Articolo uscito su Libero l'11 agosto 2022
Il giorno della cattura di Bernardo Provenzano, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso volle vedere il boss e gli chiese (secondo quanto scrive in Pizzini, veleni e cicoria) se insieme potevano fare qualcosa per la Sicilia e di cosa avesse bisogno. Negli stessi giorni di aprile 2006 il capo della mafia, latitante da 43 anni, ricevette la visita in carcere anche del direttore dell’Ufficio detenuti Sebastiano Ardita, un altro siciliano preoccupato della sua salute, giusto quanto l’attuale membro del Csm rivela nel suo ultimo libro Al di sopra della legge (Solferino), dove scrive di averlo rassicurato che in carcere avrebbe ricevuto ogni cura e la copia di una Bibbia, precisando alla fine di avere tenuto con lui una conversazione alla pari.
Per qualche motivo, certamente riconducibile al tema comune della mafia, i magistrati siciliani non resistono, benché ancora in servizio, all’impulso di testimoniare la loro attività scrivendo libri. Anche Nino Di Matteo, con I nemici della giustizia, si è mutato l’anno scorso in giudice del sistema giudiziario, dimenticando di essere pure lui del Csm e quindi parte dell’organismo di disciplina previsto dallo stesso sistema che colpisce. Ardita è andato oltre perché accusa non il sistema in genere ma l’apparato anche legislativo venuto in essere dopo la sua direzione del Dap. Secondo il suo teorema, le rivolte scoppiate in più penitenziari a marzo del 2020 in pieno Lockdown e gli “eventi critici” registrati dopo il 2011, anno del suo avvicendamento, fra cui suicidi di detenuti e di agenti penitenziari, mancati rientri dopo permessi-premio, sono stati il frutto della normativa del 2015 circa le “celle aperte”, estesa anche ai detenuti al 41 bis e motivo della presa di controllo delle carceri da parte dei mafiosi.
“Con poche scelte sbagliate – scrive Ardita, molto compreso nei propri successi – è andato in fumo il lavoro di chi negli anni aveva costruito il carcere della speranza”. Per raggiungere tale storico e chimerico traguardo ad Ardita sono bastati solo nove anni, seduto nella poltrona turchese della direzione del Dap e artefice di una “stagione d’oro” di cui però la storia si è dimenticata di dare conferma: forse perché, come scrive l’autore senza perplessità, “di carcere molti parlano ma pochi capiscono”. Ne hanno anche parlato “intellettuali” come Saviano e Veronesi, additando il sovraffollamento quale causa dei problemi in carcere, ma Ardita è categorico nel precisare: “Io ne avevo 20 mila in più [detenuti] di quelli che sono presenti ora nel circuito penitenziario, ma la situazione interna era incomparabilmente più tranquilla”.
Degli anni dell’Eldorado Ardita ricorda nel libro la sua “circolare del sorriso”, una disposizione che faceva obbligo ai secondini di mostrarsi lieti ai bambini che venivano a trovare i genitori condannati anche all’ergastolo, parodia della Vita è bella tra le sbarre. “Che ne è stato di quella circolare?” si chiede ora, prima di domandarsi perché nel 2016 le statistiche del Dap sono scomparse in coincidenza con “il momento in cui il regime delle celle aperte porta al caos e al sopravvento della mafia in carcere”.
Sul governo dei boss nei penitenziari (di cui non si sa più nulla) Ardita avanza una teoria che porta a supporre una “Supercupola”, nata tra le mafie italiane e straniere per via del 41 bis che ha accomunato i grandi boss: ipotesi che, se fondata, svilirebbe una conquista del nostro ordinamento antimafia promossa innanzitutto da Falcone e ottenuta con il suo sangue e quello di Borsellino. La sua proposta principe è allora di trattare bene i detenuti, “tutti indistintamente”, così da colpire il progetto dei mafiosi che sarebbe di mostrare lo Stato in taccia di un nemico, da combattere come fecero i terroristi. Meno male che Ardita precisa che questo atteggiamento “potrebbe sembrare strano”, ma per lui non lo è, giacché vede un’arma per combattere la mafia nell’idea di togliere i mafiosi più deboli e i delinquenti comuni, “i nuovi giunti” in carcere e “i detenuti di passaggio”, dal controllo dei boss. Trattandoli bene diventano buoni, secondo Ardita. Per il quale le celle aperte per otto ore al giorno consentono ai secondi di irretire i primi e di reclutarli.
Ma poi la proposta Ardita per una nuova giustizia carceraria diventa un’altra: “Se si vuole migliorare la vita di chi è recluso occorre partire da coloro che lavorano in carcere”. Gli agenti penitenziari, anch’essi protagonisti di troppi “eventi critici” registrati in Lockdown. “Dov’era lo Stato?” si chiede il magistrato nel libro ricordando le rivolte quando avrebbe dovuto semmai domandarsi dove fosse il governo. A un posto nel quale da Guardasigilli sembra mirare Ardita con questo suo pamphlet di spirito soprattutto politico più che di memorie da servitore dello Stato.