martedì 24 gennaio 2006

Saramago: io contro la morte della morte


La madre di tutte le guerre è quella che i Giganti ingaggiano con gli dèi dell’Olimpo per strappare loro il dono dell’immortalità. Una guerra che nessuna civiltà cristiana ha mai ipotizzato perché il castigo che Dio commina ad Adamo ed Eva, rendendoli mortali, ne è il baluardo: senza la morte Dio non potrebbe infatti farsi uomo né quindi morire né soprattutto potrebbe resuscitare.
Essendo alla base della fede cristiana come promessa di vita eterna soprannaturale, la resurrezione della carne legittima la morte facendone un ganglio del ciclo della vita e una tappa obbligata verso la salvezza dell’anima. Soltanto una coscienza laica irretita da oltranze ateiste qual è quella di Saramago poteva immaginare una vita eterna, non soprannaturale ma terrena, come sogno disponibile all’umanità. Salvo poi scoprire che la felicità sulla terra si traduce nel «peggiore degli incubi che mai essere umano può avere sognato»: la morte della morte. Cosicché il più accanito degli intellettuali miscredenti arriva a celebrare la benedizione della morte nel momento stesso in cui sembra compiere un atto di fede cristiana giacché il credo nazareno è proprio al mistero della morte che affida la sua forza. Ma non inganni questa prima acquisizione. 
La reificazione di ogni prospettiva divina e la risoluzione della morte nella sfera unicamente terrena integra una forma di nichilismo dentro una matrice di pensiero scettico che conduce a Montaigne, al bisogno, come Saramago dice, che gli stessi filosofi nutrono della morte e al postulato che filosofare è imparare a morire più che a vivere.
Immaginando il mondo senza più la morte fisica, cioè l’annichilimento del corpo, in Le intermittenze della morte Saramago pensa a una vita che decrepita sempre più, talché non si guarisce né si ringiovanisce ma si invecchia: una vita insomma non più vissuta nella pienezza delle sue possibilità ma sopportata fino a desiderare di non averla. In questo «stato di vita sospesa» l’unica soluzione possibile è istituire «dimore del felice occaso», cimiteri dei vivi dove corpi umani in senescenza e in deliquio vengono trasportati a formare falansteri di limbi eterni, terreni e terribili. 
In quella che è una vivida fantasticheria filosofica sul «nocciolo della questione», ovvero sul limes vitae, l’autore portoghese circoscrive la morte della morte a un solo paese al mondo, geograficamente indefinibile ma probabilmente riconducibile al suo Portogallo, dove un 31 dicembre nessuno muore più. Le conseguenze, dopo una momentanea euforia, sono politiche, economiche, religiose, sociali. Lo stato si preoccupa degli effetti di un incontrollato incremento demografico mentre tutte le confessioni religiose - «finalmente unite» chiosa Saramago - formano delegazioni per impetrare a cielo e terra misure che ripristinino la morte e la sindrome dell’immortalità colpisce una popolazione che precipita in un paradossale stato di inedia e di infelicità. Di fronte all’aggravarsi di queste condizioni di vita-morte, il rimedio è l’insorgenza di regole dettate da poteri tralignati e sostitutivi.
Giacché infatti negli stati vicini «la stridente forbice della parca» mantiene indefettibile la sua funzione, molti degli abitanti del paese privo della morte chiedono di essere portati al confine, superato di un centimetro il quale cominciano infatti a morire. La domanda è crescente e viene presto tolta di mano all’iniziativa spontanea per essere controllata dalla «maphia», che presto impone anche allo stato, ormai incapace di affrontare l’emergenza, le sue condizioni su prezzi e smaltimento degli aspiranti morti. La «maphia» in figura di novello Cicikov smercia e governa «anime morte» non solo risolvendo «la più appassionante e accesa polemica che si conosce in tutta la storia di questo paese», quella dell’eutanasia, offerta in modi che le circostanze rendono obbligatoria e indiscutibile, ma ponendo anche la questione di bioetica se la morte sia la stessa per tutti gli esseri viventi, uomini, animali e vegetali, e se sia unica per tutta la specie umana o se ognuno ne abbia una diversa.
