Ci ricorderemo di Joel Backman. Che Grisham in Il broker (Mondadori) non ci dice mai se considerare tra i buoni o i cattivi, lasciandoci probabilmente pensare a un carattere americano che vada sempre più invalendo nel vorticoso processo di tralignamento della società d’oltreoceano: un uomo che non conosce il limite tra bene e male e che della vita ha maturato una concezione ispirata a valori svuotati di sentimento e tesi all’affermazione dell’unico bene che è il denaro, fonte del potere.
E’ la prima volta che un personaggio di Grisham, nel ruolo peraltro di protagonista, ci appare privo di patente d’identità, nella condizione di non consentirne l’accertamento della natura interiore.
In realtà, entro questa prospettiva tutto il romanzo si presta a rendere evanescente la figura di Backman, che troviamo sdoppiato tra una prima e una «seconda vita» e reso anche fisicamente irriconoscibile. Se abbiamo dunque un romanzo del doppio e della perdita di identità, la caccia che viene scatenata per rintracciare Backman agisce non tanto nel calco di un modello fin troppo abusato - dell’uomo che per sfuggire alla morte prova a perdersi nel mondo ricostruendosi un’altra vita - quanto soprattutto sul piano dello smarrimento della personalità identitaria, sulla difficoltà a stabilire un legame coerente tra un prima e un dopo e sugli effetti che procura la metamorfosi in interiore hominis.
Si spiega in questa chiave la particolareggiata descrizione della vita quotidiana che Backman conduce in Italia e in particolare a Bologna: passo dopo passo il suo cambiamento segue un rinnovamento che deve fare i conti con un problema di adattamento al quale rimanda non soltanto la difficoltà della lingua e dell’ambientazione ma anche una nuova urgenza che risponde a una domanda inaspettata di autoconoscenza e di redenzione. Al momento di trarre le conclusioni, Grisham si rivolge direttamente al suo personaggio: «Ti rimangono pochi anni da vivere, Joel, o Marco, o Giovanni o come diavolo ti chiami. Perché, per la prima volta nella tua vita marcia, non fai ciò che è giusto invece di ciò che ti conviene?»
E Backman si trova al bivio: scegliere tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. L’uomo che per tutta la vita, compresi i sei anni trascorsi in carcere, non ha avuto che pensieri vaghi e inespressi per i figli e la famiglia; l’uomo che è stato il più spregiudicato e potente lobbista di Washington, con un reddito da dieci milioni di dollari l’anno e un peso pari a quello del capo della Cia; che come gli avvocati della sua risma non sa dov’è il tribunale ma conosce eccome la strada per il Congresso, è capace - alla fine del suo percorso espiatorio - di atti rigenerativi: non più il proposito di tornare alla vecchia stregua, consumare la vendetta, rimpossessarsi del suo posto di comando, ma il desiderio sorgivo e ricostituente di dedicarsi in tutto anonimato a una vita riempita dal dono dell’amore, un sentimento conosciuto a Bologna.
Grisham rende questa rigenerazione con due efficaci scene pressoché concomitanti: nella prima vediamo Backman in un hotel di lusso della capitale farsi intervistare in tenuta di tycoon da un giornalista per annunciare tra champagne di trecento dollari e caviale da quattrocento il suo grande ritorno agli affari e subito dopo, nella stessa suite, in jeans e camicia a quadri, mangiare frugalmente con il figlio e la nuora tenendo per tutto il tempo sulle ginocchia la nipotina mai vista.
La redenzione è compiuta. Ed è un processo di rinascita che involge allo stesso tempo la messa al bando della civiltà statunitense, troppo corrotta e impietosa, a favore della più umana e solidale società europea, dove Backman ritorna e verso la quale l’ammirazione di Grisham è inesausta. Un’ammirazione che si traduce in entusiasmo se riferita all’Italia. Del resto è lui stesso ad ammetterlo nelle gratulatorie finali: «Adoro l’Italia e tutto ciò che è italiano».
