Sebbene prevalentemente incline all’azione dimostrativa e alla divulgazione pedagogica, Danilo Dolci può stare nella storia della letteratura iscrivendosi nell’elenco di quegli autori, da Foscolo e Mazzini, che fondando la propria iniziativa sull’ambivalenza tra pensiero e azione hanno dato alle proprie istanze civili una base letteraria col muovere da opere scritte nelle quali la ricerca della verità (che è sciascianamente e vittorinianamente il fine della letteratura) ha tenuto il passo della narrazione anche nel senso che il legomenon ha avuto lo stesso peso del dromenon.
Il racconto quindi come testimonianza di esperienze e sede di riflessioni è stato scelto da Dolci nella sua qualità di strumento di comunicazione e di partecipazione, sicché non a caso uno dei libri più riusciti di Dolci si intitola Racconti siciliani, motivo che ritroviamo in altre opere omologhe come Banditi a Partinico e Inchiesta in Sicilia. Ma Dolci ha preferito per i suoi racconti una definizione metaletteraria, che indulge verso esiti psicanalitici, chiamandoli “autoanalisi popolari”.
Si tratta di confessioni raccolte dal vivo dall’autore con la tecnica dell’intervista e riportate nella pagina senza interpolazioni così come sono venute dalla voce della gente. Ma di racconti veri e propri si tratta, tranches de vie cariche di tensione drammatica proprie di un codice naturalistico che incide nel ventre dei vinti non meno di quanto riesca il magistero verghiano e che se un limite trovano è solo nella trascrizione a tratti distorta della parlata siciliana, trattata da un triestino che deve ancora acquisire padronanza certa del dialetto.
Racconti allora, un riferimento sicuro ai quali è dato dalle parità di demopsicologi dell’Ottocento quali Pitré, Guastella, Avolio, che ricercando tradizioni popolari registrano anche documenti umani, conservati sì in osservanza al clima positivistico del tempo più che ai dettami del nascente verbo verista, cioè prefiggendosi scopi scientifici anziché letterari, ma arricchendo in definitiva la nostra letteratura di un filone “romantico” che è pressoché estraneo alla tradizione italiana.
E in questo solco gli exempla di Dolci hanno il senso di una ricerca documentaristica, condotta a fini giornalistici di denuncia sociale, ricerca che spinge l’autore ad avvertire che le sue sono “pagine scritte dalle cose e da tutti”, perché riescono inconfutabili, ma nello stesso tempo svela i debiti con il primo dei crismi verghiani che è l’impersonalità, mentre tradisce le rifluenze derivate dal gusto naturalistico per la rappresentazione realistica, senza concessioni e gravida del pathos colto nella discesa agli inferi, con l’aggiunta di una buona dose di spirito engagé che negli anni sartriani del Dopoguerra non deve essere stato estraneo nemmeno a Dolci. E del resto è lo stesso Dolci a confirmare la sua cifra: “A 20 anni ero un poeta, a 36 la mia solo poesia è quella di prendere una regione abbandonata e incolta per farvi fiorire la cultura”.
E come poeta, in una bella lirica in versi liberi che sono poèmes en prose confida: “Invece di volare come un canto l’impegno mi si muta in un dovere”. In forza dunque di quello che sente con un dovere, il dovere di rendersi utile, concetto questo molto in voga negli ambienti letterari europei appena usciti dalla guerra, Dolci si dota di un manuale di approccio alla realtà esuberante di prestiti pluridisciplinari, dalla scienza alla filosofia alla letteratura, cosicché il mezzo del racconto, elaborato sul bancone del metodo di ascendenza socratica che è la maieutica, si perfeziona nel laboratorio dell’introspezione psicanalitica. Ne viene fuori un’efficace mescidazione che pone Dolci a metà strada tra letteratura e filosofia salvando la sua azione (che è quanto gli interessa soprattutto) dall’accademismo e dalla pedanteria. La sua dottrina, fondata sulla “società maieutica”, riassumibile nella necessità di impedire che sia abbia trasmissione unilaterale di idee a detrimento della comunicazione, la sola capace di mettere chi ascolta nella condizione di rispondere e quindi dialogare, si trova pienamente applicata nei suoi libri anche meno letterari, dove il criterio della partecipazione viene fissato come irrinunciabile: “Nessuno può far crescere qualcuno senza un rapporto in cui ciascuno cresce”.
Troviamo qui definito tutto il pensiero dolciano, sostenuto dalla fede nel gruppo e dalla fiducia nell’individuo e volto a sciogliere le spinte individualistiche nelle istanze collettive, pensiero che postula come nodo principale il trema della giustizia, perché anche per Dolci, come per Sciascia, ogni problema in Sicilia diventa una questione di giustizia.
