martedì 8 agosto 2023

Casalvecchio e il sacro tesoro del tempo


Le parole sono pietre e a Casalvecchio Siculo, paesino del Taorminese, hanno la stessa età. Sono talmente antiche da essere arcaiche, sicché sanno di poca storia e molta leggenda. Raccontano di persone forse mai esistite e di vicende non avvenute ma, queste e quelle, note a tutti come reali e certe: di santi ed eremiti perciò, di monaci e pellegrini, di emigranti e operai; e poi di avventure, miti, imprese e mirabilia. Senza che nulla di scritto sia stato lasciato di tutto ciò, perché la tradizione si è tramandata di secolo in secolo solo oralmente, come una tribù che si trasmette un mistero irrivelabile. Parole che narrano cunti, recitano preghiere, sussurrano segreti, intonano canti. Che involgono detti, proverbi, motti e motteggi: a costituire l’asse ereditario di un’identità storica che non ha un’anagrafe né un registro degli atti, ma si affida a una riserva di conoscenza e consapevolezza dove la lingua è depositata al fondo di un pozzo che è anche una fonte. Una lingua aspra che in un dialetto incontaminato e vergine fa delle consonanti un intreccio come in un ricamo e usa le vocali per mitigarne l’impulso a vorticare e rocambolare.
Di conseguenza anche le pietre sono vecchie, come le parole, e periclitano sempre più per colpa del tempo che qui è diventato enorme. Sono del bianco dell’arenaria ritinto nel colore che ha il grigio delle cose vissute, delle case passate di famiglia in famiglia e rimaste vuote ad echeggiare nomi antichi ed evocativi - Crisafulli, Sigillo, Casablanca, Chillemi, Carnabuci: etimi greci, latini, spagnoli e arabi riuniti in un retablo di epoche e culture non dissimile dalla voluta di portali, volte, archi e rosoni che del paese fa un ghirigoro di viuzze e variazioni simile al fuso che raccoglie il lino e che a Casalvecchio gira ancora in qualche casa.


Le parole e le pietre sono i fondamenti immateriali e materici su cui si fonda un paese che nel nome contiene il suo destino e la sua origine, ma soprattutto la sua contraddizione: perché un casale può essere vecchio solo dopo molto tempo e non può rimanere per sempre un semplice casale. Invece Casalvecchio sembra essere nato proprio di antica data e in natura di casale immutabile, come cristallizzato. O incantato. Anche quando, in età bizantina, fu chiamato Palachoriòn, indicava ugualmente un vecchio casale - chorion designando proprio il villaggio bizantino - come se altro non potesse essere che un antico borgo, quasi per effetto di un sortilegio.
Nemmeno andando ancora indietro nel tempo muta l’accezione di piccolo luogo, incontrandosi durante la dominazione araba il toponimo di Calatabiet: che potrebbe intendere un castello (kaalat) proprietà di un signore chiamato ‘al Biet - così come Calatabiano (che dista una trentina di chilometri) sta per castello di ‘al Bian.
Il nome Calatabiet, dato a Casale Vetus da Vito Amico nella sua enciclopedia del 1757, compare sul presupposto che la chiesa di San Onofrio sia la stessa citata nel privilegio che il vescovo di Messina Ugone concesse a quella non altrimenti precisata di Calatabiet. Un presupposto appunto: quindi mai dimostrato. Ma accolto come fondato dai moderni, secondo la determinazione dello storico casalvetino Puzzolo Sigillo.
E sia: anche se è molto probabile, a rigore di logica, che la nascita del casale debba essere ben più remota. Per due buone ragioni: non potendosi nel quattordicesimo secolo, quando appare in atti ufficiali la denominazione di Palachoriòn, essere definito già vecchio un casale sorto circa 400 anni prima, al tempo in cui Vito Amico fa risalire Calatabiet, e soprattutto non potendo il casale essere rimasto nel 1300 ancora tale dal momento che vanta una nota chiesa di Sant’Onofrio. Cosicché Palachoriòn risale certamente ancora più indietro nel tempo, all’epoca di Pentefur, com’era chiamava originariamente la contigua Savoca, quindi ai primi secoli dopo Cristo, se non ne abbia addirittura condiviso i primordiali insediamenti in età preistorica. Ma, a volere convalidare i natali arabi (legittimando così Calatabiet nel kalaat di ‘al Biet: che è il più remoto riferimento pseudo storico) occorre allora chiedersi chi fu ‘al Biet.
Ma forse la domanda, a volere temperare il rigore della storia con la levità della leggenda, è un’altra: chi sarebbe stato? La risposta è proprio in una leggenda, che tuttavia richiama un dato concreto. E questo dato concreto è costituito da una pietra che sarebbe stata la prima di Casalvecchio, quella fondativa.