Senonché la morte, lungamente e caldamente richiesta, torna infine nella vita degli uomini per mezzo di un annuncio in televisione, ma introducendo una novità: recapiterà lettere viola con un anticipo di sette giorni a quanti sono destinati a morire. Una lettera però le torna sempre indietro per cui il destinatario rimane in vita. La morte, stupefatta, va a trovarlo in casa trasformandosi in una donna e scopre un violoncellista. Lo ascolta suonare e di fronte alla bellezza dell’arte recede, così come un’altra morte - nel film di Martin Brest Vi presento Joe Black - vacilla lasciandosi sedurre dalla bellezza della figlia di un mortale conosciuto per portarlo con sé. Per questa via si compie una nuova «benedezione della vita» dopo quella della morte, entro un clima di contesa delle due anime del Faust goethiano, una attratta dalle tenebre e l’altra avvinghiata alla terra. Ma qui non è l’uomo bensì la morte a trovarsi a decidere, prossima a un patto con la vita in un rovesciamento del modello faustiano che è arrivato fino a Mann con una inflessione accentuata, in Mann e Saramago, verso gli effetti della musica classica sui turbamenti dell’anima. 
La morte che si riscopre un’anima e che diventa essa stessa anima è dunque la sintesi di un contrasto insanabile nella mistica cristiana che impone di creare la bipolarità tra morte terrena e vita eterna. Di qui la novità dirompente di un Saramago secondo cui la morte ha ammazzato molto meno dell’uomo e altro non è che una «destinazione» cui vanno a finire tutte le direzioni in cui si muove e si agita il gregge umano, un motivo della vita, un fattore umano e un elemento di natura: una simbiosi di cui sono testimonianza «le inquietanti somiglianze della radice della mandragora con il corpo umano» o il disegno di un teschio umano sul dorso di una farfalla, l’«acherontia atropos». 
Più che un omaggio a Proust il titolo suggerisce forse una reinterpretazione del tema dell’«intermittenza del cuore», dove sia la morte a prendere il posto della memoria?
Non si tratta di una reinterpretazione delle «intermittenze del cuore», ma di qualcosa come un riflesso inconsapevole dell’opera più grande di Proust. Il titolo del mio romanzo era già deciso, quando la memoria, come uno specchio che rivelasse lentamente un’immagine antica, mi portava un’eco, una risonanza di una sorta di parallelismo formale tra le mie «intermittenze» e quelle di lui. Si prenda la coincidenza come omaggio dell’ultimo dei discepoli al maestro irraggiungibile.
Lei che è tentato dal nichilismo stavolta consente che alla fine la morte si lasci conquistare dalla vita. Ci si aspettava ben diverso epilogo. 
La morte non può essere conquistata. Quel che esiste, in realtà, è una simbiosi tra la morte e la vita, una necessità reciproca assoluta, una relazione alla quale quasi potremmo dare il nome di «commensalismo»: la morte, per esserci, ha bisogno della vita, ma la vita, per continuare ad esserci, ha bisogno della morte.
Il romanzo si costituisce in senso palindromico: ricomincia da dove finisce. Un modo per ritrattare la sorprendente conclusione o per risvegliare il mito di Proserpina? 
Non c’è «primavera» nel dialogo tra la vita e la morte, salvo se intendiamo come tale il sorgere di ogni nuova generazione. Il libro ripete nel finale la frase con cui era iniziato per mostrare al lettore quel che lui già sa, che non abbiamo soluzione per il morire. Arresa per amore, la morte del mio libro si addormenta nelle braccia dell’uomo, e nel giorno seguente nessuno morirà; ma si capisce che appena dopo questo nel giorno seguente ancora cominceranno a ripetersi le catastrofi, il caos, insomma: la dimostrazione della impossibilità di una vita senza morte.
Certo, la morte che si lega a un mortale non ci è mai apparsa così «umana». Salva la vita a un uomo scelto per caso o salva la vita a un uomo che è un violoncellista?
Se la lettera non fosse stata rimandata al mittente una, due e fino a quattro volte, la morte, che è obbligata per dovere d’ufficio a far morire quell’uomo non si sarebbe trasformata nella donna. Quel che non poteva prevedere è che si sarebbe innamorata di lui. Forse la musica ha avuto un’influenza nel risvegliare il loro sentimento, ma la avranno avuto pure il carattere particolare di quell’uomo, la sua solitudine, e perfino il suo stesso cane che è salito in grembo alla morte.
La morte viene sedotta dalla suite numero sei di Bach e comunque dalla musica, cioè dall’arte. Dunque la morte può essere vinta. E questo può farlo l’arte. 
