non solo la predicazione di Gesù ma anche i suoi miracoli, senza i quali la stessa predicazione sarebbe stata vana propalazione e professione di nuove divinità. Gesù è il fondatore del verbo perché ha dimostrato di essere Dio compiendo guarigioni e resuscitando morti. Non si può tenere conto dei suoi discorsi e ignorare le sue azioni, come vorrebbe Scalfari. Il quale, forse inconsapevolmente, richiama accanto ai vangeli le Lettere di San Paolo visto come commentatore della predicazione di Gesù. Senonché Paolo è stato ben più che un esegeta: è stato egli stesso predicatore, e tale del resto si dichiarò apertamente e con cipiglio, a tal punto da essere oggi considerato il fondatore del cattolicesimo ben più fattivamente di Pietro. Parlò infatti "alle nascenti comunità della nuova religione", ovvero ai Gentili, usando argomenti che oggi egli ritrova in papa Francesco ogniqualvolta lo intervista, avendo così prova diretta di una impressionante conformità. Il tema della grazia divina, quindi della chiamata dal cielo a prescindere dalle buone azioni, il deficit del peccato che non risparmia nessuno, la presenza del male e la consapevolezza di non trovare nel mondo che esso anche quando si persegua il bene, il credo nella redenzione e nella resurrezione: sono tutti capisaldi paolini e oggi franceschini che rivalorizzano Paolo su Pietro e che anche Scalfari ammette di tenere presenti, sia pure dalla prospettiva della ragione laica.

Assistere a questo processo di avvicinamento tra Scalfari e Francesco è l'evento del nostro tempo. E' come osservare due pianeti che vanno uno nella direzione dell'altro: con lo sgomento che possano collidere e con la speranza che possano fondersi.