Una vetrata della chiesa madre

Si narra dunque che un leggendario cavaliere, in questo caso di stirpe araba, arrivato a metà esatta del monte Sant’Elia, pose a terra un masso semicircolare o forse rotondo e come in un rito ripose nel suo incavo un pugnale tempestato di diamanti o, secondo altri, una grossa pietra preziosa, dopodiché vi eresse sopra un bastione, ancora oggi visibile, ed edificò il suo kaalat. E ciò l’anonimo ecista fece, continua la leggenda, in segno di augurio, lasciando in eredità un tesoro nascosto: il primo che in Sicilia non presagisse una maledizione e non mascherasse una truvatura, rappresentando piuttosto un talismano votato al benessere di tutti i futuri abitanti. La leggenda non lo dice, ma è plausibile che anche quando dovesse venire giù l’intero paese, la colonna di arenaria rimarrà in piedi a custodire per sempre la prima pietra e il suo prezioso segreto.

Il sasso rotondo della leggenda

Ma chi fu il misterioso cavaliere, nobile e ricco, che, decretando al borgo nascente i più augusti natali, non volle dargli un nome perché rimanesse un casale destinato a diventare presto vecchio e dunque eterno? E quale magia lo legò a questi paesaggi così fondi e evocativi? Quale malìa lo trattenne nel suo viaggio attraverso le montagne al punto da lasciare un segno propiziatorio così oscuro e divinatorio? Domande che è bello lasciare a rimbalzare da un secolo all’altro, finché la leggenda sarà tramandata e le risposte adombreranno nell’arcaico progenitore un re o un eroe. O magari perché no una divinità. Sia pure orientale.
Casalvecchio è infatti un paese chiamato Siculo che ha però scaturigini levantine. Agli inizi del secondo millennio, scacciato da tutta la Sicilia l’elemento islamico e reintrodotta la fede cristiana, nella valle dell’Agrò arriva dalla Terrasanta una comunità di monaci basiliani che si insediano nella vecchia abbazia dei santi Pietro e Paolo. Seguendo la regola di San Basilio, che predica la presenza tra la gente anziché tra flora e fauna, questi monaci amano il cenobio invece dell’eremo, per cui officiano anche nella chiesa dell’Annunziata e si fanno conoscere ai casalvetini. In conseguenza di ciò non portano in paese solo il modello di vita basiliano ma anche un santo eremita del quinto secolo vissuto nel deserto egiziano e molto venerato nelle terre copte, Santo Onofrio.
Il legame tra Santo Onofrio e San Basilio è testimoniato da una tela custodita per secoli nella chiesa dell’Annunziata, poi trafugata nottetempo, dove i due santi sono raffigurati insieme da un artista della scuola casalvetina del Seicento.
Il culto del santo basiliano si afferma velocemente a scapito di un altro eremita anch’egli santo il quale, a differenza di Onofrio, sarebbe realmente vissuto sul monte che oggi prende il suo nome e a metà costa del quale sorge Casalvecchio. Si tratta di Sant’Elia: quello detto Juniore, nativo di Enna, vissuto in Oriente e segnalato anche in Calabria, oppure quello chiamato Speleota, originario di Reggio Calabria.
Non si sa chi dei due fosse riparato sul Sant’Elia, perché entrambi vissero nel nono secolo, dimorarono in Egitto, furono presenti nella zona taorminese duecento anni prima dell’insediamento basiliano e furono di stanza in Calabria. Ad ogni modo, grazie ai sacerdoti di San Basilio, pur non essendo mai stato a Casalvecchio, Sant’Onofrio ha finito per sovrastare Sant’Elia, che invece nel Casalvetino non solo ci sarebbe stato davvero ma forse ci sarebbe pure morto: tanto che studiosi calabresi hanno compiuto un sopralluogo nella chiesetta sulla vetta del Sant’Elia, oggi divenuta una casa di campagna, alla ricerca insieme con le prove della presenza del santo addirittura delle sue ossa.
Senonché, per gli strani intrecci della storia e della leggenda (dove la storia è costituita dal cenobio basiliano e la leggenda dall’anacoretica di Onofrio ed Elia) Sant’Elia e San Basilio non hanno mai goduto di alcun culto particolare a Casalvecchio mentre Santo Onofrio, che tutto deve ai basiliani e al loro intercessore, vanta una devozione che si esprime in una grande festa di sette giorni e in una numerosa galleria di icone, statue, cappelle, edicole votive, altari, murales, santini ed effigie varie che punteggiano il paese, oltre che in una venerazione che nei secoli non si è mai allentata.
Tutto merito dei misteriosissimi monaci basiliani, apparsi d’improvviso nell’Agrò e poi scomparsi di colpo. Ma ne sono rimaste tracce consolidate ed evidenti. Che portano ai celebri Cavalieri di Malta. Vediamo come e perché.

