domenica 6 agosto 2023

Un tramezzino come trama per Cassar Scalia

 Articolo già uscito su Reset

A chi piace Camilleri non può non piacere anche la siciliana Cristina Cassar Scalia che lo ha ricalcato doviziosamente come in una decalcomania: facendone una brutta copia, è vero, ma ottenendo il vantaggio dell’automobilista che si accoda a un’ambulanza. Tant’è che i suoi romanzi vendono a man bassa e hanno un pubblico dichiaratamente camilleriano, anzi è proprio lo stesso: quello rimasto orfano e in cerca di eredi, che ama il pastiche linguistico, la battuta di spirito magari volgare (più efficace in una donna), la trama intricata ma facile da seguire, i personaggi macchiettistici e fortemente caratterizzati, i bozzetti di ambiente, i quadri dialogici da avanspettacolo.
Cassar Scalia, oftalmologa che non si è servita delle sue conoscenze specialistiche per inventare un’eroina seriale che fosse un medico (come ha fatto Alessia Gazzola, sua confrère e conterranea, con Costanza Macallè), preferendo scimmiottare e saccheggiare il fortunato Montalbano mutuando dal suo mondo anche i personaggi di contorno, ha dato vita nel 2018 alla sua problematica vicequestora Vanina Guarrasi (cognome trapanese e non palermitano quale è lei) con Sabbia nera, romanzo farcito di termini in dialetto siciliano riportati rigorosamente in corsivo, come fossero barbarismi, fatto di scarsa concessione all’artificio della regressione e dunque al parlato mimetico, di una lingua sorvegliata e uno stile senza eccessive accensioni ironiche e punte espressionistiche, proprio com’era stato con i precedenti titoli Sperling & Kupfer La seconda estate e Le stanze dello scirocco.
Come nel secondo titolo della serie poliziesca, La logica della lampara del 2019, la lezione di Camilleri è presente quanto alla formazione della squadra della sezione Reati contro la persona che Guarrasi dirige e alla costruzione della sua vita privata, dove sono presenti un’Angelina provetta cuoca che si chiama Bettina, un ristoratore di nome Nino che ricorda fin troppo il più noto Enzo, l’avversione verso il Pm Vassalli copiato su Tommaseo, i siparietti con il vice della Scientifica Manenti spiccicato Pasquano, la debolezza tutta montalbaniana per la buona tavola.
Ma la svolta si ha quando Cassar Scalia scopre che può rifare Camilleri più che imitarlo, per modo che con La salita dei saponari del 2020, un anno dopo la morte dell’autore agrigentino, la sostituzione sulla scena assume il senso di nu avvicendamento che sa di usurpazione: la lingua diventa fortemente dialettale, così come i mezzi di espressione che si servono di termini, detti, circonlocuzioni e modi di dire siciliani integrati nel testo come elemento narrativo portante, alla Camilleri, senza tuttavia sostituire il dialetto borghese alla lingua madre; lo stile si tinge del colore della sotie girata dal lato della facile presa sul pubblico mass-cult; i personaggi si precisano in maschere immodificabili e, come nei fumetti, ma diversamente che in Montalbano, che invecchia di episodio in episodio, le condizioni individuali di ciascuno rimangono inalterate, al punto che non c’è romanzo, compreso l’ultimo appena uscito, La banda dei carusi (Einaudi come tutti gli altri del ciclo) dove gli anni trascorsi dal mancato attentato al sostituto palermitano Malfitano, l’ex fidanzato di Vanina (che ha sempre trentanove anni), avvenuto 14 agosto 2011, non siano sempre quattro.
Ci vuole certamente una bella faccia tosta per rubare davanti a tutti e rendersi il lavoro facile facile dovendo provvedere alla sola fabula perché quanto all’intreccio si tratta solo di riempire moduli predisposti da un altro, nella significativa differenza tra Camilleri e lei della focalizzazione dell’azione che nel primo è sempre puntata su Montalbano per cui ogni scena è vista e vissuta da lui, dal quale il lettore non si allontana mai, mentre in lei la scelta è stata quella della via in discesa del narratore onnisciente, sicché abbiamo azioni dove Vanina Guarrasi è assente: il modo migliore insomma per dare alla trama uno sviluppo molto più elementare e con poca fatica.
