giovedì 3 dicembre 2015

Il bandito buono che divenne cattivissimo

Micio Pinto è sepolto ad Antillo
C‘è gente ad Antillo, a Limina, a Roccafiorita, che se lo ricorda ancora Micio Pinto che viveva a Pinazzo con un centinaio di pecore, un paio di muli e i cani, in una casa tenuta disabitata perché lui dormiva fuori, in una grotta, sempre sul chi va là e pronto a scappare, essendo bandito e ricercato.
E per essere bandito, teneva l’ordine vietando in tutte le montagne di qua e di là dell’Agrò di rubare anche un coniglio, per cui i carabinieri lo lasciavano buono, pur sapendo dove giostrava. Micio Pinto divenne bandito senza volerlo. Era il 1928 quando a Santa Teresa di Riva faceva la bella vita di studente con i soldi che generosamente gli passavano le zie. Più che studiare pensava a divertirsi. Poi si sposò ed ebbe quattro figli uno appresso all’altro. La vita scorreva serena. Un giorno un amico gli chiese un cospicuo prestito per mettere su insieme un albergo, ma litigarono presto. Al culmine di uno scontro fisico Micio tirò fuori la pistola e partì un colpo che uccise il socio. Nottetempo trasportò il cadavere sotto un ponte dove poi fu trovato per il gran fetore. I carabinieri fermarono un gran numero di ribaldi di paese ma non arrivarono a lui. Ma quando arrestarono un presunto sospettato, Micio si presentò e si costituì. Non ebbe alcuna attenuante e fu condannato all’ergastolo. 

In carcere si finse pazzo, ma non sortì alcun effetto perché il direttore gli associò come compagno di cella un secondino che non impiegò molto tempo per convincerlo a scrivere alla moglie, cosa che Micio fece rivelando di non essere pazzo per niente. Fu l’unico madornale errore di quel tempo, che riconobbe parlandone con il medico del carcere che era di Letojanni, una brava persona. Grazie a lui Micio, che aveva una bella calligrafia, fu assegnato nell’ufficio del direttore e divenne un detenuto modello. Tanto modello che quando il carcere fu bombardato dagli aerei alleati scapparono in gran numero ma lui rimase al suo posto. Una gran furbata, perché uno alla volta ripresero tutti gli evasi mentre lui guadagnò tanta di quella fiducia che, quando i detenuti furono trasferiti dal carcere ormai inutilizzabile in un convento, poté godere di ogni libertà e mettere in pratica il suo progetto di evadere. Fu un gioco allontananarsi dal convento senza più tornarci. Ma anziché scappare e nascondersi si presentò alle truppe tedesche in rotta e si offrì come spaccalegna e cuoco preparando piatti delle sue zone di montagna e conquistando il palato degli ufficiali. Così si procurò in direzione la tessera di un ufficiale italiano morto e vi impresse sopra un timbro che realizzò con una patata tagliata fresca. 

Una mattina se ne andò come era venuto e riparò in casa di una famiglia che lo aveva preso a ben volere. Ebbe regalata una bicicletta e con la sua tessera di ufficiale italiano arrivò comodamente fino in Calabria. Davanti allo Stretto esibì il documento e ottenne di poter traghettare. Arrivato a Santa Teresa, trovò la casa ma non la famiglia, di cui chiese in giro notizie apprendendo che tre figli erano in guerra, partiti volontari nell’inutile speranza di fargli ottenere in cambio la libertà. Qualcuno avvertì la moglie prima che lui riuscisse a trovarla e lei invece di andargli incontro scappò con il suo amante lasciando in paese il solo figlio minore, Mimmo. Sapova che il marito sarebbe marcito in carcere e aveva pensato di ricominciare a vivere. Micio tirò un sospiro.

