venerdì 23 dicembre 2005

I draghi di Buttafuoco e le uova marce



Galilei dice dell’Iliade e dell’Orlando Furioso che la cosa meno importante è che quello che vi è scritto sia vero. Se si accetta questa formula anche per Le uova del drago di Pietrangelo Buttafuoco, si può allora rinunciare al gioco di verificare i fatti e si può dunque accreditare l’indicazione di «romanzo» che campeggia in copertina. Epperò mai come in questo caso l’etichetta appare fuorviante, seppure mai sia sembrata tanto necessaria per impedire che vengano considerate non casuali certe coincidenze tra persone e personaggi. Dimodoché mentre avverte - e nello stesso tempo sviando - che i fatti «non sono frutto della fantasia» (con l’avverbio segnato in un ancipitario corsivo), l’autore aggiunge di averli trasfigurati in un «falso storico» ricomponendoli perciò in figurine di un immaginifico teatro dei pupi. Quando augura «buon divertimento» è dunque uno spettacolo che annuncia, ma il tono sembra di chi salga sul palco per rivelare verità nascoste anziché sul trespolo per cantare l’ultima storia siciliana e farsi puparo.
Ma cos’è nella tradizione siciliana l’opera dei pupi se non un modo per raccontare la storia, corretta sia pure da eccipienti esornativi a maggior gioia del pubblico? È proprio questa tradizione che Buttafuoco innova, cantastorie in preda a una singolare sindrome di Tourette che sintetizza la saga medievale e l’epopea brigantesca in una decussazione dove i nomi della prima sinopia traslocano in capo ad alcuni araldi della seconda. Se i cantastorie piantonavano piazze raccontando le gesta dei paladini ma anche quelle di Giuliano facendo ridere e ricordare carabinieri e mafiosi agli angoli, Buttafuoco riscrive i mesi dello sbarco accampando personaggi da ribaltina in armamento allegorico accanto a figure reali convocate dai libri che sui fatti hanno fatto storia e non teatro. Non è un caso che nella bibliografia finale figurino quasi esclusivamente titoli di saggistica storica ancorché la calviniana «smania di raccontare» del reduce e del testimone abbia mosso i massimi narratori siciliani, da Bufalino a Sciascia a D’Arrigo a Brancati a Vittorini.
Sono piuttosto gli autori di storia patria ad avere attratto Buttafuoco, in testa Salvatore Nicolosi e Sandro Attranasio - più il secondo che il primo. Come egli stesso ammette, Attanasio è stato il suo breviario che ha copiosamente saccheggiato. Da Gli anni della rabbia vengono infatti gli episodi dei carabinieri di Bronte portati a Catania e presi a calci in pretura dagli inglesi, dell’interprete che sviene a sentire pronunciare dal tribunale militare la condanna a morte di un innocuo catanese, di un imputato che rischia di essere fucilato per avere tenuto in casa opuscoli della Smorfia; e lo stesso gesto che «Mario Turri», nome di battaglia di Antonio Canepa, fa disegnando una stella a cinque punte su un foglio ripete quanto ha già detto Attanasio prefigurando le Brigate Rosse. Turri, nel romanzo di Buttafuoco, è un agente dei Servizi inglesi al soldo però dei Servizi segreti tedeschi; non solo: è anche un fervente comunista e un acceso sostenitore dell’indipendentismo siciliano. Buttafuoco lo dà per ucciso il 17 giugno 1945 a Randazzo, dove in realtà muore Antonio Canepa.