Ma uguale è lo strumento che permette alla vicequestora di giungere alla soluzione del caso. Nell’ultimo titolo, l’ottavo del ciclo, alla Guarrasi si accende di colpo una lampadina nella testa, esattamente com’è per il flash che scatta a Montalbano, lampadina che le fa esclamare: “Minchia, che scimunita che sono”. Un po’ in ritardo per la verità perché il lettore attento ci è arrivato da nu pezzo. Sembra di sentire in Guarrasi la voce di Montalbano che dice “Bih, che camurria”, “Chi fa, babbìa?”, mentre la vediamo parlare come lui di “fame lupigna”, alzare la voce ai sottoposti, commuoversi per niente, fare predilezioni in ufficio arrivando a concedere che venga chiamata “capo” solo da quanti le sono graditi, perché tutti gli altri devono chiamarla “dottoressa”: un caso di ipertrofia dell’io che meriterebbe certamente una buona visita psichiatrica, sindrome alla quale il pur malmostoso Montalbano non è rimasto mai esposto.
Uguale è anche la stucchevole propensione in entrambi gli autori di ripresentare a ogni episodio i personaggi, i loro caratteri e i loro ruoli, propensione che in Cassar Scalia diventa maniacale quando ripete fino all’ossessione che Vanina ha perso il padre ammazzato dalla mafia, che ha salvato il suo fidanzato da nu attentato e dopo ha cambiato città e incarico, fino alla rutilante distinzione tra gli arancini catanesi e le arancine palermitane proposta a ogni occasione. Il ricalco che Cassar Scalia compie della sua Guarrasi su Montalbano è talmente sfrontato che in La banda dei carusi la vicequestora, trovandosi a Palermo, si concede una passeggiata lungo il molo del porto turistico solo per riflettere, proprio come usa il commissario di Camilleri che si ritira a pensare al molo di Vigata. A parte vanno considerati errori blu come nella frase “L’Etna ancora innevata, stranamente tranquilla”, non visti né dall’agenzia Grandi&Associati né dagli editor Einaudi, ed espressioni dialettali sbagliate come “a tignitè” invece del più catanese “a tinchité”.
Cassar Scalia copia Camilleri anche nel disordine relativo alla successione degli episodi, che non seguono un ordine cronologico legato al tempo della narrazione perché il tempo della scrittura non ne tiene conto. Senonché nell’autrice originaria di Noto e trapiantata a Catania il conflitto è molto più evidente. La banda dei carusi ne è una prova. Uscito dopo Il re dei gelati, riesuma la figura del commissario in pensione Biagio Patanè che ha esordito in L’uomo del porto, tornando nel successivo Il talento del cappellano e riapparendo ancora l’anno scorso in La carrozza della santa in veste sempre di collaboratore di grande esperienza della vicequestora ma anche di scarso genio se è succube di una moglie ottantenne come lui che è gelosissima proprio della Guarrasi: una cavatina farsesca e indigesta degna del peggiore Martoglio.
Patanè è un personaggio che manca nei primi tre titoli, Sabbia nera, La logica della lampara e La salita dei saponari, perché appare la prima volta in L’uomo del porto dove figurano ragazzi che, salvati dalla droga e dalla delinquenza da un parroco sociale e scomodo, si dimostrano decisivi nelle indagini sull’omicidio del professore La Barbera. Il romanzo è ambientato nel 2016, giacché la Guarrasi osserva che il “santo cristiano” non si era ancora adeguato nel 2016 alla tecnologia, mentre Il talento del cappellano è calato nel 2017, circostanza che si deduce da quanto dice la vicequestora, secondo cui la doppia Sim negli Iphone sarebbe stata introdotta solo nel 2018. Non ci sono elementi per dire in quale anno si svolge la trama de La carrozza della santa, ma sappiamo per certo che i fatti narrati in La banda dei carusi sono collocati agli inizi di aprile del 2017, quando è davvero improbabile che nei tre mesi precedenti, se il caso è dello stesso anno, si siano svolti quelli de La carrozza della santa.
