mercoledì 30 ottobre 2019

"Sette e mezzo", il romanzo che anticipò "Il Gattopardo"



Se ha ragione Rousseau, secondo cui non c’è libro che non sia in qualche modo il rifacimento di un altro, anche Il Gattopardo, l’originalità del quale ne ha soprattutto determinato il successo, ha avuto dei modelli. I più vicini sono ritenuti quelli che completano con esso la trilogia della Sicilia risorgimentale, I Viceré e I vecchi e i giovani.
Ma un altro romanzo, Sette e mezzo, di Giuseppe Maggiore, ambientato sulla omonima rivolta del 1866 a Palermo, va aggiunto ad essi così da creare una tetralogia dentro quale i rimandi più immediati li troviamo proprio tra i due autori palermitani. Sulla esclusione di Maggiore, implacabilmente tenuto a un’altezza minore, hanno pesato due pregiudizi: il primo, che l’autore è rimasto fascista fino alla fine, tanto da lasciare la famiglia per coprire nel ‘43 l’incarico di presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista, soppresso dopo qualche mese, scrivere quel trattato di intolleranza che fu Razza e fascismo ed essere sospeso dall’insegnamento universitario dopo la Liberazione; il secondo, che il libro non ha avuto la fortuna editoriale spettata al Gattopardo (uscito da Feltrinelli nel ’58), essendo stato pubblicato nel ’52 in un’edizione di 500 copie a spese del fratello dell’autore. La seconda edizione, apparsa nel 1963 da Flaccovio, priva peraltro di parti significative, ha poi scontato l’insuccesso della editio princeps e non è bastata a restituire a Maggiore il credito dovuto. Nel 1999 Flaccovio ha poi rimandato in libreria una nuova edizione che ha avuto due ristampe, la seconda delle quali arricchita da un soddisfacente apparato critico. Una terza edizione è uscita nel 2008 sempre da Flaccovio.

A fare inoltre da deterrente al riconoscimento di Sette e mezzo può non essere stato estraneo il palese e irritante tentativo di delegittimazione che nel ’63, sull’onda del battage pubblicitario per il film di Visconti che riverberava effetti anche sul romanzo lampedusiano, veniva operato accreditando la tesi del “gattoplagio” e definendo il libro di Maggiore “l’antigattopardo” o “l’antegattopardo”. Così un libro che può benissimo stare accanto agli omologhi di Pirandello e De Roberto, che racconta una Sicilia sotto una luce ottimistica e positiva, dalla parte del progresso e della storia d’Italia, pagava il prezzo del silenzio e dell’anonimato, al pari di altri libri di autori siciliani (primo fra tutto Stefano D’Arrigo per il suo Horcynus Orca, ma ci sono anche Pizzuto, Fiore, Samonà, Aniante) relegati in una linea di rivalutazione incompiuta se non addirittura negata.
Eppure chi individuò nel ’63 analogie tra Sette e mezzo e Il Gattopardo non esercitò nessuna forzatura, fin troppo evidenti essendo i punti in comune per poterli considerare delle mere coincidenze: intanto rilevano l’ambientazione palermitana, il contesto storico, la rappresentazione di una famiglia aristocratica di stampo settecentesco, l’identificazione nel capofamiglia del potere feudale e della tradizione borbonica contro l’insorgenza risorgimentale e patriottarda; ma ricorrono anche lo stesso nome di Fabrizio dato al capofamiglia, un nipote che nutre ideali garibaldini, una moglie distaccata e preda di smanie, un prete di casa molto secolare e pure un cavalier Salina il cui nome può essere piaciuto a Tomasi per il suo principe. 
Certo è che Tomasi lesse Maggiore. Come è certo che fu lo stesso Maggiore a fare dono al principe del suo romanzo. I due si stimavano e avevano modo di incontrarsi spesso nella libreria Flaccovio. Entrambi umanisti e letteratissimi, non potevano non trovare argomenti e interessi comuni, oltre che sapere di dovere condividere una condizione di uguale anonimato nel campo delle lettere. Non è azzardato ipotizzare a questo punto che il Lampedusa, testimone dell’affermazione sulla scena nazionale del cugino Lucio Piccolo ammirato da Montale, ciò che lo spinge a cimentarsi nella stesura di un romanzo, stesse già da qualche anno accarezzando l’idea di un libro e che dopo aver letto proprio Sette e mezzo possa averne tratto spunto per riscrivere la stessa storia ma seguendo la vicenda di un aristocratico legittimista non tuttavia deciso a restaurare il trono napoletano ma rassegnato al declino di un’epoca.
Tutta la critica, sin dal tempo della polemica sul “gattoplagio”, ha insistito nel reputare autonome le due opere e ha riconosciuto che semmai qualche influenza Maggiore abbia esercitato su Tomasi, la qualità dello stile del Gattopardo rende irrilevante l’analogia della materia facendo premio il pregio della forma sulla sostanza. Ma è anche vero che la stessa critica non ha letto Sette e mezzo con la stessa attenzione dedicata al Gattopardo. Che appare senz’altro un romanzo speculare a quello di Maggiore, nel senso della sua antiteticità: come se Tomasi si fosse impegnato, e forse divertito, a rovesciare uno per uno i personaggi di Maggiore ristabilendo una sua verità sui destini di una famiglia nobile palermitana nel mezzo di un mutamento epocale e puntando a fissare le coordinate entro le quali leggere la storia, quella siciliana in particolare.