venerdì 16 dicembre 2005

Intrighi accademici e fascisti per un papiro



Una ragione c’è se di Goffredo Coppola, rettore a Bologna fino al 1945, filologo e grecista tra i più autorevoli del Novecento, non si sa pressoché nulla: la colpa è della damnatio memoriae che ha esercitato tutto il suo peso per fare tavola della cultura fascista. Coppola fu impiccato a Piazzale Loreto nel giorno in cui la cultura italiana cambiò d’émblée gabbana. Ma in realtà l’insigne studioso, fiero araldo dello spirito fascista, sempre fermo a dare prova di coerenza e strenuo paladino di una fede sia pure sbagliata, non fu pagato che con quella stessa moneta che lui ritenne corrente per vendere al lete italiano uno dei geni più brillanti e acuti che la ricerca italiana ha avuto, quella misconosciuta Medea Norsa che è stata la più grande papirologa italiana dopo Girolamo Vitelli al cui fianco operò finché egli morì e della cui eredità spirituale ebbe il frutto ma anche le spine. Fu Coppola a guidare la fronda nazionale che spinse la Norsa fuori dall’università e giù nel vortice dell’umiliazione, nel fondo di una rimozione che molto pretestò il suo stato di ebrea triestina, ancor prima del varo delle stesse leggi razziali, per tenerla lontana dal circuito entro il quale l’università italiana pianificava - e pianifica - prebende, carriere e fortune.
Era necessario che un intellettuale dichiaratamente di sinistra come Luciano Canfora disibernasse in Il papiro di Dongo (Adelphi) l’uno e l’altra (senza farsi scrupolo che fossero entrambi legati al «disciolto regime fascista») perché - in nome di una cultura che è innanzitutto sinonimo di civiltà - fosse ricostruito un capitolo della nostra storia recente che è stato strappato dal libro ufficiale da mani certamente depistanti.
La storia di Goffredo Coppola e di Medea Norsa è quella che porta alla trentennale vicenda di alcuni frammenti delle Elleniche, scoperti in Egitto nel 1934, fatti finire nelle mani di un mercante egiziano, recuperati - cioè comprati con fondi pubblici - dalla Norsa, resi noti nel ’39 da Coppola, scomparsi nel ’45 e infine ritrovati. Ma ad essa si lega anche la lunga esperienza della missione papirologica italiana in Egitto e la ancora più lunga, perché documentata dagli inizi del secolo, gara a contendere ingaggiata dall’Italia da pari a pari con l’Inghilterra. È intorno a questo svolgimento intrecciato che si dipana il labirintico e pluridecennale intrigo al quale danno vita mostri sacri della cultura italiana, nomi cesellati in testa a manuali che sono diventati «vangeli» ed essi stessi leggende umane, che adesso ritroviamo allineati in una schiera di uomini piccini, ambiziosi, infingardi, spregiudicati, votati al solo interesse del successo, che significa fortuna: tutti attorno a un papiro che, come un antico tesoro egiziano, sembra portare il segno della maledizione. Parliamo di uomini che si chiamano Achille Vogliano, Alberto Graziani, Evaristo Breccia, Giorgio Pasquali, il fiore degli studiosi italiani di papirologia.
Basta un episodio a dare la misura del clima: quello che Canfora chiama della «scellerata intervista», un articolo apparso anonimo sul "Popolo d’Italia" nel quale il suggeritore, certamente Achille Vogliano, ridimensiona la ricerca di Vitelli e Norsa (e dunque della «Società per la ricerca dei papiri») definendone i risultati ben «modesti». Scopo dell’intervista è di determinare un cambio al vertice della successiva spedizione egiziana sostituendo Vitelli con Vogliano. E’ in questo ambito che, per altro esempio, si scatena la guerra tra cattedratici per mettere la propria firma in calce a qualche voce della Enciclopedia Italiana. Canfora è scrupoloso nel raccogliere l’enorme mole di documenti che sostengono ottocento pagine di verità dissepolte: un lavoro titanico, ma necessario.


