lunedì 11 luglio 2022

Scrivere oggi? Arte, artigianato e artifici


Inchiesta a puntate uscita su Libero nei giorni 4, 5, 6, 7 e 9 luglio 2022

In Il mestiere di scrivere Cesare Pavese non insegnava come essere scrittori ma ne raccontava le pene e i tormenti. Dal giovane Werther ai giovani di tutto il mondo e di ogni epoca che sognano la gloria e vedono il proprio nome scolpito nel tempo, essere autori è come farsi argonauti alla ricerca di un chimerico Vello d’oro. Un po’ com'è per il Gratta&Vinci, l’ossessione per il quale gioco insegna a dare forza alle illusioni, insistere, riprovare. Il che è già una grande lezione di vita, motivo per cui il mestiere di scrivere equivale anche a quello di vivere. Ma, a volere stendere un Rapporto aggiornato al 2022, cosa presenta oggi lo scenario italiano? Osserviamolo secondo i suoi aspetti: agenzie letterarie, editori, self publishing, scuole di scrittura e premi letterari.


AGENZIE LETTERARIE

Se nell’Ottocento Rubempré di Balzac poteva pensare che per diventare famoso gli fosse necessario scrivere un romanzo, oggi la regola è che per scrivere un libro bisogna essere già famosi. Di conseguenza un autore di talento si vede scavalcato, nelle scelte di editori e agenti letterari, anche da un concorrente di “Masterchef” che abbia avuto i suoi cinque minuti di notorietà. In libreria e negli store book arriva perciò ogni piacioneria e faciloneria, per modo che chiunque si sente legittimato a scrivere un libro, non occorrendo più qualità ma corrività. Il risultato è l’inondazione di testi inediti riversata su case editrici e agenzie letterarie costrette ad alzare dighe nei modi più diversi e strenui.
La più curiosa è della Laura Ceccacci Agency che gratuitamente accetta solo i primi tre testi inoltrati per email a inizio di ogni mese, cosicché ha qualche labile chance chi è più abile su internet che chi sappia scrivere meglio. A volerne qualcuna in più occorre pagare, così da avere una scheda di lettura che valga pur da effimero attestato. Come la Ceccacci operano tutte le agenzie, non più solo letterarie ma soprattutto di servizi editoriali, compresi corsi di scrittura ed editing. Del resto, se incassano non più di 30 centesimi per ogni libro di 20 euro venduto, quando ne pagano in media 100 al lettore cui affidano un inedito da valutare, farsi pagare equivale a sopravvivere. Ma avverte Giulio Mozzi, pioniere delle scuole di scrittura: «Le agenzie che campano principalmente con una frazione dei diritti guadagnati dagli autori sono necessariamente serie, quelle che campano con i soldi che prendono direttamente dagli autori sono dubbie». Sono dunque in gran parte dubbie?
Persino la storica Ali, oggi Tila, si fa pagare ed è anzi la più cara. Una sua scheda può costare mille euro se l’inedito supera appena i 350 mila caratteri. Anche se tra le prime in Italia, The Italian Literary Agency è aperta a tutti. Chiusa invece a chiunque è la Roberto Santachiara, che non ha nemmeno un sito web né una pagina Facebook. Impossibile raggiungerla se non tramite la vecchia posta ordinaria. «Di norma non parlo della mia attività – si schermisce Santachiara. - Il fatto è che non amo