L’autore schiaccia perciò Orlando Turri sulla figura di Mario Turri secondo un procedimento che informa tutto il romanzo, nel quale persone reali compaiono - appunto trasfigurate - non solo a fianco di figure inventate ma anche sovrapposte a se medesime oppure accanto a protagonisti storici che però si mostrano sotto nomi presi dall’album dell’«opra dei pupi». Di qui l’opera di straniamento che l’autore si propone: non sappiamo se ci racconta fatti accaduti o se il suo è tutto un cuntu sulla scia dell’anabolizzatore capitolo introduttivo posto a epigrafe del romanzo. A Buttafuoco l’equivoco piace perché l’ha voluto scegliendo un sottotitolo che da solo basta a mettere di traverso la verità: "Una storia vera al teatro dei pupi", un calembour che ha significato di ossimoro e di palinodia. Una «parodia» che sarebbe senz’altro piaciuta a Sciascia non tanto per il piacere della microstoria quanto per la contaminazione della storia e la rottura della sua struttura. Questo fa infatti Buttafuoco: vuole un romanzo, non però per dire meglio ma per dire di più; e adotta il modello del récit imbevuto nel novel. Dove l’aderenza al dato storico gli risulta insufficiente o lo espone all’onere della prova salta da quello a questo genere, così alla fine rimanendo a metà, in un limbo nel quale non dice sempre il vero né dice sempre il verosimile e neppure dà il romanzo d’invenzione.
Il risultato è che il romanzo non decolla mai e il saggio storico accumula via via elementi di improbabilità fino alla taccia di inattendibilità. E’dunque del lettore la scelta se leggere per divertimento o per apprendimento, come è già capitato alla vita di Giuliano proposta da Mario Puzo, deciso a offrirne una biografia e non arrivato oltre il sembiante di una caricatura.
Non è il caso di Buttafuoco, il cui principale merito è di carattere giornalistico: la scoperta di uomini, donne e fatti che - ignorati dalla storiografia e sia pure trattati col lievito di una fantasia a volte a briglia sciolta - restituiscono un nuovo aspetto a una stagione che è un pozzo di Pandora o un verminaio. La più clamorosa scoperta quella di cui aveva già notizia Attanasio: di una giovane spia tedesca inviata da Berlino in Sicilia per preparare sacche di resistenza contro gli Alleati e covare focolai di rinascita, come fossero «uova del drago». Eughenia Lenbach riesce nella missione e si mette a capo di una rete di cospiratori tanto estemporanea quanto efficace. La sua vicenda si intreccia con quella della Sicilia tra il luglio del ’43 e la primavera dell’anno successivo. Una vicenda che è diventata una favola storica o una storia fiabesca.



Lo stile con il quale lei costruisce il libro non è esattamente diegetico. I dialoghi sono ridotti all’essenziale e il racconto è molte volte paratattico. Perché non ha voluto dare al romanzo un taglio più narrativo e ha scelto di inclinare con insistenza dalla parte del saggio storico?
Ho scelto di adoperare gli strumenti del mio mestiere, il giornalismo. È sempre difficile volgere il tutto sotto il ricatto della narrazione. Come si dice: per quello ci vuole uno pratico.
Il suo è un romanzo con una bibliografia finale: quasi a dire infatti che non si tratta di romanzo. Cosa c’è di vero? E cosa c’è di suo?
Io faccio come Giufà quando se ne partì da Raffadali per arrivare a Girgenti. In quel tempo il sultano di Girgenti aveva dettato un editto secondo il quale chiunque fosse arrivato in città per dire una menzogna sarebbe stato impiccato a un albero. Giufà arrivò e, interrogato dalle guardie, disse: «Sono venuto a dire una menzogna». Tutto il corpo di guardia allora si mobilitò per portarlo in catene davanti al sultano. Gli esposero il caso, anzi gli riferirono la grave intenzione e subito, strattonando il tapino, si prontarono con un cappio per eseguire la sentenza: morte. Solo che il sultano fece no con la testa e no ripeté spiegando il motivo di così sfacciato ripensamento sul proprio editto: «Proclamando la sua intenzione di dire una menzogna quest’uomo sta solo dicendo la verità». Ecco, nel romanzo, c’è la benedizione di Giufà.
Ma Giufà benedice il vero o il finto?