Più che seguire la storia di un papiro nel corso di oltre venti anni, lei rifà la storia di «certa» università e di «certa» cultura nel corso di tre sistemi: prefascista, fascista e postfascista. Un libro - un romanzo - storico più che un trattato scientifico il suo.
E’ vero, ma le due storie sono inestricabili, visto che una disciplina come lo studio dei papiri si colloca nel cuore stesso del sistema universitario. Ma quel che più conta osservare è la continuità. Il fenomeno è controverso ed è stato anche oggetto di intense discussioni. Ma la continuità è sicuramente dovuta, anche in tempi di crisi e di rotture, alla lentezza con cui può avvenire il ricambio dei ceti dirigenti, specie in un mondo che ha forti strumenti di autoprotezione come quello universitario. Non so bene se la parola «romanzo» sia adatta, forse però è giustificata non dall’elemento finzione (nulla ho «inventato»!) ma dall’elemento storia di alcune vite.
In quella che in fondo è la storia della papirologia italiana che lei scrive vediamo che i ricercatori attribuivano maggiore interesse ai testi letterari che non ai documenti, forse perché più rari. Ma la storia si fa con i documenti e non con le liriche.
Non propriamente i «ricercatori», bensì i classicisti di «medio livello» abbagliati da pseudo-concetti di carattere estetizzante. Per contro, gli specialisti sanno che la perizia necessaria per decifrare e spiegare i papiri documentari è assai più elevata. Ciò non toglie che le scoperte di testi letterari (o grandi classici o testi nuovi) danno più prestigio. E la storia da me ricostruita è anche una lotta per il maggior prestigio.
La vicenda di un papiro vive tre fasi successive: innanzitutto il suo ritrovamento, poi la sua trascrizione e quindi l’edizione. A quanto pare le lotte più violente hanno riguardato la terza fase, quella della pubblicità e dell’autopromozione.
Non sempre. Può anche accadere che, nel quadro di conflitti retroscenici (di cui gli studiosi non direttamente coinvolti spesso non sanno nulla), ci si contenda la concessione di scavo o anche il pezzo di pregio affiorato nel mercato internazionale.
Scopriamo che il mondo accademico non era molto diverso da quello che conosciamo oggi. In fondo è sempre stato così: anche gli studiosi più celebrati e illustri portano il coltetto sotto la tunica.
Vista da vicino, ogni generazione rivela i suoi limiti e i suoi tratti «troppo umani» per usare l’espressione di Nietzsche. Questo vale nei più diversi ambiti, da quello universitario a quello politico a quello artistico e così via. Non siamo più, e da molto, abbagliati dalla generica nozione di «grandezza», ma non possiamo nemmeno offuscare il valore specifico (talvolta molto durevole, come è il caso di Pasquali) dell’opera di alcuni intellettuali quale che ne sia stata la fragilità etica.
Perché lei chiama Medea Norsa «protagonista» e Goffredo Coppola «deuteragonista», se è Coppola il vero artefice del caso?
Forse perché il «protagonista» è la figura su cui si concentrano e convergono tutti i contraccolpi della vicenda: fino all’ultimo. Coppola esce di scena con l’aprile ’45 ma la vicenda del papiro e delle sue ramificate implicazioni prosegue piuttosto avanti nel Dopoguerra.
Medea Norsa era però una esperta imbattibile in materia di documenti giuridici e storiografici, per i quali Vogliano nutriva invece «uno sdegnoso disprezzo».
Vogliano non aveva adeguata frequentazione del materiale documentario, e probabilmente dava minore peso alla storia economico-sociale, di cui, per l’Egitto, i papiri sono il fondamento.
La Norsa era imbattibile anche nell’azione di acquisto di papiri greci in Egitto. L’acquisto era visto come atto minore rispetto al ritrovamento a seguito di scavo: una preferenza che nel caso dell’ostrakon di Saffo portò ad accreditare l’acquisto come uno scavo a maggior gloria del fascismo.