molto la pubblicità e in generale preferisco non apparire». Il fatto è che a Santachiara non piacciono gli esordienti e gli sconosciuti. Così fan tutti gli agenti, che forse più degli editori vanno oggi sul sicuro. «L’autore sicuro non esiste – ribatte Stefano Tettamanti, agente di lungo corso della Grandi & Associati. - Se per sicuro s’intende bravo, allora verso di lui si orientano tutti». Il problema è però che a essere bravo è chi vende, perché a decretare il talento è il mercato. Per arrivare prima ad esso, oggi più di ieri, l’autore si rivolge sempre più non alle agenzie ma agli editori.
Dice Ugo Marchetti, navigato agente della Emmeeerre: «Penso che alcuni esordienti preferiscano inviare le proprie opere direttamente agli editori anche per evitare di pagare i costi dei lavori propedeutici alla presentazione dei testi. Per moltissimi agenti è diventata ormai una consuetudine chiedere un contributo d’ingresso (talvolta sostanzioso e magari non vincolato alla proposta di un mandato di rappresentanza) per le schede di valutazione e le eventuali indicazioni di microediting. Un agente deve saper ascoltare ma, per esperienza, sa che è difficile lavorare con esordienti che, a detta loro, hanno scritto “un capolavoro che venderà almeno centomila copie”.»
Ma poi succede proprio questo: che, come per Volevo i pantaloni di Lara Cardella, 100 colpi di spazzola di Melissa P., La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e per ultimo Le otto montagne di Paolo Cagnotti, esordienti abbiano successo per ragioni proprie del mistero delle lettere e che siano innanzitutto gli agenti a correre loro dietro. Di regola però succede quanto confessa Tettamanti: «Credo che gli unici a mostrare interesse per gli esordienti siano gli esordienti stessi. Gli agenti letterari se ne infischiano, non parliamo degli editori. I famigliari degli esordienti poi li strozzerebbero, prima e dopo l’esordio». Una boutade che sottende l’allergia degli agenti nei confronti dei principianti.
Chi valuta i testi gratuitamente e non fornisce schede di valutazione (ma lascia che a pagamento l’esordiente possa rivolgersi alla Scuola Palomar che le fa da prima istanza) è l’americana Vicky Satlow che promette: «Per chi sente il bisogno o il desiderio di rivolgersi ad un’agenzia, le mie porte sono sempre aperte». Una vera rarità nell’attuale scenario, com’è anche nel caso della Piergiorgio Nicolazzini che valuta testi in generale senza imporre prezzi e condizioni, ma non lascia invero le sue porte sempre spalancate. A fare pagare ogni servizio, secondo anche la cura dedicata al testo, è la Mala Testa che non ha alcun rossore a proclamare sul proprio sito come la passione di chi lavora nel mondo dei libri non sia di per sé una ricompensa. Lo pensava già negli anni Ottanta anche Pier Vittorio Tondelli, scrittore pronto a parlare dei suoi libri solo se pagato bene. Gli agenti letterari hanno da allora imparato come si fa: anziché i talent-scout si sono addetti a talent school. E Tettamanti può lasciarsi sorprendere, in nome della categoria, dalla svolta: «Dice davvero? Ma è sicuro? Non me ne ero accorto, ora però quasi quasi ci penso».


