Articolo uscito su Libero il 5 agosto 2022
Dipinti affissi da quattro secoli lungo le navate e nei presbiteri delle chiese dei cappuccini, nascosti da altari e tabernacoli, visibili da basso solo a distanza e anneriti dalle candele: averli rimossi dai loro monumentali supporti lignei ha significato scoprire un mondo nuovo.
Allestita dalla Soprintendenza di Messina, ne è nata a Taormina una mostra che è anche un libro di storia come di avventura. Le trenta tele dei cenobi monastici siciliani parlano per la prima volta a un pubblico che può vederle da vicino e coglierne aspetti del tipo di quello rilevato da Vittorio Sgarbi, che ha proposto persino un nome cui attribuire una Incoronazione di spine finora ritenuta di ignoto e finita da tempo nei depositi del Mume di Messina dopo essere stata nella chiesa dei cappuccini insieme con l’Adorazione dei pastori di Caravaggio. Ma come facevano i cappuccini, obbligati a vivere di questua, a permettersi un Caravaggio, uno Scipione Pulzone, un Giovanni Lanfranco, un Matthias Stomer o un Guglielmo Borremans, le cui costosissime opere venivano commissionate soprattutto a Roma e Napoli e poi fatte arrivare arrotolate in Sicilia?
La lunga ricerca preparatoria della mostra, condotta dalla storica dell’arte Stefania Lanuzza, ha potuto stabilire che i frati minori più francescani dei veri francescani erano visti dalla nobiltà come i più degni e capaci nel sostenere i precetti della Controriforma nella lotta all’eresia dilagante, meritevoli quindi di essere finanziati in vista di un apostolato da esercitare attraverso la migliore arte pittorica, sia pure destinata a illuminare ambienti perlopiù preclusi ai fedeli, nondimeno assunta a maggiore elevazione della professione di fede.
La ricerca sullo stato dell’arte, voluta dagli stessi frati cappuccini della “provincia” del Valdemone (Messina, Catania ed Enna), è partita sette anni fa e ha riguardato il solo territorio di pertinenza. È stato come abbattere un muro. «Leggendo una biografia di fra Umile da Messina, anch’egli artista cappuccino – racconta la Lanuzza – appresi che si era ispirato per la sua Trasfigurazione a un modello che si trovava nel convento di Randazzo. E lì ho trovato infatti la tela con lo stesso soggetto, che ho potuto attribuire dopo oltre trecento anni al parmense Giovanni Lanfranco».
Non è finita. Proseguendo la sua ricerca, la studiosa messinese ha anche scoperto che ci sono ragioni molto fondate per supporre che le due Trasfigurazioni romane di Lanfranco, di formato più ridotto e custodite a Palazzo Barberini e alla Galleria Doria Pamphilj, siano copie della tela di Randazzo: ipotesi questa che confermerebbe i rapporti ravvicinati tra isola e continente e che «induce – dice la Lanuzza – a riflettere sul ruolo del dipinto siciliano nel contesto della produzione del Lanfranco».
La mostra di Taormina, intitolata “Umiltà e splendore” (aperta fino al 14 settembre, ma forse prorogata di qualche mese), si raccomanda per la sua originalità, essendo la prima in Italia con un taglio che circoscrive non solo l’ambito territoriale della ricerca, ma anche l’età nella quale le opere sono comprese: dalla Controriforma al Barocco, implicando dunque un gusto che passa dalla semplificazione solenne e manieristica di un Durante Alberti al movimento colorito e gioioso di Guglielmo Borremans che fa sorridere santi e Madonne.
Santi e Madonne sono proprio le figure devozionali più care ai cappuccini, in particolare – oltre Francesco – Caterina da Siena, Agata e Lucia. Quanto a Maria la Madonna degli Angeli è la più presente nelle tele dei conventi. La più bella è quella del 1588 conservata a Mistretta e opera del manierista più richiesto, lo Scipione Pulzone che quattro anni prima per il convento di Milazzo aveva realizzato un’opera analoga. Un’altra Madonna degli Angeli, conservata a Pettineo, è stata restaurata ed è divenuta testimonianza di quanto sia stata gravida di risultati la movimentazione delle grandi pale d’altare. Racconta Giuseppe Inguaggiato di Gangi che l’ha restaurata: «Abbiamo tirato giù la grande tela, che lo storico dell’arte Gioacchino Barbera ha nel 2006 attribuito a Borremans, e ci siamo accorti che nel Settecento era stata ridotta con delle spesse strisce di cuoio apposte ai bordi per adattarla alle dimensioni del telaio ligneo dell’altare. Scrostando il cuoio abbiamo in un angolo scoperto la firma autografa del Borremans e la data del 1722».
Sono state ragioni impreviste di questo tipo a ritardare finora l’uscita del catalogo, oggetto di continue correzioni proprio per la necessità di riaprire le schede, ma annunciato per il prossimo autunno con in più testi critici relativi a dipinti non presenti nella mostra. Che si costituisce invero come un laboratorio di ricerca o un cantiere continuamente attivo. Avere negli anni rivisitato i conventi, quasi tutti dell’entroterra più montuoso, ha fatto degli storici dell’arte degli Indiana Jones in veste di profeti impegnati in una ricerca che, imponendo di dare nomi nuovi agli artisti come anche ai santi raffigurati, si offre come atto costitutivo di un “museo della montagna” diffuso e da costruire, che oltre alla storia dell’arte attiene anche a quella dell’Italia e del quale a Taormina è esposto il plastico.