Portone secondario dell'Annunziata

Volte e portali di case private, fra cui uno stemma all’interno dell’Annunziata, recano la croce dei Cavalieri di Malta, segno che i templari sono passati da Casalvecchio quando i viaggi via terra evitavano la riviera troppo esposta a ogni tipo di incursione. Più che di un passaggio, deve essersi trattato però di una sosta, anzi di una permanenza: fatto però questo da doversi escludere, non ricorrendo alcuna ragione perché i crociati si trattenessero sul Sant’Elia e in un casale senz’altro tagliato fuori: tanto più che nella vicina e, a quel tempo, più importante Savoca non si segnalano altrettante testimonianze. Di chi è opera allora la serie di segni templari che costellano Casalvecchio? Certamente della presenza dei basiliani.

La Madonna Odigitria a San Nicolò

La prova è in un enigmatico dipinto del Seicento conservato nella chiesa di San Nicolò. E’ intitolato alla Madonna dell’Itria e raffigura la Madonna seduta che tiene in braccio il Bambino, attorniata da due figure in bianco e da due monaci basiliani (riconoscibili dalla barba lunga e dal saio scuro) le cui proporzioni sono in contrasto con le prime, come se fossero state aggiunte dopo nello spazio che probabilmente occupava la veduta di un paese. Alla base della tela, dipinti alle estremità, compaiono un cane e un animale, forse un cinghiale, in un atteggiamento grottesco e intenti a guardarsi minacciosi. Una presenza oscura quanto chiarissimo è invece il significato del quadro, commissionato senz’altro dai basiliani.
La Madonna dell’Itria è il nome che in Sicilia prende l’Odigitria, colei che nel Bambino indica la via della salvezza. Di particolare valore simbolico è la Madonna Odigitria cosiddetta in maestà, cioè seduta su un trono, com’è quella di San Nicolò: sta a indicare un legame ancora più stretto con quanti per l’Odigitria avevano una speciale passione: i cavalieri templari. I quali, per essere i guardiani del sacro sepolcro di Gerusalemme, erano visti dunque come orientali, al pari dei monaci basiliani che nutrivano evidentemente per loro un trasporto particolare, frutto forse della loro originale e innovativa missione di stare nel mondo anziché lontano da esso. Ma non rifuggivano certo la spiritualità se la chiesa dei santi Pietro e Paolo fu fatta ricostruire da Re Ruggero in modo che il sole al tramonto illuminasse dal Sant’Elia l’altare e inducesse in inverno i monaci a celebrare il vespero in un rito tipicamente orientaleggiante.
Il passaggio di Re Ruggero da Casalvecchio sarebbe testimoniato anche dal toponimo di “Acqua ruggia” conservato da una fontana alla quale il regale visitatore si sarebbe dissetato. Poco più in basso, fuori paese, un altro toponimo, “Sèlenu”, a indicare un luogo dove sorgeva una fonte che generava uno stagno, evoca un’altra epoca, molto più remota: quella della civiltà greca. A Sèlenu si sarebbero infatti rifugiati profughi di Naxos dopo l’attacco alla prima colonia greca sferrato dai Siracusani: profughi piuttosto speciali se è vero che Sèlenu sta per Seléne, la dea lunare eponime di Ecuba, la terribile madre ctonia della negromanzia.
La magia dopotutto non è estranea a Casalvecchio giacché di un sortilegio è frutto la sua fondazione. Il nobile cavaliere che nella prima pietra nascose un prezioso tesoro, ad avvalorare un’origine cristiana e un passato molto meno remoto, può essere stato proprio Re Ruggero, che nella baronia di Savoca appena istituita forse pensò di insediare un ridotto, casa o palazzo, da erigere a un’altitudine poco maggiore.
Ma la venuta dell’Altavilla è circonfusa nella leggenda. Nulla però impedisce di lasciare che produca per intero i suoi effetti, ragione per cui può apparire stimolante l’ipotesi, molto suggestiva, che il fantomatico cavaliere ecista sia stato non il primo re di Sicilia ma il patrono di Casalvecchio Santo Onofrio: che la tradizione accredita come figlio di re e in viaggio in Sicilia, e che è raffigurato in eleganti e raffinate vesti in una delle vetrate della chiesa madre: fatto questo che ricomporrebbe l’ordine naturale delle cose e farebbe del nobile Onofrio non solo il padre di Casalvecchio ma anche il suo patrono legittimo contro le pretese sopite e soffocate di Sant’Elia.