Cercò e trovò il figlio per strada e gli si presentò come un Ulisse, ma il figlio non gli credette perché sapeva il padre in galera, finché verificò che quell’uomo era veramente suo papà e lo abbracciò. Micio Pinto si rifugiò nelle campagne del suo paese di nascita, Antillo, e avviò un’attività di produzione di nocciole nonché di allevamento di capre e pecore. Sapeva che era ricercato perché evaso, per cui non dormì mai dentro la casa che occupò a Pinazzo, proprietà della sua famiglia come il terreno. Non poteva durare, sebbene fossero tempi di sbandati e di confusione. Mimmo lo andava a trovare di tanto in tanto, innanzitutto per chiedergli soldi. Un giorno il padre gli chiese di scavare un fosso e poi ancora di continuare a scavare finché gli chiese se avesse trovato niente. “Niente” fece il figlio. “Nemmeno io ho mai trovato soldi scavando”. Rabbioso il figlio andò dai carabinieri e disse loro dov’era il padre fuggiasco. I carabinieri sapevano bene dov’era e lasciarono le cose com’erano. 
Uno di Antillo che lo aveva in odio perché si diceva che Micio lo avesse fatto cornuto, anziché dai carabinieri di Santa Teresa arrivò fino a Messina e in questura disse dov’era Pinto, pronto a guidare la polizia. Così fu. Arrivarono trecento poliziotti e carabinieri nel convincimento che Pinto non fosse solo ma a capo di una banda come le tante che imperversavano in Sicilia. Micio li vide da lontano, si cosparse di olio per non farsi afferrare facilmente e si appostò nella grotta col suo fucile. Ma fu una battaglia persa all’inizio perché per prenderlo furono usate un nugolo di bombe lacrimogene per cui alla fine Pinto dovette arrendersi piangendo controvoglia o forse con tutte le intenzioni. Chiese solo di poter legare un biglietto al collo dei cani indicando chi dovesse occuparsi di loro e del gregge oltre che dei muli e si rassegnò a tornare in carcere.
Qui si prese cura di una gatta nera che divenne la sua inseparabile compagna tanto da costruirle una carrozzina in legno per non farla stancare nelle ore di aria, facendo su e giù nel cortile. Era una gatta speciale tanto che pure il direttore ne era ammirato. Passò il tempo. Un giorno la figlia di Graziani, il gerarca fascista, si presentò al direttore con la sceneggiatura di un film da girare in un carcere. Per un gioco del destino il copione prevedeva che un detenuto avesse una gatta. “Ce l’abbiamo” disse il direttore.
Richiesto di cedere la sua gatta agli onori del cinema, Pinto disse che la gatta sarebbe rimasta con lui. Al che gli fu fatta una promessa solenne dalla Graziani: se avesse dato in prestito la sua gatta, che non sarebbe comunque uscita dal carcere, avrebbe fatto sì che fosse scarcerato. Avrebbe parlato al padre.
Le cose andarono proprio così e Pinto, riconoscente alla gatta per il grande servizio reso, volle che nella sua cappella nel cimitero di Antillo fossero poste ben due foto che lo ritraevano con la sua amica sulle spalle. Ottenuta la libertà vigilata, tornò a Pinazzo e riprese le sue attività finché poté. A una certa età si trasferì a Santa Teresa di Riva dove morì di vecchiaia. Curiosamente, nelle fotografie che costellano la sua tomba, lo si vede sempre sorridente in età adulta e serio in quella giovanile, segno che le grandi traversie che dovette affrontare non lo abbatterono mai.
Non rivide più la moglie, finita chissà dove, ed ebbe rapporti saltuari con i figli. Mimmo, che lo aveva tradito ebbe in sorte lo stesso destino: sposò una donna di Messina e poi sparì lasciando che la moglie si facesse l’amante e una nuova vita. Proprio come il padre. Micio Pinto non volle essere sepolto a Santa Teresa ma ad Antillo, il paese dove un giuda lo aveva consegnato alla giustizia. 
Una leggenda, alla quale occorre dare però poco credito, narra di rapporti intrattenuti tra Pinto, inteso “il bandito”, e la “Santuzza”, al secolo Maddalena Lo Giudice, la donna che sarebbe stata l’amante del bandito Salvatore Giuliano, lui sì bandito a 24 carati, e che avrebbe avuto consegnato da lui, nelle sue puntate da Montelepre ad Antillo, un memoriale che ancora oggi molti ricercano. Non si dice che i due banditi si conoscessero e vedessero, anche se piace pensare che il ricercato minore ospitasse quello maggiore a Pinazzo, ma piace ipotizzare che Pinto frequentasse la Santuzza. Nel paese peloritano dove la strada che dalla Marina sale a torciglioni e qui finisce come in una Finisterre Micio e Maddalena hanno incrociato i loro destini diversi e concomitanti.