C’è solo una trasfigurazione. Quello che io ho raccontato sotto forma di libro ha già un canone storico, il libro di Sandro Attanasio, Gli anni della rabbia. 1943-1947, editrice Mursia, ma il mio, appunto, è un romanzo.
D’accordo, ma ci sono personaggi inventati di pianta in questa incredibile e sepolta storia?
Nessuno e dunque tutti.
Chi dei tanti protagonisti ha incontrato di persona?
I fratelli della protagonista, quasi tutti i componenti dei gruppi clandestini e anche gli eroici paladini, ovvero gli antifascisti. Infine le comparse. E i testimoni.
Ma sembra chiaro che ci deve essere una fonte, o forse più di una, che è stata privilegiata e generosissima. La sorella della Lenbach e il fratello prete, d’accordo. E poi?
La comunità dei tedeschi siciliani è più numerosa di quanto si creda, così come tanti sono in Germania i testimoni di questo frammento di memoria. Aspettavano solo un contastorie o un cantastorie (che non è precisamente la stessa cosa).
La testa mozzata di un cane bianco segna la fine di alcuni protagonisti, soprattutto i cosiddetti «turchi», ma scandisce anche la morte di Eughenia. Che significato simbolico ha? E chi è stato l’unico mandante?
Il cane adagiato sulla salma è quanto di più infamante si possa immaginare per un guerriero musulmano. Accadeva la stessa cosa nell’opera dei pupi. Il mandante è il solito Gano, il doppiogiochista.
Il sedicente Gano Maganza alleverà cani bianchi a Monza. Chi è che porta un nome così ariostesco?
Ovviamente è un segreto dal punto di vista della cronaca. Dal punto di vista della favola trattasi di un traditore.
E chi sono quelli che si chiamano - che lei chiama – Carlo Magno, Agramante e Rinaldo? Sono i soli che hanno epiteti, mentre gli altri hanno nomi e cognomi riconoscibili.
Personaggi del primo separatismo, della Democrazia cristiana del Dopoguerra e affaristi le cui gesta hanno fatto il capitolo del grande intrallazzo nazionale. Nomi non se ne fanno: è pur sempre un roman
zo. Chi conosce, sa.
Non teme che qualcuno possa identificarsi in qualche pseudonimo e reagire con malgarbo?
E perché mai? In alcuni dei personaggi s’innestano almeno altre due biografie, l’arbitrio del romanzare serve soprattutto a rendere più agevole la narrazione, non certo la mistificazione e comunque, perché dovrebbero reagire con malgarbo: ognuno ha la sua giusta luce.
Pare di capire che se fu scelta la Sicilia come primo teatro dell’invasione non fu per ragioni strategiche ma per un preciso business: il progetto di fare arrivare dal Medioriente petrolio da stoccare e nascondere, sfruttando la struttura dell’industria zolfifera. Progetto che si aggiungeva a quello di importare a Levanzo uranio e plutonio per la costruzione dell’«arma segreta». Se è così, occorre riscrivere la storia.
E’ sempre così: la guerra è pur sempre una ghiotta vendemmia. E la storia va riscritta continuamente.
A un certo punto uomini da Levanzo vanno a Catania per un carico e da qui ad Alimena che si trova dall’altra parte dell’isola (e certamente non a mare), tornando praticamente indietro. E’ una incongruenza depistatrice?
Bellissima la categoria dell’incongruenza depistatrice. Depistare è nella natura di Eughenia Lenbach.
Perché il romanzo si interrompe dopo la spedizione nelle Egadi e l’annuncio che l’Abwehr è sciolto? Cosa succeede da quell momento fino alla consumazione dei singoli «destini»?
Con lo scioglimento dell’Abwer e, di conseguenza, con la trasformazione della Germania in una mostruosa macchina di partito, si conclude la missione della guerriera Eughenia Lenbach. Da quel momento in poi lei cercherà una casa.