C’è però davvero una magia che aleggia sul paese. O forse è meglio parlare di incantesimo. Inspiegabile: più il tempo passa, determinandone il deterioramento e depauperandolo di abitanti, e più Casalvecchio, onusto di secoli e oggi visibilmente vecchio - finalmente, verrebbe da dire - si conserva integro trasformandosi in uno scrigno che conserva tradizioni perdute, ricette, storie minime, proverbi e canti, nonché documenti rari, oggetti unici e preziosi: come per volontà di antichi monaci decisi a salvare il passato mettendolo al sicuro nella memoria comune e contro il principio per cui ogni tradizione è tanto più viva quanto più la popolazione è numerosa. Il tempo che passa è perciò anche il tempo che resta, per cui i casalvetini sono oggi i guardiani del sacro tesoro del tempo. Che è l’anima del paese, il suo segreto.

Copia della "Divina Commedia"

Non può essere per caso infatti che in un paese di contadini siano stati ritrovati una Divina Commedia del Cinquecento, una prima edizione dei Delitti e delle pene di Beccaria, tele delle scuole di Antonello da Messina e Caravaggio, un messale del Settecento, una ricca varietà di articoli religiosi e di rari e ornatissimi paramenti sacerdotali. Né è un caso che si siano preservati, anche solo ad uso ormai di qualche centinaio di fedeli, riti religiosi antichissimi e immutati, celebrati al pari di sacre e misteriche cerimonie mantiche: come se la missione tramandata di generazione in generazione non sia stata che di salvaguardare a tutti i costi le tradizioni locali, il grande libro sacro dell’identità culturale, pur al costo - per contrappasso - di interventi urbanistici che hanno trasfigurato il volto del paese nel frustante tentativo di rendere nuovo un luogo che è nato invece per restare perennemente vecchio.
Un caso di conservazione degli antichi retaggi ha davvero dello straordinario, forse del miracoloso. Riguarda la fiaba “Peppe lo scaltro”, una delle tante storie popolari raccolte nel Messinese da una studiosa svizzera dell’Ottocento, Laura Gonzenbach, che la riteneva propria del repertorio peloritano e che invece rimanda a un racconto addirittura babilonese. Secondo gli studiosi la fiaba è morta da tempo ed è ormai sconosciuta, perduta dalla memoria storica e divenuta irrecuperabile. E invece sopravvive ancora. Proprio a Casalvecchio, dove c’è ancora, nella popolazione più anziana, chi la conosce benissimo, sia pure con leggere varianti rispetto al testo mesopotamico e a quello rintracciato dalla Gonzenbach.
Un vero mistero come il tempo non sia riuscito a eliminare un così labile racconto orale. Segno che la tradizione è fortissima se non incrollabile. Una tradizione che all’elemento religioso affianca, alla stessa stregua e senza alcun intento dissacratorio, quello pagano. La festa di Sant’Onofrio ne è la rappresentazione più vivida. Al punto che il patrono vanta due statue: una del Cinquecento a mezzo busto di legno, e l’altra del Settecento in argento e a tutta figura.
La seconda fu commissionata dalla popolazione dopo essere scampata alla peste del 1743. Portata a valle, la statua lignea lasciata a fare da barriera all’epidemia compì il prodigio sicché Casalvecchio fu il solo paese dell’Agrò a non avere avuto un solo caso mortale di peste. In segno di ringraziamento fu realizzata una nuova statua del santo, più grande e bella, ma dello stesso tipo: sguardo ieratico, capelli lunghi a mo’ di tunica, mani giunte in preghiera. Per rendersi grati al patrono, i casalvetini istituirono sulla cima di Sant’Elia, dov’era l’antica chiesa di San Cosimo, poi ricostruita e intitolata ai santi medici Cosma e Damiano, un lazzaretto aperto a tutti gli appestati dell’Agrò, senza alcun timore di venire contagiati, essendo stati resi immuni dal loro protettore. 