CASE EDITRICI

Gli editori sono come i direttori di banca che vezzeggiano e si contendono i clienti quanto più soldi portano, mentre dichiarano completi i programmi di finanziamento proposti anche dai migliori investitori, ancor più se giovani, ma in rosso. Appartengono al passato gli editori che guardavano al testo e non al resto: per molti anni Arnoldo Mondadori corrispose un fisso mensile a uno sconosciuto Stefano D’Arrigo perché ultimasse il suo atteso Horcynus Orca e di sua iniziativa Elvira Sellerio cercò un autore ancora più sconosciuto come Bufalino solo perché scriveva divinamente. Oggi la Mondadori non fornisce nemmeno un recapito dove inoltrare manoscritti e la casa editrice palermitana, in mano al figlio di donna Elvira, divide drasticamente gli scrittori tra chi vende e chi può. Esemplare di tale logica è il caso di Andrea Camilleri, che per pubblicare il suo primo romanzo dovette pagare l’editore facendogli pubblicità in un suo sceneggiato televisivo mentre, avuto successo, sarebbe stato corteggiatissimo e libero di scrivere come e cosa voleva, dal momento che ogni sua parola valeva più di 80 centesimi.
Vende chi vende, ecco la prima legge dell’editoria. Ed è per questo che la pubblicità e il lavoro degli uffici stampa - come le banche che danno soldi a chi ce li ha già - sono rivolti a promuovere l’autore che sta rendendo di più. E che si muove in casa editrice come a casa sua. Non è perciò un caso se gli errori materiali più numerosi e gravi si scoprano nei libri degli scrittori più famosi. Ammette Giorgio Pinotti, da trent’anni editor della raffinatissima Adelphi: «Certo, può capitare che gli autori più noti subiscano interventi più lievi (di micro e non macroediting, magari): ma solo perché la loro consapevolezza e la loro capacità di costruire un plot, ideare personaggi e intessere la trama si sono consolidate nel tempo».
La politica dell’usato sicuro è allora quella che la Adelphi, al pari delle altre grandi sigle, persegue come “politica d’autore”. «A differenza che con l’agente letterario, il rapporto con l’autore – dice Pinotti - è di lunga durata e, se la casa editrice (com'è il caso di Adelphi) è incline alla politica d'autore, destinato a diventare nel tempo anche di grande complicità. Faccio un esempio che appartiene alla storia della nostra casa editrice: negli anni Novanta Roberto Calasso ha personalmente seguito l'elaborazione di romanzi come Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, consigliando la Ortese, incoraggiandola, indirizzandola e diventando per lei una sorta di “lettore principe”».
Va da sé che se ogni autore che non sia la Ortese avesse un suo “lettore principe”, magari non proprio della statura di Calasso, l’editoria assicurerebbe un ricambio delle lettere che oggi manca, perché gli autori che vendono sono incoraggiati a scrivere (ancora il caso di Camilleri) e gli altri scoraggiati a insistere. Senonché è solo da questi che può venire il fatto nuovo. La rigenerazione si ha piuttosto per cooptazione; per modo che chi inaspettatamente azzecca un libro viene ammesso nel gotha e trova pronti anche giornali e televisioni a celebrarlo e riconoscergli il titolo di “grande firma”.
Ma la scoperta di un grande scrittore tra gli esordienti resta per ogni editore il sogno della vita. Dice Jacopo De Michelis, editor di Marsilio per la narrativa: «Nonostante la fatica che spesso comporta, scoprire un nuovo, scintillante talento tra le pile di testi che si accumulano sulle nostre scrivanie e i nostri hard disk è una delle più grandi e impagabili soddisfazioni a cui un editor può aspirare». Forse tale talento bisognerebbe cercarlo non affidandosi al caso di una pesca fortunata nell’oceano degli inediti, ma è pur vero che una ricerca mirata richiede ingenti risorse. «I manoscritti vengono sottoposti da noi a molteplici filtri – dice Pinotti della Adelphi. - Dopo essere stati letti in prima battuta da un gruppo ristretto di fidati lettori che ne valutano il peso letterario e la compatibilità con il catalogo e il gusto della casa editrice, passano al vaglio degli editor e infine della direzione editoriale, cui spetta la decisione finale». Diversa è la prassi in una casa editrice di medie dimensioni. «Marsilio non può contare sulle strutture e i collaboratori esterni di cui si avvalgono i grandi editori» spiega De Michelis. «A barcamenarsi nel leggere e giudicare le decine e decine di proposte che arrivano settimanalmente sono gli stessi editor e redattori, già molto impegnati nel lavoro sui titoli in corso di pubblicazione».
Non diverso l’operato della Fazi, casa editrice piccola ma in forte crescita anche nel rating. Dice il direttore editoriale Alice Di Stefano: «I testi vengono regolarmente letti da persone interne e, se superano una prima lettura, passano ad una seconda fase di giudizio in cui a pronunciarsi sono lettori diversi, una specie di commissione editoriale, insomma». Ma per venire giudicati occorre non essere proprio un quisque de populo. «Se l’autore – precisa la Di Stefano – si è già fatto notare e più che altro apprezzare dal suo pubblico avrà una naturale precedenza sugli altri, se non altro per ragioni di curiosità. In genere però è sempre il libro che conta». Ed è infatti affidata a questo criterio la speranza di chi scrive. Che è l’ultimo a pensare di doversi fare notare e il primo a credere di essere destinato a un grande pubblico.


