Alla fine protagonista di Questa storia (Fandango) risulta non Ultimo ma il personaggio che parte per ultimo, Elizaveta, mentre il ragazzo con «l’ombra d’oro» (così chiamato per una congenita espressione sul volto che lo rende manifesto a tutti, al pari di un dio fanico) regredisce nel fondo di un tempo che non gli appartiene più: il tempo nel quale anche il suo circuito automobilistico, il sogno per il quale è nato (perché «la gente è viva solo quando riesce a fare quello per cui è nata»: sicché aspetta o ricorda), è diventato un rudere irriconoscibile. Il tempo di Ultimo è piuttosto quello nel quale ha vagheggiato il suo sogno, lungo tutta la vita, mentre iI tempo di Elizaveta è quello venuto dopo, come una illuminazione, in tarda età, quando scopre di essere vissuta nello spirito di Ultimo, seppure mai più visto dopo il 1923. Diventata ricchissima, Elizaveta rimette in funzione nel 1969 il circuito realizzato da Ultimo, circuito cercato in tutto il mondo per 19 anni, e su una Jaguar pilotata da un collaudatore compie ad alta velocità tanti giri finché non ha la rivelazione di non trovarsi in una pista ma dentro il disegno della vita di Ultimo (lo strano disegno che egli correggeva continuamente da ragazzo e che le ha fatto trovare tanto tempo dopo), un’autobiografia nella quale figurano capitoli, cioè curve, che riguardano lei stessa.
Avendo avuto per destino due tempi diversi nei quali vivere (perché non si vive tutta la vita ma solo per una breve parte di essa) Ultimo e Elizaveta non si incontrano più e nulla fanno per rivedersi: Ultimo lascia alla madre la mappa del circuito nella supposizione che un giorno lei vada a trovarla e Elizaveta incontra il padre di Ultimo per averne notizie ma nulla gli chiede di dove si trovi. È come se entrambi sapessero di doversi fare bastare quanto ciascuno ha fatto, non avendo importanza la presenza fisica e la vicinanza dell’altro, contando dunque la sola sublimazione dell’amore platonico, la consentaneità che dura tutta la vita e che non richiede che l’affinità per alimentarsi.
E allora «questa storia» (che conta tante e diverse storie, raccontate con variazioni vertiginose della focalizzazione, che passa da istanze extradiegetiche - con la voce del narratore onnisciente - a intradiegetiche - dove a narrare sono i personaggi attraverso diari o memoriali) non è quella delle piste automobilistiche, della loro nascita ed evoluzione (contro la logica delle Mille Miglia, delle gare cioè su strada, e contro l’esempio degli ippodromi dove le curve sono solo in un senso), ma quella di due anime sperse nel mondo e nella vita che in una breve stagione si frequentano solo da amici e colleghi per poi scoprire, decenni dopo, di essere state sempre vicine perché hanno capito di essersi sempre comprese. Comprese su cosa? Sul comune impulso a mettere ordine nel mondo, a riequilibrare il caos che è nella natura o frutto dell’azione dell’uomo. Vediamo come agisce in entrambi questa spinta interiore.
Ai primordi dell’era automobilistica, quando con le auto nascono anche le strade asfaltate, Ultimo non è dal mezzo tecnologico che è attratto ma dalla strada: perché è la strada a dominare l’automobile - ecco la sua grande scoperta - imponendole il percorso da seguire e la velocità da tenere, la strada che è dottrina della geometria perché ricerca la migliore forma di ordine, la strada con le sue curve e i suoi tornanti, «movimento di danza» essi stessi, espressione artistica e dunque «forma della vita». Sicché gli incidenti automobilistici avvengono perché la strada non viene rispettata ma violentata: il pilota corre più veloce di quanto essa consenta o non ne segue a regola d’arte il disegno.
Questa teoria, della cognizione dell’ordine contro i postulati dell’entropia, porta Ultimo a spiegare anche la disfatta di Caporetto dove si è trovato dalla parte degli sbandati. Dopo due anni di guerra di trincea i nemici hanno ragione degli italiani perché rompono le regole e impongono il caos, la violazione dell’ordine delle cose: anziché attaccare frontalmente, in massa e a ranghi compatti, e cercare di conquistare le alture, si dividono in contingenti ridotti e aggirano le truppe italiane cogliendole alle spalle. Il risultato non è quella che la storia ha definito «rotta», di trecentomila soldati che si consegnano prigionieri senza sparare un colpo o lasciano il fronte disertando, ma è quello - naturale e collettivo - di chi veda il caos sopraffare la forma e risponda dunque con lo sgomento e la perdita del senso della realtà. Se i nemici arrivano inaspettati alle spalle viene infatti scardinata l’idea di fronte e di confine sulla quale i soldati hanno educato per anni le loro ragioni di guerra e di morte e si afferma lo spirito dell’informe: la trincea è l’ordine convenuto e stabilito, la strategia delle «termiti» affidata a manovre da guerriglia è invece la rottura dell’ordine, l’inosservanza delle regole, che dunque autorizza reazioni inconsulte e inopinate come abbandonare la battaglia o darsi al saccheggio.