La pietra con l'incisione del 1743

Su una pietra oggi sepolta nell’erba sono state trovate incise una croce e la data del 1743, a ricordo del trauma. La peste in realtà costituì il male più temibile se in una campana del campanile della matrice appare incisa l’implorazione “Liberaci Signore dalla peste, dalla fame e dalla guerra”.
Per rafforzare la protezione del patrono e la propria devozione, i fedeli vollero allora che la nuova statua argentea non mandasse in soffitta quella lignea ma si aggiungesse ad essa: per questo le due statue sono da allora oggetto entrambe dello stesso culto. Quasi: perché quella antica è esposta nell’abside della matrice mentre quella nuova è rinchiusa nel museo parrocchiale. Ma è questa che viene condotta in processione a chiusura dei festeggiamenti. Senonché si è pensato di fare uscire i due fercoli contemporaneamente nel senso che il mezzobusto viene lasciato a “Pestarriu”, il luogo dove la peste si fermò e dove oggi sorge una cappella, ed è poi riportato a spalla in paese perché vada incontro al suo doppio d’argento. Un incontro di identificazione che ne ricorda un altro: quello della pace e della fratellanza tra le confraternite dell’Annunziata e di San Teodoro, momento che si tinge di spirito laico e popolare frammisto al culto più partecipato.
La cerimonia va scemando ma resiste ancora e viene celebrata negli anni in cui è possibile organizzarla provvedendo in largo anticipo alla preparazione di particolari foglie, 'i barbaschi, che vengono portate in processione e richiedono un lungo tempo di lavorazione. La cerimonia della pace, con il bacio degli stendardi, ricorda la fine di un acceso contrasto divampato nel Settecento tra le confraternite per una questione di precedenza nelle processioni. Col tempo la pace fu poi concepita come motivo di riconciliazione tra due persone non della stessa confraternita che essendo in lite, venissero invitate, una all’insaputa dell’altra, a inalberare gli stendardi ed essere così costrette a baciarsi e fare pace.
Oggi l’affiatamento è tale che le confraternite si sono divise anche i turni: negli anni pari i fedeli si riuniscono la Domenica delle palme all’Annunziata, in quelli dispari si ritrovano a San Teodoro. Così avviene anche per le processioni dell’Addolorata, che è all’Annunziata, e dell’Ecce Homo che staziona nella chiesa di San Nicolò, in sostituzione di quella inagibile di San Teodoro: negli anni dispari è l’Ecce Homo ad uscire il primo giorno, mentre l’indomani spetta all’Addolorata.

'U sciccareddu

Il progressivo spopolamento ha scolorito la tradizionale rappacificazione tra compaesani in lite, ma non ha intaccato le oltranze pagane legate ai festeggiamenti patronali. Sagre gastronomiche e giochi di strada fanno da contorno ai due momenti più attesi: ‘u sciccareddu e ‘u camiddu. Il primo intende celebrare il compagno più fedele del contadino casalvetino e proporre un caratteristico carosello (da decenni emulato in paesi vicini come Limina, Rina di Savoca e Gallodoro) di un asinello in legno profilato di fiaccole che si accendono in successione. Un uomo vestito di rosso e appositamente protetto dai lanci incendiari corre con lo scafo addosso seminando lo scompiglio tra la folla divertita. Ma più che inneggiare all’asino, il rituale profano irride forse ad antichi signori quali furono gli sceicchi arabi.