SELF PUBLISHING

Come Tik Tok va primeggiando tra i social, la letteratura per ragazzi scritta da ragazzi scala le classifiche di vendita, al pari di quella a fumetti. Giovani autori crescono. E scrivono non per fare letteratura, perché anzi usano la letteratura per scrivere: né romanzi né poesie, bensì storie. Crescono fuori dai circuiti tradizionali, cioè sulle piattaforme online, quindi senza editor, vincoli e condizioni. E senza pagare editori (comprando proprie copie), agenzie letterarie (chiedendo schede o servizi editoriali) e aziende di book-creator (commissionando ebook e impaginazione).
Sono i self publisher, uno su un milione dei quali però ce la fa davvero. Proprio quest’anno ha spaccato Erin Doom, pseudonimo di una emiliana neppure trentenne arrivata al successo dieci anni dopo Anna Premoli, oggi scrittrice pressoché affermata. La prima ha sfondato su Wattpad, la seconda su Narcissus (divenuta StreetLib), due piattaforme di distribuzione writing-reading che si finanziano trattenendo circa il 10% sulle vendite, come i veri editori. Anche Kdp Amazon consente l’autopubblicazione gratuita di ebook digitali in formato Mobi, purché già pronti e autogestiti sul loro sistema informatico reso liberamente disponibile, altrimenti impone un costo per confezionare libri sia digitali che cartacei, come del resto fa StreetLib che produce in Epub. Precisa l’Ad di StreetLib Giacomo D’Angelo: «Molti scrittori affidano parti della lavorazione del proprio libro a professionisti esterni. Alcuni scelgono il grafico di fiducia, altri l’editor o un consulente promozionale e così via. Altri autori si rivolgono a noi dopo un’esperienza editoriale poco felice e sono desiderosi di riscatto, che, con le attenzioni e le lavorazioni giuste, talvolta arriva».
Talvolta appunto. Gli storebook in realtà vendono ben poco, eccezion fatta per i maggiori bestseller, cosa ben nota ai self publisher di Amazon che a ogni titolo venduto si vedono risalire in classifica anche di cinquantamila posizioni. Eppure sedicenti esperti specializzati in self publishing vedono in Amazon una miniera d’oro. Alessandro Arnao - certamente il più noto degli esperti, fondatore di una “Accademia” con duemila studenti dichiarati - offre con 1997 euro, compresa una vacanza a Dubai, un corso completo e miracoloso per diventare non autori indipendenti ma editori destinati ad arricchirsi vendendo decine di migliaia di ebook rigorosamente in inglese e in spagnolo (le lingue degli Stati Uniti, il primo mercato), scritti da supposti ghostwriter sparsi in Italia e circonfusi a tal punto nel mistero che chi si propone come narratore-fantasma non riceve nemmeno risposta.
La verità è che il self publishing non tira, al momento almeno. Funziona come buona palestra dove allenarsi senza coach e da mezzo per fare girare il nome, ma non come via che porti al successo. La milanese BookaBook, in origine casa editrice tradizionale, ha quindi cambiato via e scoperto nel crowdfunding una nuova strategia editoriale, correggendo il modello invalente di self publishing: i lettori prenotano libri proposti da autori che hanno superato una prima selezione da parte della redazione e vengono perciò sottoposti all’offerta pubblica e al giudizio comune. Se raggiungono il 60% dei costi e mostrano quindi un alto grado di commerciabilità sono felicemente destinati alla pubblicazione sia su carta che digitale.
Dice Tomaso Greco, editore e cofondatore: «Abbiamo in sette anni consolidato una platea di circa 200 mila lettori con uno zoccolo duro di 20 mila e una media di circa due, tre titoli prenotati a testa. Diciannove mila iscritti a Instagram e 76 mila followers su Facebook ci dimostrano che, con i moderni mezzi tecnologici e l’utilizzo massiccio dei social media, oggi si può fare una nuova editoria». Uno dei titoli di maggiore fortuna, un manuale e non un romanzo, Signore, è ora di contare! di Ami Fall, italo-senegalese esperta di crediti bancari deteriorati, ha avuto 800 prenotazioni, cifra considerata elevata e sicuro viatico alla pubblicazione.
Ma il crowdfunding non è il self publishing, che in BookaBook si ferma alla sola proposta dell’autore, anche il più sconosciuto, e che un tempo era la pubblicazione a proprie spese cui facevano ricorso scrittori come Italo Svevo, Marcel Proust e Virginia Woolf. E se fino a ieri self publisher si diventava dopo il rifiuto degli editori, oggi si può nascere tali, com’è per gli autori più giovani ai quali perlopiù sono infatti rivolte le decine di piattaforme online di scrittura che nascono e muoiono continuamente, seguendo i flussi migratori che sono propri dei giovani, sia lettori che autori, caratteristica dei quali è la ricerca di siti web visti come “muretti” dove sentirsi quanto più possibile liberi di comunicare lontano da sguardi inquirenti.
Ma negli ultimi tempi si assiste a un fenomeno inaspettato: la prospettiva di un diverso e originale circuito. «Le librerie indipendenti – conferma D’Angelo - offrono sempre più ai self publisher “indie” e perlopiù giovani l’opportunità di presentare i loro libri senza badare se siano grandi firme. La recente diffusione di questa dinamica aiuta e incoraggia ulteriormente un percorso di indipendenza». L’imperativo categorico è allora di affrancarsi dalle grinfie delle majors, ma poi è proprio tra le braccia dei grandi editori che ogni self publisher sogna di finire e di restare.