Infatti nella nota finale, dove sfilano tutti i personaggi a distanza di alcuni anni, Eughenia Lenbach appare donna sposata e borghese, integrata nella società siciliana e dimentica dei suoi trascorsi. Una trasformazione che ha dell’inverosimile.
Invece fu così. A differenza dei militari che vivono nelle guerre per continuare altre guerre, i veri guerrieri non si sottraggono al conflitto, ma - una volta concluso il loro compito - aspirano alla vita normale, alla regola fondamentale di dare pace cercandosi la pace.
Apprendiamo nella stessa nota finale che la Lenbach viene uccisa, fors’anche da oscuri servizi. Sia pure nel piano del romanzo, qual è la logica per cui debba morire ammazzata?
È stata uccisa per consumare una vendetta. E non è stata uccisa dai servizi tedeschi.
Che idea si è fatta di Eughenia Lenbach? Il suo giudizio non traspare dal romanzo.
Incarnava la modernità. Anche sotto specie guerriera.
Eughenia Lenbach era davvero così bella e affascinante come appare nel libro?
Di più. La realtà è sempre più affascinante della fantasia.
Che legami ha la Lenbach con il nucleo comunista che vive in promiscuità in una casa a Catania e che dà luogo a una specie di comunità del tipo «arancioni» davanti alla quale un curioso vicino perde pure la ragione?
È un passaggio fondamentale, non fosse altro per rendere omaggio al comunismo dei primi gruppi catanesi, una fornace d’intelligenza e di spirito libertario.
Angelica La Bella, quasi nomen omen, è davvero esistita? Una ragazza meno che ventenne che fosse una specie di genio nel campo della chimica e degli esplosivi?
Certo che è esistita e se solo potessi rivelarne il nome comincerei col raccontare una delle più intriganti biografie che fanno grande la tradizione scientifica etnea.
Immagina o lascia immaginare un rapporto saffico tra Angelica e Eughenia?
No, era solo un normale rapporto d’amicizia tra due ragazze, un solido legame fatto anche di fisicità. Nella società degli anni ’40 era ovvio che due giovani potessero dormire nello stesso letto. La stessa cosa valeva anche per i maschi e solo per genuina semplicità del vivere.
Undici combattenti musulmani al seguito di un prete cattolico che prende ordini da una donna agente tedesco in una Sicilia ormai liberata dagli Alleati. Stupefacente pensare che la Sicilia sia stata teatro di un tale helzapoppin’.
La Sicilia è da sempre il teatro privilegiato di ogni «pretesto». Fu a Palermo che ufficialmente si diede sede la Legione araba.
Rileva dal suo libro che la Chiesa siciliana si schierò dalla parte dei tedeschi e sostenne le iniziative cospiratrici e le azioni di guerriglia di gruppi paracomunisti o pseudo tali. Ma fino a che punto prelature di Catania e Palermo e di altre diocesi seppero di don Angelo Ferraù, il prete combattente e «carbonaro»?
Nei sacri confini della confessione seppero tutto. E non fu il solo tra i sacerdoti.
Lei racconta l’invasione angloamericana dall’ottica di chi è stato sconfitto. E dà l’idea che i siciliani non è che corsero tutti e incondizionatamente incontro agli alleati. Che si resero peraltro responsabili di crudeli massacri.
Sui crudeli massacri rimando ai lavori documentati di Ciriacono, un ricercatore ragusano che ha riportato alla luce i ricordi della strage di Acate, ripresi dal "Foglio" e dal "Corriere della Sera". I siciliani non corsero incontro agli americani, si precipitarono piuttosto verso la conclusione della guerra, una qualsiasi tra le conclusioni e spesso, malgrado certa la letteratura, tenendo fede alla dignità.
Definirebbe questo romanzo un libro di destra?
No, niente ideologia, non erano certo di destra i personaggi di questa messa in scena, anzi. In questo libro ci sono solo gli ultimi bagliori del Peloponneso raccontati dal punto di vista di Sparta.