I carusi del titolo sono gli stessi de L’uomo del porto, dove compaiono anche la compagna di La Barbera, Vera Fisichella, Thomas Ruscica, che sarà ucciso in La banda dei carusi, la sua ragazza Emanuela Greco e il padre avvocato. Il romanzo è da ritenere quindi la prosecuzione de L’uomo del porto, un secondo tomo, se non lo fosse però anche de Il talento del cappellano, dal momento che lo spasimante di Vanina, Manfredi Monterreale, capisce di non avere molte speranze contro Paolo Malfitano (di cui lei è sempre innamorata, ma per qualche motivo legato a turbe psicologiche non vuole tornarci) dopo che il Pm si presenta in casa di Vanina, lui presente, alla fine de Il talento del cappellano. Epperò riesce a portare Vanina in moto al porto a consumare granite e brioche sul molo come una notte hanno fatto in L’uomo del porto mangiando panini.
Il re del gelato, anch’esso di quest’anno, è stato allora un’interruzione e probabilmente risale agli anni precedenti l’arrivo di Patanè, ma Cassar Scalia ha scelto di non dare spiegazioni sui tempi della narrazione e della scrittura, sperando che il lettore non faccia caso ai dettagli e lasciando che si interroghi da un lato sul perché La banda dei carusi non sia uscito dopo L’uomo del porto o magari dopo Il talento del cappellano e da un altro sulle ragioni per cui sia quest’ultimo titolo che il precedente si chiudano con l’arrivo improvviso di Malfitano in casa di Vanina, presente Manfredi. Forse all’autrice è piaciuto così tanto il finale da soap opera da proporlo identico due volte e da rimandare così La banda dei carusi a dopo La carrozza della santa e Il re del gelato. Per fare dimenticare.
La banda dei carusi involge un sostanziale cliché per il quale il centro storico di Catania attorno a Via San Cristoforo sia il regno della mafia e della delinquenza, quale in precedenti titoli l’autrice ha già stabilito. Un ragazzo della zona malfamata, spacciatore e consumare di droga sostenuto dalla famiglia che lo vuole delinquente come tutti, si converte al bene dopo essere stato recuperato dalla comunità di don Rosario, sicché cerca di salvare quanti più coetanei dalla perdizione di cui è fomite il suo quartiere. Scontato allora che venga ucciso, ma chi è stato? La mafia che tutela i propri torbidi interessi, dallo spaccio alla prostituzione, o qualche parente di un ragazzo redento che invece di ringraziarlo per avergli salvato il figlio lo ammazza, oppure è stata, perché no, la sua ragazza, gelosa più della moglie di Patanè e alla quale Thomas non dice niente del suo impegno civile né lei lo capisce?
Da un’improbabilità all’altra, il romanzo si avvia mestamente, senza colpi di scena, all’accensione della “lampadina” che illumina la lenta testa della vicequestora e porta a una conclusione, già in partenza annunciata nell’ovvia considerazione che solo chi non vuole un parente o una fidanzata riportati sulla retta via può concepire di uccidere il novello Don Bosco. Per Cassar Scalia come pure per Camilleri la lampadina funziona come un deus ex machina che scende dall’Olimpo per sbrogliare vicende umane. Sicuramente è un deficit, che però in Camilleri è camuffato entro strumenti quali lo “sgorbio” e il “saltafosso” che rispondono a logiche sherlockholmesiane e sono il portato di un crescendo di intuizioni, mentre in Cassar Scalia l’illuminazione improvvisa arriva al pari del ritrovamento degli occhiali sul naso, per essere appunto “scimunita”. Insomma più che una trama abbiamo avuto stavolta un tramezzino con dentro un po’ di tutto, tranne il giallo.