SCUOLE DI SCRITTURA

È la sindrome della pagina bianca, quella che dieci anni fa colpì Marcus Goldman, alter ego di Joël Dicker, la prima causa di proliferazione delle scuole di scrittura. E se al buon Marcus andò benone giacché, a scuola di Harry Quebert, ha potuto scrivere finora tre romanzoni di successo riempiendo per ognuno non meno di seicento pagine, di maestri con altrettanti titoli e soprattutto a titolo gratuito è proprio difficile trovarne in Italia: sempreché imparare l’arte della scrittura non sia come voler essere omosessuali (giacché le inclinazioni naturali possono essere incoraggiate ma non inventate, per cui sarebbe come volere nuove impronte digitali), ma richieda, al pari della pittura, un mestiere e una tecnica.
Ne è convinto Giulio Mozzi, fra i primi insegnanti di scrittura creativa in Italia, dopo i Pontiggia, i Crovi e i Cerami degli anni Ottanta. L’autore padovano ha intitolato appunto la sua scuola “Bottega di narrazione”. «Ci credo oggi più di dieci anni fa – dice. – Non per nulla vi sto investendo tutto il mio tempo e tutte le mie energie». Quest’anno alla sua Bottega sono stati iscritti 120 aspiranti scrittori, alcuni dall’estero, tutti presenti da remoto. Hanno seguito corsi costati fino a 600 euro se brevi e 2400 se comprensivi di laboratori e percorsi annuali. Sono prezzi più bassi rispetto a un’altra scuola di scrittura altrettanto antesignana e regina del Sud, “Lalineascritta” di Antonella Cilento. Qui si pagano mille euro l’anno e dai 200 ai 300 per un workshop, mentre per un master si arriva a 5 mila. Poco dopotutto se paragonati ai 10 mila euro che occorrono per la scuola Holden di Baricco, la quale però offre un titolo equivalente a una laurea triennale e consente di entrare in una specie di regno avulso dove può capitare che re Alessandro il Magnifico giri video e pubblicizzi libri di iscritti o insegnanti della sua corte - Davide Longo per esempio - raccomandandoli come capolavori.
Ma la paura della pagina bianca può davvero essere vinta andando in una scuola di talento? Le scuole di scrittura nascono in Italia dopo la grande glaciazione dello Strutturalismo che nel romanzo vedeva un corpo da sezionare in tante parti componibili. Come l’editing (l’intervento sui testi da parte degli editori), costituiscono forme di alterazione esercitate non sul libro ma sull’autore: impartendo le stesse teorie a tutti, concepiscono un autore modello che sappia scrivere seguendo un unico canone, per cui Saramago sarebbe stato costretto a usare la punteggiatura, Celine a togliere i puntini di sospensione, Proust ad accorciare i periodi, Sciascia a non servirsi di proposizioni paratattiche, confondendo principali e subordinate, Camilleri a esprimersi in italiano. Le scuole di scrittura allora come scuole di cucito, tante teste ma lo stesso prodotto?
«Il mio metodo – spiega la Cilento - è maieutico: punta a creare un allenamento alla scrittura diverso da quello appreso a scuola, che smonti le logiche ristrette delle scritture funzionali per aprire lo sguardo all’invenzione. Ascoltiamo le voci di ognuno per portarlo, secondo i suoi talenti, alla storia che davvero vuole raccontare. Il talento in nessun caso si insegna, ma si riconosce e nessun talento cresce senza allenamento, disciplina e formazione». Giulio Mozzi lavora in una direzione appena diversa: «La nostra ambizione è di essere una vera scuola di letteratura. Voglio dire che, vivendo nell’epoca della narratività a ogni costo, ma essendo un’opera letteraria soprattutto scrittura, non ci interessa insegnare a scrivere quelle opere che il mercato potrebbe premiare, ma aiutare i nostri allievi a cavar fuori da sé una voce consapevole, controllata, artisticamente forte». Si può dunque insegnare a trovare la propria voce, ma anche ad averne una nuova.
Lo scrittore Marcello Fois, autore di un Manuale di lettura creativa su come essere innanzitutto lettori, ha insegnato per quattro anni alla Holden e da quattro è alla Belleville di Milano. Secondo lui la scuola di scrittura è a immagine di ogni insegnante: «Io sono del parere che se formi grandi lettori quelli poi capiscono se possono diventare anche scrittori. Chi lo è in nuce viene insomma messo in grado di scoprire da sé se scrivere può essere per lui una professione. Il talento certamente non si insegna, ma chiunque può imparare a capire in una scuola di scrittura se ce l’ha o no».
Epperò neppure Fois, come nessun altro autore che insegni a scrivere, è uscito da una tale scuola. «È vero – dice l’autore sardo -, ma sono stato all’inizio un lettore forte e quindi è come se avessi applicato su di me il metodo che adesso adotto con gli altri». Dice Antonella Cilento, che in La caffettiera di carta ha raccontato la sua vicenda: «Gli strumenti che hanno favorito la mia scrittura fra gli anni del liceo e quelli dell’università sono stati numerosi tipi di laboratorio e molte esperienze: dal teatro alla psicologia transpersonale, dallo sciamanesimo ai laboratori di semiotica. Pur considerando i vantaggi di un lungo apprendistato, credo che una mano tesa non faccia danno ed eviti numerose delusioni e grandi perdite di tempo».
E allora, come ogni autore minimizza l’apporto dell’editing per esaltare il proprio genio, così chi esce, anche con il massimo profitto, da una scuola di scrittura fa come quel maratoneta che taglia trionfante il traguardo dopo essersi fatto dare un passaggio per metà percorso.