Ultimo ha chiara questa concezione del mondo, diviso tra ordine e disordine, una teoria presocratica che dalla cosmogonia esiodea e ovidiana arriva all’idea umanistica e machiavellica di areté, alle acquisizioni gestaltiste e ispira l’intera filosofia del divenire. La prima rivelazione di questo stato d’ordine la vive da bambino quando con il padre, in una Torino avvolta nella nebbia, gira per un’ora sempre attorno allo stesso isolato. Da grande ricorderà l’esperienza con nostalgia (mentre il padre dimenticherà del tutto l’episodio) «perché era l’ultima memoria che aveva di una figura geometrica in cui pareva contenuta senza imperfezioni la forma della vita». E ricorderà come figurazione formale anche il rettilineo percorso su una moto da casa all’ospedale dov’è ricoverato il padre dopo un incidente stradale, «una particella d’ordine» anch’esso. Sono gli unici due richiami a un ideale ortogonico del mondo e della vita, nella cui forma Ultimo vede prendere corpo i contorni in una ipostasi che ne ripete il senso e il significato: il circuito automobilistico. Che riuscirà a realizzare ma in una figura «inguidabile», per automobili da corsa che dovranno ancora venire; inguidabile sì, ma conforme alle curve e ai tornanti che la vita stessa prende secondo un disegno di prescienza del destino. E dal canto suo Elizaveta capisce solo da vecchia che anche lei non ha cercato che di mettere ordine nel mondo: quando da ragazza vendeva in America con Ultimo pianoforti (che lui aggiustava ricomponendone dunque l’armonia) e amava «corrompere» le famiglie, nelle case delle quali entrava per tenere lezioni mettendo scandalo o facendo esplodere i contrasti interni, cosa faceva se non ricomporre anche lei l’ordine delle cose frante? Con la differenza non eludibile che la ricomposizione del mondo che intende Ultimo è rivolta agli oggetti mentre quella di Elizaveta riguarda le persone.
Quando fa ricostruire il circuito per poterlo sperimentare è Ultimo che Elizaveta vuole evocare tant’è che, riuscita nell’intento, dà ordine di distruggerlo. Mentre Ultimo, quando i suoi compagni d’armi fanno razzia in una casa di ricchi, non è attratto dalle vivande, dall’oro o dalle donne ma sono le posate delineate in curve flessuose a dipingergli nel volto una espressione d’estasi. È forse questa differenza a tenere lontani i due e distinguerli. Lei dice al padre che non lo ha mai amato e lui dice a una donna conosciuta occasionalmente che «era una strada piena di curve assurde, una di quelle strade su cui ci si ammazza». Eppure si pensano e si cercano per tutta la vita, uniti in una specie d’amore che li tiene avvinti quanto più distaccati. E che vive di «corrispondenze», che sono sentimenti condivisi simbolicamente. Quando alla Mille Miglia, nel 1950, lui vede una Jaguar a una pompa di benzina, nota sul cofano dipinto il numero 111 che trova così bello da compiere 111 passi perché il gesto porti fortuna a una ragazza secondo cui il mondo è «tutto uno schifo». Non sa che uno dei due piloti che vede da lontano scendere dall’auto nel buio è Elizaveta. La quale nel 1969 vedrà proprio in quella Jaguar con «il bel numero» 111 «la macchina giusta per il circuito di Ultimo».
Elizaveta e Ultimo a distanza di anni si ritrovano dunque inconsapevolmente d’accordo sulla forza augurale di un numero che chissà se non sia venuto a Baricco come retropensiero di una canzone omonima di Tiziano Ferro che canta di un «bambino appena nato che dormirà felice sulla schiena del passato» e che ritiene il 111 il suo numero epifanico. Quantunque si sfiorino, Elizaveta e Ultimo non solo non si incontrano mai ma si allontanano sempre più finché non muoiono in tempi e luoghi lontani, ignari uno del destino dell’altra, dei rispettivi sentimenti e di cosa la vita ha loro riservato. Una storia d’amore dunque «questa storia», dove è l’ananké a scandire lo svolgimento in disposto con la l’ineluttabilità che iscrive la vita in enunciati simbolici assegnando a ciascun essere umano uno scopo. La vita di Ultimo è iscritta nella idea di strada, nel suo significato allegorico di strumento di ordine. Quella di Elizaveta è iscritta nell’idea di perdita, nel significato di recupero del passato e quindi di ricomposizione dell’ordine infranto. Alla fine, dopo una vita eidetica di sole immagini sensitive, di pensieri e ricordi, di attese e memoria, Elizaveta «per la prima volta sentiva una gran voglia di stringere Ultimo tra le braccia, e di toccarlo, e di sentire il suo corpo. Non mi importa di niente, pensò, vorrei solo quello. Voglio una cosa perduta, si disse». È la ribellione al destino a fare di lei la protagonista autentica di questo romanzo di predestinazione (la sua) più che di formazione (quella di Ultimo). Dove è proprio il destino il solo demiurgo ordinatore, per il quale il vero talento è «conoscere le risposte quando ancora non esistono le domande».