L’acquisto nel mercato antiquario comportava sicuramente minore «alone di gloria», e ben lo si comprende solo che si faccia il raffronto con il mondo, per certi versi analogo, dell’archeologia. Ciò non toglie che nell’operazione di acquisto vi fossero insidie dovute alla furbizia dei mercanti: per esempio incollavano insieme pezzi minori e per dare l’illusione di vendere un bel frammento, ben grosso; ovvero facevano intravvedere soltanto le prime righe del testo. Bisognava perciò avere una straordinaria padronanza del greco e della letteratura greca per orientarsi.
Ci furono però casi in cui uno scavo fu presentato sulla stampa come acquisto, proprio per screditarlo. Ciò che fece Coppola sui ritrovamenti di Abu Teir.
Sì, ma alcuni anni dopo (agosto ’39). Non dimentichiamo che il pezzo delle Elleniche era venuto fuori nel ’33/34: e nel primissimo e rapido annuncio dàtone sul "Popolo d’Italia" Coppola stesso aveva parlato di scavo (giugno ’34).
La sua simpatia va a Medea Norsa perché pur essendo vista come una semplice «collaboratrice» di Vitelli e non essendo che una insegnante di liceo si fece obbedire da illustrissimi cattedratici con la forza della sua autorità scientifica?
Mi pare una «simpatia» più che giustificata, ed è pensando alla sua vicenda che mi è venuto alla mente il celebre racconto di Kleist che ho evocato nel «motto» iniziale. Fu una lotta per la giustizia o per una minore ingiustizia quella che Norsa dovette affrontare.
Lei non ama Vogliano ed è chiaramente dalla parte di Vitelli, contro il quale fu ingaggiata una forma di «decrepazione indecente».
Non credo che si debba parlare di «amore» o di avversione verso i personaggi che fanno l’oggetto di una ricerca. Vogliano ha suscitato sospetto in molti, già al tempo suo, soprattutto per l’uso disinvolto dei potenti che ha saputo mettere in essere. Aveva un alto, e non certo ingiustificato, concetto di sé ed alla realizzazione delle proprie finalità, che erano insieme scientifiche e di potere, sacrificava ogni cosa.
Eppure Vogliano è quello che nel ’34 fa avere a Vitelli il Commento di Callimaco, un gesto che lei stesso definisce raro tanto fu generoso.
Ho raccontato, credo, con molti dettagli, la vicenda del «dono» a Vitelli da parte di Vogliano del Callimaco da lui rinvenuto già al principio della sua prima campagna. Inquadrato nel burrascoso incidente della «scellerata intervista» il dono assume un valore diverso. E’ ancora una volta un tassello di una operazione a più vasto raggio: quella di creare - come infatti accadde - una collana milanese nella quale mettere a frutto la grande competenza di Vitelli (e Norsa). Vogliano intendeva ripubblicare lui il testo e dare poi lui l’edizione definitiva.
Lei chiama Nahman, il mercato egiziano, «point d’aboutissement». Com’è possibile che cattadratici di altissimo livello, a volte al servizio del governo, intrattenessero rapporti così stretti con un tipo simile?
Nahman merita un giudizio equilibrato: il sistema creava figure e ruoli del genere.
Oggi che la ricerca archeologica italiana non è certo sostenuta può essere rimpianto un tempo come quello del Ventennio che finanziò scavi che permisero scoperte come Sofrone, Cratino, Callimaco, Menandro, per citarne solo alcuni?
Il sostegno alla ricerca è oggi da noi carente, soprattutto nell’ambito delle scienze umane. Nel caso della politica culturale del fascismo, quel sostegno era in alcuni casi programmato: e questo è un vantaggio. Inutile nascondersi che pesava anche la «gara» con la papirologia britannica. Una sfida importante.