PREMI&CONCORSI

La quarta via di ogni autore con un manoscritto, dopo agenzie, editori e self publishing, sono i concorsi letterari in vista di un premio che porti sulle prime due. Giunto alla 36ma edizione, il “Calvino” della rivista L’Indice è, per chi non ha mai pubblicato, il miglior trampolino. Chi ha invece già scritto anche online vede una buona occasione nel torneo della Gems “Io scrittore”, dove però giudici sono gli stessi concorrenti, sicché ciascuno (peraltro valutando solo poche centinaia di righe incipitarie) assegna punti alti ai romanzi che capisce non andranno lontano. Ma nonostante la pletora di concorsi, l’Italia non è un Paese per esordienti. A ogni ballo di debuttanti vengono di fatto impalmati puntualmente gli habituées, come è stato per il “Dea Planeta” andato il primo anno alla moglie di Massimo Gramellini e il secondo a un’autrice già affermata.
Non siamo nemmeno un Paese per premi che valgano quali medaglie al valore letterario. L’ultimo Supercampiello è andato a un romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce, nel quale un carabiniere dice a due ragazze che le porterà in questura e dove figurano frasi del tipo “Restiamo come satelliti e loro restano fermi, sono l’universo e i nostri pianeti”, che per Giulia Caminito e i trecento giurati sono evidentemente immobili. Il secondo premio nazionale vanta peraltro la gemma del 2014 di Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana, autore che nel risvolto Sellerio "riflette sulla giustizia, le sue possibilità, i suoi limiti" e poi fa sì che un sostituto procuratore rinvii a giudizio un gruppo terroristico (decisione che nel passato ordinamento spettava al Giudice istruttore), dica che il suo compito finisce con una pena giusta, come direbbe un giudice e non un magistrato, parli accorato a un bambino cui hanno appena ucciso il padre e subito dopo sul tram si trastulli a ricordare barzellette sui magistrati.
Si tratta di zeppe per le quali i grandi premi vanno pazzi. Lo Strega è primo anche in questo. Se l’anno scorso è andato a una biografia anziché a un romanzo, nel 2020 lo ha vinto Sandro Veronesi con una storia, Il colibri, dove almeno due passaggi sono memorabili: quando Chaper Hill viene vista dall’alto su Google Earth dimenticando che nel 2008 era disponibile appena una rappresentazione tridimensionale di sole 39 città Usa; e quando lo stesso anno il protagonista trascrive la definizione di “frontespizio” trovata su Wikipedia senza badare che quell’anno l’enciclopedia telematica riportava un’altra definizione.
Niente in confronto a un altro Strega dello stesso Veronesi, vinto nel 2006, Caos calmo, dove l’io narrante soccorre una donna in mare e avvinghiato a lei per salvarla si ritrova un’erezione come su un autobus affollato. Ma dopotutto è con immagni del genere che sono nati best sellers come La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, premiato con lo Strega proprio nel 2008 per una storia che prende le mosse dall’idea irripetibile di una bambina che in gita si apparta per la pupù e si rompe una gamba.