'U cammiddu

In questa chiave, lo stesso tono di sberleffo si ritrova nella rappresentazione del camiddu che precede per le stesse vie del paese la solenne processione del patrono, una canzonatura all’indirizzo della prospiciente Savoca il cui bivertice orografico appare proprio in forma di doppia gobba di cammello. Due uomini nascosti fino ai piedi sostengono un imballo rivestito di rosso e culminante in un collo di cammello la cui testa è azionata da un filo che muove anche la bocca. Un cammelliere, munito di un bastone, guida ‘u camiddu assestandogli, al suono di un rutilante tamburo, colpi che sono di punizione e castigo, essendo il cammello allegoria di Savoca e il cammelliere simbolo di Casalvecchio, il paese diventato autonomo e passato da sottomesso a soprastante.
Ma il cammello è anche uno degli attributi di Sant’Onofrio, anacoreta del deserto, per cui potrebbe sottendere un significato meno profano e più aderente al sentimento devozionale, nulla o poco la metafora riguardando Savoca. L’effetto che il curioso sembiante sortisce al suo apparire nelle viuzze è comunque di fare scappare i bambini, così come non diversamente ‘u sciccareddu spariglia la gente in un clima che, contrariamente al senso ascetico di raccoglimento che il patrono ispira, è di tripudio e di euforia.

'A cerca della Settimana santa

Tutto il contrario dei riti della Settimana Santa che costituiscono un appuntamento devozionale più sentito del Natale e di intensità pari alla festa del patrono. Ricche e suggestive le iniziative in calendario. Spiccano, richiamando ogni anno un gran numero di forestieri, ‘a cerca e ‘i varetti del Venerdì Santo. La prima è un originale e antico canovaccio, cantato in un misto di siciliano, italiano e latino, che la notte del giovedì simboleggia la ricerca per le vie del paese di Dio da parte di personaggi avvolti dentro lunghe tuniche bianche in atteggiamento penitenziale chiamati babbaluci perché come le lumache nascondono la testa. Portano una croce e, impetrando a gran voce il perdono di Cristo tradito e destinato alla croce, rumoreggiano con le catene e le troccole, speciali congegni lo sbattere delle cui palette di legno produce un suono sinistro, quasi medievale e di significato espiatorio.
Le varette la sera di venerdì formano una processione composta dai più importanti gruppi statuari delle chiese casalvetine e sfilano illuminate in un’aria mesta, curiale, tra ali di fedeli che tengono lampade votive accese e colorano la notte di luminescenze ed abbagli così gravidi di spiritualità da fare di ogni scorcio del paese una manifestazione del divino o il barlume di una città sacra.
Sagre e riti religiosi, rappresentazioni profane e liturgie sacre sono sempre musicati dalla banda comunale, fondata all’indomani della partenza da Casalvecchio di un centinaio di volontari garibaldini salutati da una fanfara e chiamati “i montanari di Casalvecchio”. Da allora la banda “Città di Casalvecchio Siculo” ha scandito ogni momento pubblico della vita paesana: accompagnando anche i pellegrini che a piedi, in viaggi di due o tre giorni, si recavano al santuario della Madonna di Tindari o alle più vicine Madonne dell’Aiuto e del Carmelo.
Tanto fervore religioso non si è disperso, ma solo ridotto per via del calo demografico. Oggi i pellegrinaggi sono iniziativa di altri Comuni vicini e i casalvetini vi si aggregano, seppure non nel numero di un tempo. Tuttavia la banda musicale è rimasta a fare, puntuale e ufficiale, da colonna sonora alla vita del paese. Il cui simbolo principale è la chiesa madre.
Due sono gli ingressi principali, uno rivolto ad oriente e l’altro verso il mare, nelle direzioni che uniscono la scaturigine religiosa e l’aspirazione sociale. Al sobrio aspetto esterno in barocco siciliano fa da contrappunto la ricchezza dell’interno a una sola navata, trapunta di dipinti, altari, stucchi e affreschi di vertiginosa bellezza, in gran parte opera di un genio casalvetino di adozione, Tore Calabrò, che vi ha lavorato a metà del secolo scorso. Ma ricorrono anche particolari che mascherano motivi curiosamente irrisolti se non anche esoterici.
Il tetto a cassettoni di pregevole fattura è intarsiato di cariatidi delle quali due, una di fronte all’altra, raffigurano una donna e un uomo con i piedi di caprone, implicazione decisamente pagana ricordando il dio Pan, protettore dei pastori e dei campi, qui trasfigurato in un improbabile simbolo cristiano. Una terza cariatide più discosta incombe dall’alto in figura di donna con la bocca spalancata nell’atteggiamento di chi urla. O di chi è indemoniato.
Un altro elemento di difficile simbologia è il cerchio che si trova disegnato a terra al fondo della navata. Si tratta di una composizione dell’antico pavimento di pietra di Taormina che richiama il nodo di Salomone ma che sarebbe opera di maestri arabi, a conferma che questo tempio può essere stato in età saracena una moschea o in seguito un luogo di culto ebraico. Si è scoperto che la sua circonferenza è identica a quella della campana grande del campanile, coincidenza questa che rimane senza interpretazione.