E proprio con Sciascia (alle cui Parrocche di Regalpetra sostanzialmente rimanda un libro come Banditi a Partinico) Dolci divide il terreno sul quale la giustizia morale, la vocazione giusnaturalista dell’uomo osservante delle leggi immanentistiche come delle prove ordaliche, deve fare i conti con la legge scritta, la giustizia degli aeropaghi che prescinde dall’uomo senza il quale, come dice Sciascia, la giustizia è un sacco vuoto. Dolci, che ha subìto un processo nel quale un’azione giusta viene punita perché la legge la vieta, evoca anche con i suoi scritti Antigone che sfida Creonte: di chi crede nelle leggi non scritte basate sulla coscienza e di chi osserva le sole leggi in vigore, basate sulla cecità legale ma iussive. A questo sistema Dolci oppone la “società maieutica”, nella quale la conversazione, cioè “l’autoanalisi popolare di gruppo”, propugna la presa di coscienza e la consapevolezza dei mezzi della comunità in cui opera. Dentro questo quadro, tutti i suoi libri sono in fondo un apostolato sociale esercitato attraverso la letteratura, cioè la verità del racconto. Un apostolato svolto interamente in Sicilia, dove divenne una figura di levatura internazionale.
Giancarlo Caselli disse che la sua scelta di venire in Sicilia era stata determinata in parte proprio dall’insegnamento di Dolci. Ottaviano Del Turco, in visita in Svezia, si sentì chiedere insistentemente notizie di lui. L’università di Boston raccoglie documentazione sulla sua vita, il ministro della cultura dell’India scrisse a Trappeto solo per tesserne le lodi.
Dolci fu amato più all’estero che in Italia. In Scandinavia, dove visse dopo aver sposato una svedese, divenne una leggenda. Godette dell’amicizia di Sengor, Fromm, Huxley, Chomsky, Jurgen, Habermas, Freire; e fra gli italiani di Levi, Bobbio, Montalcini, Vittorini. Come Goethe ritenne che la Sicilia fosse l’ombelico del mondo, la chiave di tutto: “Più mi si chiariscono i problemi di Partinico e meglio mi si chiariscono le vicende del mondo”.
Partinico – e più precisamente Trappeto – è stato il teatro della sua vita sia sociale che letteraria, sempreché in lui una differenza fosse possibile tra l’una e l’altra sfera. Arriva nel ’52, a 28 anni. Neppure lui sa “come e perché”. Dieci anni prima c’è stato il padre capostazione che Danilo andava a trovare d’estate con la madre e c’è oggi chi ancora lo ricorda da bambino su uno scoglio di fronte al puzzu lavari immerso nella lettura. Dopo un’esperienza nella comunità Normodelfia, deciso a dedicarsi al volontariato, si stabilisce proprio a Trappeto, l’unico posto che conosce in Sicilia, la regione più lontana dall’Istria. Vi pianta in periferia una tenda e si guarda attorno. Ha trenta lire in tasca. La gente lo scruta con diffidenza. Un pescatore che da militare è stato ospite in casa del padre a Trieste lo ospita e gli diventa amico. Si chiama Paolino Russo, il primo siciliano che Dolce conosce.
Vicino casa sua, allo scalo, un bambino muore per denutrizione e malsania: la falda acquifera è inquinata e tutti i pozzi, compreso u puzzu lavari (dove le donne si raccolgono per il bucato) sono fogne a cielo aperto nel vallone che finisce a mare. Dolci dichiara di volere morire come uel bambino e inizia nel suo lettino il primo di una lunga serie di digiuni di protesta che costelleranno la sua vita.
Paolino Russo e un altro pescatore dichiarano che appena morirà Dolci saranno loro a digiunare. In Sicilia non si è mai visto niente di così rivoluzionario. Al quattordicesimo giorno, quando il proposito di Dolci di darsi la morte sta per avverarsi, la prefettura interviene finanziariamente per coprire il vallone e bonificare la zona.
Un anno dopo Dolci sposa una povera vedova, Vincenzina Mangano, che diventa la sua pasionaria e ne adotta i cinque figli piccoli, mentre i fratelli del bambino morto di fame, come tanti altri orfanelli, aspettano che sia lui ad occuparsi anche di loro. Dolci ha bisogno di una casa dove metterli. Chiama i due pescatori amici e fa loro questo discorso: “Dobbiamo trovare un terreno qua vicino dove costruire una casa per questi bambini”. Battono per molti giorni la zona finché Dolci raggiunge una collina che battezza “Borgo di Dio”. Vi si vede tutta Trappeto e il golfo di Castellammare. Si vedono anche il fiume Jato, oltre il quale c’è Balestrate e la barca che fa la spola tra le due sponde. Si vede soprattutto la miseria. A Borgo di Dio nasce una grande casa alla cui edificazione lavorano pescatori e contadini. Il muratore “zu Pitrinu” si presta come capomastro e accetta di essere pagato quando pioverà, come dire mai. I bambini orfani e poveri di Trappeto vi passano il giorno e molti anche la notte. Vi si ritrovano ricoverate ragazze madri e famigliole indigenti. I benpensanti indicano il posto come un luogo di perdizione. Dolci si vede additato come pedofilo e pervertito.