Tutto muore, tutto finisce, e l’arte non sarà un’eccezione. Quando la specie umana si estinguerà nulla rimarrà di quel che facciamo, di quel che pensiamo, di quel che immaginiamo. Per l’universo sarà come se non fossimo mai esistiti. Gli atomi che siamo, e che si disperderanno nello spazio, non potranno raccontare nessuna nostra storia. 
Aveva la bellissima idea di raffigurare la morte con la farfalla «acherontia atropos». Perché ha preferito le lettere viola? Per ragioni legate alla costruzione narrativa? 
Il color viola è d’abitudine associato al dolore, alla tristezza, alla morte. Per questo l’ho scelto. Quanto alla farfalla una ragione sufficiente per servirmi di essa è stato il fatto che quella farfalla ha sul dorso una macchia che assomiglia alla forma di un cranio umano. Ma la morte non è rappresentata da essa. La «acherontia atropos» appare soltanto come un elemento in più per creare l’atmosfera in cui la storia si sviluppa. 
Un punto centrale del romanzo è quello che riguarda l’unione di tutte le religioni davanti all’incubo della sospensione della morte di cui hanno tutte bisogno per sopravvivere. Lei ha sempre sostenuto che la religione è stata la prima causa di divisione e di guerra dei popoli. Adesso vuole dirci che solo la morte può unificarle? 
Nulla può unificare le religioni, e meno ancora la morte, che è stata manipolata da esse, a partire dal paradiso promesso per dopo la morte fino al sacrificio della propria vita per gli altri. E tutto sempre in nome delle divinità e per la loro maggior gloria. Per questa cosa in particolare la vita umana è una farsa tragica. 
Il tema della bioetica e quello della eutanasia hanno qui un ruolo preciso. Lei li affronta da uno speciale punto di vista: se la morte sia uguale per tutti gli esseri viventi, animali e vegetali, e se dunque ci siano più morti «settoriali». Che risposta dà alla domanda che lei stesso pone: il baco da seta vive come farfalla o la vita della farfalla dipende dalla morte della crisalide?
La morte non cammina per conto suo come se fosse estranea a noi. La nostra morte nasce con noi, nasce quando noi nasciamo, ce la portiamo dentro, e per il tempo che viviamo, questa cosa, la morte, c’è appena. Fino a che arriva il giorno in cui, prendendo un nome (il nome della malattia di cui dobbiamo morire, per esempio) diventa una presenza. La nostra «vendetta», per dirla così, è che questa morte non ucciderà nessuno più, morirà con noi. La crisalide è un transito di passaggio, veicolo di una forma di vita, è essa stessa una forma di vita, per trasformarsi in un’altra forma di vita. Se le crisalidi morissero non ci sarebbero farfalle. 
Dio e la morte, «eminenze supreme», non stanno sempre insieme né sono presenti in tutto il mondo. Nella cosmogonia che lei ricrea Dio è in tutto l’universo, mentre la morte ha potere solo sugli uomini. Però, la morte, anzi le diverse morti, tante quante sono gli Stati, controllano tutto il genere umano mentre Dio non è lo stesso in tutto il mondo.
Quel che non è uguale in tutto il mondo sono le rappresentazioni di Dio, non Dio. Dio, nell’improbabile caso che esistesse (personalmente non credo nella sua esistenza) sarebbe unico, uno solo. Non è pertanto in nome di Dio che le religioni fanno guerra le une contro le altre, ma certamente in nome delle loro rappresentazioni. A mio parere, questo mostra la dimensione di irrimediabile stupidità della specie cui apparteniamo.
C’è un allarme insito nel travalicamento che la morte fa delle sue funzioni: una persona che svolga bene i suoi compiti alla fine diventa padrona di quel che fa, senza più controlli. Come dire, talento e zelo possono essere armi molto potenti.
Nessuno è completamente padrone delle sue azioni. Siamo condizionati in ogni momento da tutto quel che ci gira attorno. Per esempio: si può agire contro la nostra epoca, ma mai fuori della nostra epoca. Nessuno potrà dire: «Sono totalmente libero, faccio quel che voglio». La verità è che siamo agenti della Storia, ma siamo pure assoggettati ad essa.
«Di dio e della morte non si sono raccontate altro che storie. E questa è soltanto una in più» lei scrive. Una storia o un apologo forse anche morale ed etico?
Una storia, un apologo, un’allegoria. Sì, ma soprattutto uno sforzo per tentare di comprendere che cosa sia questo: il fatto di essere uomo.