Il dipinto del Crocifisso alla Matrice

Una sorpresa è il paesaggio in un angolo della tela del più realistico Crocifisso che sia immaginabile. Si scorge una torre e c’è chi non esclude che possa trattarsi dell’alto campanile di San Teodoro, improvvisamente crollato e perduto in un’epoca imprecisabile: dimostrerebbe che l’opera è di fattura squisitamente locale e quindi frutto di un’arte che aveva raggiunto punte estetiche ammirevoli.
Ne è testimonianza l’attiguo museo parrocchiale allestito sotto la canonica e sopra le tremende carceri borboniche dove i detenuti, in un paese mite come Casalvecchio, mosso solo da ideali risorgimentali e unitari, non potevano che essere prigionieri politici. Erano tenuti rinchiusi in celle anguste, fredde, umide e tali da costringere a stare solo seduti, fatto che impediva ogni accenno di ribellione e favoriva una facile morte.
Il museo presenta un repertorio che vanta come pezzi unici la grande vara d’argento di Sant’Onofrio, una pianeta ricamatissima e di inestimabile valore, un dipinto di San Nicolò con le mani colorate inopinatamente di rosso, che tuttavia può essere di guanti cardinalizi, un’Ascensione di fattura caravaggesca nella quale pare abbia messo mano, nelle due figure in basso, lo stesso Merisi mentre era diretto a Messina, nonché svariati arredi ecclesiastici. Lo stesso museo ospita strumenti della civiltà contadina e reperti della vita civile a formare con la sfera celeste un connubio tra terra e cielo, natura e cultura, che è forse l’anima di Casalvecchio.