Ma la povera gente è con lui. I contadini guardano la terra riarsa e incolta scuotendo la testa: “Ci vorrebbe un bacile”. Dolci comincia il digiuno, primo passo di una catena di manifestazioni che andranno a effetto solo nel 1962 quando inizieranno i lavori della diga sullo Jato. Oggi il Trappetese produce 300 mila quintali di limoni più 5, 6 quintali di melenzane in serra. La diga di Dolci ha lanciato l’economia trasformando i pescatori in agricoltori.
A Borgo di Dio arrivano bambini da tutti i paesi. Dolci non sa come mantenerli ma non li rifiuta. Quando arrivano a essere più di cinquanta fa avvertire i carabinieri che scoprendo gli orfani sono costretti a portarli nei collegi dove non entrerebbero mai se portati da privati. E’ quello che Dolci vuole. Poi vuole che Borgo di Dio sia raggiungibile con una strada ma le autorità comunali sono sorde. Allora chiama i suoi volontari e la costruisce da sé. Lo arrestano insieme con gli altri (fra cui Goffredo Fofi che è arrivato richiamato dalle sue gesta) e finisce in catene davanti al tribunale di Palermo. Viene condannato a un mese di reclusione per “invasione di terreni” ma ottiene le attenuanti avendo agito per motivi di alto valore sociale e civile. Il processo che in sostanza si celebra contro il primo volontario italiano, fa parlare il mondo. Il Pm attribuisce a Dolci una spiccata capacità a delinquere: la sua colpa è di aver convinto mille persone indigenti a digiunare sulla spiaggia di Trappeto. All’estero i giornali inorridiscono e scrivono: “In Italia a chi chiede il rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria”.
Dolci comincia a ricevere oltre che solidarietà anche cospicui contributi in denaro e quantità di derrate alimentari. Intellettuali come Fellini, Sereni, Moravia, Sartre, Pasolini, Silone e Bo intervengono in suo favore. In parlamento fioccano le interrogazioni. Per tutta risposta il governo ritira il passaporto a Dolci perché accusato di denigrare l’Italia all’estero con le sue azioni e i suoi libri. Nello stesso tempo parte un nuovo processo a porte chiuse, stavolta per pornografia, originato dal contenuto del libro Inchiesta a Palermo.
La polizia di Partinico raccoglie dossier sul suo conto e li trasmette al Viminale dove Dolci è sospettato di essere una spia sovietica. Lui risponde con un drammatico digiuno contro la disoccupazione nonché con una clamorosa conferenza stampa di denuncia di collusioni mafiose del Gotha politico della provincia. Viene querelato e condannato per diffamazione perché i testimoni citati da Dolci non confermano le accuse. Nel 1970, quando fa il primo testamento temendo si essere ucciso, crea la prima radio libera dove denuncia i ritardi e le malversazioni sulla ricostruzione del Belice. La radio ha vita breve. “Il 26 marzo alle 22 – scrive in Esperienze e riflessioni – un centinaio di carabinieri e guardie di Ps, attrezzatissimi di potenti mezzi meccanici, in pochi minuti scassano con innegabile perizia porte e cancelli impossessandosi delle trasmittenti”.
La popolarità e il prestigio di Dolci crescono comunque in tutto il mondo e viene invitato dappertutto a tenere conferenze. Nel ’76 lascia la moglie per una ragazza svedese che sposa nel 1983 a Stoccolma e dalla quale ha due figli, En e Sereno. Un anno prima è stato candidato al Nobel per la pace mentre riceve riconoscimenti significativi, fra cui il Premio Lenin e il Premio Gandhi. A Mirto, tra Trappeto e Partinico, fonda intanto una scuola sperimentale introducendo un metodo di insegnamento, quello della maieutica, che oggi trova applicazione in molte scuole del nord Italia. Nel Belice riesce a realizzare cooperative agricole per lo sfruttamento comune della terra. Ma la scuola di Mirto di crea problemi: gli insegnanti gli intentano tali e tante cause di lavoro che lo riducono in assoluta indigenza. Il Centro studi creato a Partinico si scioglie per via dei contrasti interni. Il resto della sua vita, dalla metà degli anni Ottanta in poi, Dolci lo dedica all’impegno educativo girando il mondo per testimoniare la propria esperienza. Finisce i suoi giorni in assoluta povertà e muore di ritorno da un encomiastico viaggio ufficiale in Cina il 30 dicembre del 1997, accudito dal figlio primogenito Cielo. Che con i fratelli si impegnerà nella realizzazione di un Centro di documentazione a Borgo di Dio, dove per testamento Dolci (il cui corpo è tumulato al cimitero di Trappeto) espresse il desiderio di essere sotterrato ai piedi di un ulivo.