Le due note poste in introibo al romanzo danno la misura delle intenzioni di Brown. La prima avverte che personaggi e luoghi sono «invenzioni dell’autore» necessarie a «conferire veridicità alla narrazione» e la seconda ricorda che «la Delta Force, il National Reconaissance Office e la Space Frontier Foundation esistono nella realtà così come tutte le tecnologie descritte». Sicché, trovandoci con due avvisi che si sterilizzano a vicenda, ricaschiamo nel gioco nel quale Brown ci ha trascinati già due volte, con Il codice da Vinci e con Angeli e demoni, mettendoci ancora di fronte alla stessa domanda: dove comincia nella sua opera l’invenzione letteraria e finisce il dato documentato?
Lo scrittore americano si è creato una icona a motivo proprio di questa sua insistita anfibologia che lo pone a mezzo tra letteratura e ricerca. Con la differenza che stavolta (ma si tratta di un romanzo scritto ben prima) il campo arato non è quello storico bensì scientifico, più esattamente quello che miscela astrofisica, oceanologia, chimica, geologia e biologia. Dimodoché l’historical thriller al quale ci ha legati con le prime due prove, alla terza che ci giunge, lascia il campo allo scientifical thriller evocando Michael Chrichton e Stephen King e lateralmente pure Asimov. In La verità del ghiaccio (Mondadori) non è nelle pieghe incrostate della storia che Brown attinge gli elementi che fanno il suo geyser di mystery e reality - il curioso, l’ignoto, il raro, il fenomenale, il simbolico, l’ineffabile, l’esoterico - ma è nelle illecebre della scienza che affonda le mani rastremando con una voracità che non è inferiore alla impudenza addotta per fare della realtà un cosmorama.
Il gioco di mirabilia scientifiche è in perfetta linea con lo stesso giro di inverosimiglianze di cui è intramata la vicenda: che non temendo l’incongruenza punta a tenere il lettore in un continuo stato di surplace nel quale lo spirito del feuilleton eguaglia le sue maggiori possibilità. Brown ricerca con acribia i momenti di sospensione e cambia le scene con una accelerazione che tiene il ritmo del vaudeville. In forza di questa allure alterna con talento due tipi di sorprese: quella che l’incalzare della vicenda appronta per la sua stessa trama e quella che viene dall’escalation di acquisizioni e di scoperte scientifiche, gradiente che non è un quid minus rispetto alla diegesi vera e propria. Il risultato è una moltiplicazione dei piani emozionali che ha il passo della fantasmagoria. Ma La verità del ghiaccio è vero thriller?
Come lo intende Brown, il thriller non si esaurisce nel disposto cacuminale degli eventi ma si avvale di un dispositivo di fondo - in questo caso la scienza combinata con la politica del lobbying - sul piano del quale l’intreccio di nozioni e teoresi fa da lievito alla fabula. Vediamo intanto la struttura. I romanzi di Brown sono costruiti su un progetto che ha poche varianti. Il lieto fine è assicurato al culmine di un fandango di peripezie che risente anche della commedia e che osserva un andamento crescente e parossistico, in La verità del ghiaccio spinto fino al paradosso. L’attesa è scandita da capitoli brevissimi ognuno dei quali fermato nel punto massimo di tensione con un successivo e repertino cambio di scena. Come sempre, un uomo e una donna, entrambi ricercatori, si trovano coinvolti in una sequela di pericoli il cui grado di difficoltà crescente è proporzionale al loro processo di innamoramento. Brown usa una struttura che è esemplata sul genere del classico cinema d’azione all’americana e a questa struttura adatta il suo nuovo soggetto. L’inizio dei suoi tre romanzi è pressoché identico: uno studioso viene chiamato a raggiungere un luogo distante (Parigi nel primo, Ginevra nel secondo, l’Artico nell’ultimo) senza che sappia cosa lo attende. In La verità del ghiaccio anziché un uomo è una donna a doversi spostare, ma lo fa esattamente come è successo in Angeli e demoni a Robert Langdon: salendo su un aereo supersonico e volando a velocità avveniristiche. Ma non è lei, Rachel Sexton, la protagonista del romanzo dovendo dividere la scena almeno con un’altra donna, la superconsigliere del presidente Usa Marjorie Tench (ma anche per molte parti con una seconda presenza femminile, la segretaria dello sfidante alla presidenza, Gabrielle Ashe), e con un oceanologo, Michael Tolland, personaggio che ha tutti i tratti di Robert Langdon e per il quale finisce per battere il suo cuore in un epilogo che tinge il nero del rosa americano più melenso.