Ma allora a quale titolo vengono conferite tali medaglie al valore? Se fosse per il mercato, il più venduto e letto autore italiano di tutti i tempi, Andrea Camilleri, avrebbe meritato anche solo una volta di arrivare quantomeno finalista allo Strega o al Campiello e invece ha avuto nel 2011 appena un riconoscimento alla carriera della Fondazione Campiello. Il fatto che autori ed editori parlino malvolentieri di premi depone per un sospetto di manfrina. Emblematico il caso di Antonio Scurati che nel 2009, mancando la vittoria, giurò (parlando di “automortificazione” e “congedo definitivo”) che non avrebbe più partecipato allo Strega, poi nel 2019 ha vinto e ora dice così a Libero: «È un argomento di cui non ho nessuna voglia di parlare, perché non rientra nella mia agenda». Il testacoda di Scurati dimostra quanto gli autori siano pronti a sconfessarsi pur di rimanere nel Sistema una volta entrati. Per le stesse ragioni, anche perché diventato dirigente Mondadori, Alessandro Piperno, già Strega nel 2012, dice oggi che il tema non è di suo interesse e spiega: «Non mi esprimo mai su niente». In verità si pronuncia su tutto, un po’ come una linguaccia senza peli qual è Giampiero Mughini, che però sui premi se la morde: «Non mi faccia dire cose sgradevoli su argomenti di cui so poco e mi viene da ridere».
I premi letterari non sono dunque una cosa seria? Dice Massimo Onofri, critico letterario e spirito libero: «I premi fanno molto bene a chi li riceve. Detto questo, il critico deve però chiedersi se hanno a che fare con la letteratura e in altre parole con il canone. Cioè, chi vince lo Strega è consacrato per sempre? Assolutamente no. Lo hanno vinto fior di scrittori che però sono del tutto scomparsi». Effimeri sì, ma i libri vincitori guadagnano sempre le classifiche, motivo per il quale non c’è edizione di un premio, dallo Strega al Bancarella, che non sia oggetto di polemiche circa le congiure dietro le quinte. Onofri, “amico della domenica” e membro di più giurie, non grida allo scandalo: «Che c’è di male a ricevere la telefonata di segnalazione? Il voto è libero e personale e se c’è corruzione avviene solo nella coscienza del giurato. Certo che ricevo segnalazioni, ma se un libro non mi piace non lo voto. Posso testimoniare, quanto soprattutto allo Strega, che nessun editore si è mai permesso di dirmi che se non avessi votato un certo loro libro non avrei avuto pubblicati i miei».
Libertà di giudizio o meno, come Miss Italia non è la più bella d’Italia, così il premio Strega non va al migliore romanzo dell’anno. Nell’ultimo decennio succede come per Sanremo, dove la canzone vincitrice non è quella più cantata e venduta. Per fortuna i lettori si lasciano attrarre poco dalle medaglie, nella speranza che domani non ci badino più per niente.