Gli apprezzamenti in realtà fanno arrossire: dall’eleganza alla cucina, dai modi al gusto per le arti, Grisham - novello Stendhal - ci vede non diversamente da come la stragrande maggioranza degli italiani guarda piuttosto agli americani, nell’assise di un popolo culturalmente superiore. La preferenza è per Bologna, la città con centomila studenti e una storia millenaria, «bella perché la gente vive dove lavora» se- condo un costume del tutto anti-americano che deve avere molto impressionato lo scrittore di Miami. Al quale non sono sfuggite regole di vita consolidate che gli hanno indotto più di un interrogativo: perché un cappuccino non viene ordinato mai dopo le 10.30 mentre il caffè si chiede al bar a qualsiasi ora? Che lavoro fanno quanti si permettono la pausa caffé anche un’ora prima del pranzo? Che gente è quella abituata a passare due ore e mezza a tavola e poi è capace di mettersi al volante e andare a rotta di collo? Che significato ha lo spazio nei locali pubblici se ci si stringe, ci si abbraccia e a volte ci si bacia in un’area che non è intesa come protetta com’è in America ma condivisa? Perché il verbo più ricorrente è quello di fare?
La curiosità di Grisham non è quella dell’esploratore in cerca dell’elemento pittoresco ma del ricercatore sulle orme di una civiltà madre, dell’uomo che al nuovo mondo raffronta il vecchio e lo trova migliore, pronto a riconoscere che un palazzo moderno può anche avere trecento anni di vita e cogliere il senso e il peso della storia. Non esita dunque a dare al suo romanzo delle repentine fermate per concedersi la libertà di descrivere Bologna in un baedeker minuzioso ed esatto: un’esigenza per secondare la quale introduce un personaggio, Francesca, la seconda insegnante di italiano di Backman, che se svolge attività di guida turistica è perché possa raccontare Bologna al suo speciale alunno in lezioni all’aperto di tipo peripatetico lungo i portici e i vicoli.
Si tratta in realtà di lunghe parti del romanzo che non sono utili al quadro d’insieme e che determinano un rallentamento all’incalzare della vicenda: un moto a levare che intende creare il contrasto tra la tempesta dei fatti statunitensi che montano all’insaputa del protagonista e la irenica quiete italiana nella quale egli è calato come in un limbo penitenziale e soterico. Sicché ci ritroviamo due coté che non facilmente si assimilano e integrano: in quello italiano Grisham fatica a farsi riconoscere mentre sul versante dell’intrigo riconquista la sua natura: ma non appieno, perché il Grisham che conosciamo è quello del legal thriller mentre qui troviamo una spy story che ricalca temi e trame di vecchi giri plottistici alla Forsyth, con un carico in più di improbabilità: in sostanza la Cia, il cui direttore appare preferibile al presidente degli Stati Uniti perché al prezzo del suo posto gli tace segreti che se resi noti potrebbero minacciare la sicurezza nazionale, si vieta l’eliminazione di un cittadino americano in ossequio alla legge e imbastisce un complicato piano in forza del quale l’uomo da eliminare, Joel Backman, viene graziato, portato in una località segreta europea e tenuto il tempo necessario per informare i Servizi di altre potenze perché siano loro a compiere il delitto.
Nel frattempo, a spese degli Usa e con grande impiego di mezzi e uomini, Backman viene costretto - senza nessuna ragione - a imparare per pochi giorni l’italiano, una pratica che impegna gran parte del romanzo. Un’«americanata» insomma questo nuovo romanzo di Grisham quanto alla struttura del plot, un soggetto buono per un film già visto che vorrebbe favorire qualche riflessione sullo scontro di potere, sullo stato di corruzione di magnati e politici, e che ripete formule note e altre surrettizie come la inverosimile scoperta scientifica di tre hacker, naturalmente giovanissimi, che inscena un planetario dispositivo di brame con dentro tutti, dal Mossad alla Cina alla Russia. Fa bene Grisham ad ammettere che di satelliti, spie e sorveglianza elettronica sa ben poco. Fa male a provarsi in un campo che non è il legal thriller, da dove ci sono venuti romanzi memorabili come Il cliente, L’uomo della pioggia, Il rapporto Pelican.
La domanda che vorrebbe fare da base al romanzo, quale premio attenda chi spericolatamente persegua il grande sogno americano, quello che fa Barckman, e che è la stessa domanda reiterata nel complesso della sua opera, qui trova una risposta infausta e un’apertura di credito: l’insuccesso di ogni eccesso di ambizione e la possibilità di ricominciare da capo. L’immagine chiave di tutti i romanzi di Grisham torna anche qui nei modi di un retaggio della frontiera caro alla sua visione, richiamata a chiare lettere: «E infine le loro sagome a cavallo si sarebbero stagliate sullo sfondo del sole al tramonto».