In questo libro Brown accondiscende con malcelata tentazione ai più corrivi stilemi del romanzo made in Usa che altro non è più se non sinossi di trasposizioni cinematografiche. E lo fa riproducendo la bilancia dei personaggi dettati dal canone e ingradando trovate che nella loro pirotecnica successione fanno dei coups de théâtre dei veri e propri coups de tête girando il romanzo in fumetto, appunto in cartone animato per film d’azione e di suspence.
Un thriller si distingue da un soggetto cinematografico di genere e soprattutto da un giallo perché lo scioglimento, il dénoument, non si ha per via di personaggi che rivelino una nuova identità entro una girandola del tipo di quella vista per esempio in Circus ma per via di fatti che si costituiscano con l’intreccio in un rapporto di causa ed effetto. Il personaggio che si celi sotto mentite spoglie e che appaia al culmine della spannung nel suo ruolo reale, passando dalla condizione di «buono» a quella inopinata di «cattivo», è quello che abita il noir e il poliziesco, non l’altro che frequenta il thriller. Cosicché quando vediamo il capo di Rachel Sexton, che si è mostrato il suo più strenuo difensore fino a porre in essere atti non più reversibili, rivelarsi il suo peggiore nemico quel che suscita è una risata. Volendo creare troppi nodi e contando di dare al suo romanzo una veste da polar, dove il motivo conduttore sia la ricerca dell’assassino, qui anche con la maschera del malvagio, Brown finisce preda del suo stesso gioco a nascondere.
Troppe incongruenze (e se ne contano a ciliegie: macchiettistica per esempio l’idea di mostrare come decisiva la necessità di informare il personale della Casa Bianca prima che lo faccia la Tv) possono essere accolte da un pubblico inavvertito, da sala cinematografica, non da lettori che da Brown hanno imparato a maneggiare una macchina perfetta di romanzo e verità proprio perché rodata sulle scienze esatte.
L’inverosimiglianza dell’intreccio nuoce pesantemente all’autorità delle cognizioni scientifiche sciorinate e finisce per volgere quello e queste in un grottesco di esperpento dove è Borges a battere le cadenze d’inganno: Brown dice il vero circa meteoriti e plancton o sta romanzando pure la scienza alla maniera di un Verne, tra enfasi ed eccesso? Le sconfessioni che Il codice da Vinci suscitò a suo tempo autorizzano non pochi sospetti.
Allora non resta che leggere La verità del ghiaccio senza pensare a "Superquark". Un romanzo che è un vortice di azioni, tutto tenuto dentro lo strettissimo arco di 24 ore: il presidente degli Stati Uniti ha fissato per la sera una conferenza stampa per rendere noto il ritrovamento nel Polo Artico di un meteorite che contenendo fossili dimostra l’esistenza di vita extraterrestre. Il suo rivale nella corsa alla Casa Bianca ha impostato la sua campagna contro le spese astronomiche della Nasa e quindi la scoperta significa la sconfitta certa. Ma il meteorite si rivela un falso, orchestrato dall’entourage dell’ignaro presidente in carica per salvare non tanto la sua poltrona ma la Nasa dalle mire dell’industria spaziale privata che naturalmente finanzia lo sfidante.
Brown propone la competizione elettorale nei modi di una sfida all’Ok Corrall e dà dello staff presidenziale l’impressione di una squadra uscita dalla peggiore scuola della Cia che altre sfere superiori non riconosce se non il credo nella sicurezza nazionale, in nome del quale ogni illegalità è permessa fino anche al sacrificio umano. Viene da chiedersi che qualità abbia un presidente, probo e fervente difensore della fede americana, che non abbia azzeccato una sola scelta nella selezione del suo staff. Ma alla fine la morale è questa, che ancorché incapace di scegliere i suoi collaboratori un presidente onesto è sempre preferibile a uno corrotto e spregiudicato. In fondo è questo il way of life americano.