La tela della Sacra famiglia

Ma la maggiore sorpresa della matrice è il dipinto della Sacra famiglia sull’altare di San Giuseppe, opera secentesca di scuola casalvetina. Si vede Maria che, intenta a leggere un libro, rivolge uno sguardo di sufficienza al Bambino tenuto in braccio da un Giuseppe assente e dimesso. La Madonna è posta a un livello superiore e preponderante: condizione indebita per una donna se si pensa al periodo al quale la tela risale, ma epifanica quanto allo stato di importanza che la donna casalvetina avrebbe meritato a partire dal secolo successivo con la coltivazione del baco da seta.
Casalvecchio è stato infatti il paese delle farfalle. A metà di ogni primavera, per quasi tre secoli, il cielo si colorava di screziature variopinte che volteggiavano minuscole insieme con le rondini sotto i balconi e - nell’azzurro turchese che confondeva all’orizzonte cielo e mare - prendeva le tinte della buona fortuna, quando ogni sole che tramontava dietro Roccafiorita annunciava un’alba di belle speranze e una notte di lucciole e cicale. Sembrava che il mondo delle filande e delle falene, grande quanto la profondità del panorama circostante, non dovesse finire mai più, con la sua gente operosa e felice. E la sua natura prospera e generosa.
Ma non è stato così. Le farfalle sono sparite insieme con le cicale e le lucciole, la cui scomparsa da tutte le campagne italiane ha lasciato sgomento Pier Paolo Pasolini. Erano gli anni Cinquanta del secolo scorso e la storia millenaria di Casalvecchio Siculo, che aveva le lucciole, le cicale e soprattutto le farfalle, si preparava a cambiare aspetto ancora una volta: come facevano i bachi da seta, che passavano di muta in muta e, rinchiudendosi nei bozzoli, promettevano di tornare.
Ma nel volgere di un breve tempo ormai lontano le larve sono sparite da Casalvecchio, colpa della seta sintetica e dell’alto costo della manodopera conseguenza delle guerre mondiali. La loro mancanza ha immiserito i gelsi che non rinverdiscono più. E con le foglie di gelso anche le farfalle si sono eclissate lasciando un ricordo “straziante”, come Pasolini definiva la scomparsa delle lucciole.
Ma in un’enciclopedia del 1840 Casalvecchio, borgo del distretto di Castroreale, tra l’Agrò e la Savoca, era segnalato per l’esportazione di olio e appunto di seta. Il museo parrocchiale custodisce oggi reperti che sono cimeli di una cultura che ha fatto epoca. Casalvecchio riforniva di seta industrie del Nord come la Foppapedretti e lavorava la seta con una sapienza che ne faceva una fiera eccezione tra Messina e Catania.
Senza più la seta, anche la produzione dell’olio è però venuta meno: come se l’intero destino del paese fosse dipeso da quel verme pigro e multiforme che in primavera portava per tutta l’estate lo sconquasso in ogni casa le cui finestre aperte propagavano voci, suoni e odori, facendo sentire tutti più vicini e accomunati: abitanti, bachi, gelsi e farfalle. Come in una grande favola.
A metà dell’Ottocento il paese vantava una popolazione di 3633 abitanti, che sarebbero saliti quasi a cinquemila negli anni Trenta, diventando il più popoloso della riviera. Casalvecchio era perciò un paese ricco, di famiglie in affari, di case munifiche e quindi in grado di privarsi di preziosa manodopera.

Il monumento ai Caduti

Cosicché il suo tributo all’unità d’Italia fu versato da cento volontari garibaldini e quello alla patria, nella prima e nella seconda guerra mondiale, dal sangue di oltre cento giovani soldati i cui nomi oggi campeggiano nella lapide di una piazza intitolata ai Caduti e coronata da un monumento che celebra l’elevazione morale dell’uomo e la perenzione della sua dignità.
Temperamenti arditi dunque i casalvetini. Ma ancor di più forse le casalvetine. Qui non è mai esistita la figura della casalinga. Qui le donne sono sempre state lavoratrici del tutto equiparate agli uomini, esperte tessitrici e abili contadine, oltre che sveglie contabili e pratiche negoziatrici. E riunendo a questo modo industria e agricoltura - i due grandi comparti alternativi nel pieno dell’età industriale - hanno elevato il baco ad artefice dell’emancipazione del paese e a suo segnatempo.
Senza il baco che ha portato denaro sonante nelle case, la tradizionale devozione religiosa, così sentita quanto la storica vocazione politica, non si sarebbe infatti profusa nel prezioso repertorio sacro che il museo conserva come prova di un fasto che innanzitutto è sociale e civile. Il baco ha reso ricco il paese e il paese ha sempre ringraziato il cielo. In uno stemma borbonico il numero delle monete scolpite su un lato indica l’appartenenza a una terra di notevoli risorse.
La crescita demografica era cominciata un secolo prima proprio con la seta. Nel 1713, secondo il Lexicon topographicum di Vito Amico, gli abitanti erano stati 1882, distribuiti in 500 case. Oggi 500 sono invece tutti gli abitanti, tolti i 400 compaesani disseminati nelle frazioni, 300 dei quali solo a Rimiti, la borgata più popolosa, quando una volta erano Misitano e Mitta, in un gioco di pieno e vuoto che è anch’esso un inganno della storia.
Rimiti prende il nome dagli eremiti che hanno santificato questa terra, a riprova che essa fu dimora e teatro di spiriti solitari che hanno però lasciato tracce soprattutto nella coscienza comune. E’ forse questo lo spirito che assicura a Casalvecchio l’immortalità.