giovedì 11 ottobre 2007

La civiltà del borgo rurale in Sicilia


«All’orizzonte del lavoratore dei campi si staglia sempre un paese» diceva dei contadini umbri Henri Desplanques nel ‘69. Ed essendo l’orizzonte più profondo, si potrebbe dirlo ben meglio di quelli siciliani. Ma non di tutti. La civiltà del feudo ha tagliato la Sicilia in due e il latifondo si è fermato di fronte ai giardini terrazzati, ai territori degli enfiteuti, ai piccoli appezzamenti delle province orientali.
Le lunghe distanze tra paese e campagna hanno fatto per secoli del solitario contadino dell’ovest il pendolare dal passo tardo e stanco che Gianbecchina insempra in “Alle cinque della sera”. 

Scriveva Carlo Emilio Gadda che «il latifondo si estende nella solitudine» e che «il contadino siciliano deve percorrere lunghissima strada a dorso di mulo prima di aver raggiunto il luogo lontano della sua messe». In questa gaddiana «economia affaticata» dove a ogni sole nuovo deve trovarsi «ai confini del vivere», il contadino affronta la lunga parabola dell’andirivieni quotidiano riflettendo sulla sua condizione di uomo diviso tra le due dimensioni stabilite dal geografo Franco Farinelli: il «luogo», cioè la superficie che non può essere sostituita con nessun’altra senza che tutto cambi, e lo «spazio», la superficie che invece può essere sostituita con un’altra senza che nulla sia alterato. Il luogo è la casa, il paese; lo spazio è la campagna, il lavoro. Ma la fatica, il sudore, quello che Gadda chiama «il penoso lavoro», col tempo determinano nel contadino un rovesciamento di valori sicché la campagna diventa luogo e il paese si traduce in spazio: e ciò avviene quando il contadino si stanca di tornare ogni sera e sceglie di rimanere la notte in campagna. Così facendo diventerà colono, prenderà possesso della sua terra e vi trasferirà effetti ed affetti. A quel punto il paese diverrà l’occasionale meta dello svago, il punto di approvvigionamento, lo spazio dove andare per la gestione amministrativa del proprio fondo, che sia a mezzadria o a colonia parziale. Il luogo sarà quello dove costruirà la sua masseria e alleverà i figli realizzando il sogno di un mondo tutto suo, fondendo casa e lavoro. E il paese finirà per stagliarsi in un orizzonte ancora più distante e divenuto più vago. 

Ma fin quando resta bracciante, la vita del contadino dell’ovest è un calvario di disperati sacrifici, scanditi dal ritorno quotidiano a casa: un modello di vita che è prevalentemente quello dei contadini dell’est e che pure caratterizzerà diffuse abitudini anche nella Sicilia del latifondo, dove in aree come quella di Mistretta il credo comune è di stare in campagna «da stidda a stidda», cioè dall’alba al tramonto.

Ma anche nelle terre in enfiteusi la vocazione a vivere in campagna e farsi agricoltori, risiedendo in case coloniche viste come fattorie, diventa un crescente ideale di vita. In principio è però il pagliaro il riparo notturno del bracciante pendolare, che spesso lo divide con pastori nomadi come Rosario e il padre de Le città del mondo di Vittorini, sempre alla ricerca di recinti estivi per le greggi e di pagliari invernali lasciati dai contadini, accomunati dallo stesso destino di senzaterra. Il pagliaro è il primo incerto tentativo di trasformazione della campagna da spazio in luogo, l’incipitario atto di distacco dal paese, l’inaugurale pietra di quella che sarà per molti ma non per tutti la casa colonica. Verrà il giorno in cui, nell’era della motorizzazione e delle carrozzabili, la campagna diventerà per ogni contadino, quale che sarà il suo contratto agrario o il titolo di proprietà, una meta da raggiungere come fosse un ufficio e tutti troveranno comodo tornare all’imbrunire a vivere in paese. Le case coloniche diventeranno dimore di villeggiatura o aziende agricole oppure saranno abbandonate. Nascerà un’archeologia delle masserie votata a costituirsi in patrimonio museale, come testimonianza di una civiltà estinta. 

Ma negli anni del primo Novecento e ben oltre la riforma agraria e la costituzione dell’Esa, negli anni insomma in cui Desplanques in Umbria può scorgere un orizzonte alla spalle del contadino, la storia siciliana integra un’epopea di uomini in lotta per il possesso della terra e per il loro insediamento stabile. Il primo contadino che decise perciò di dormire in campagna e costruirsi un pagliaro non sapeva che avrebbe cambiato la storia della civiltà contadina siciliana. 
Nel feudo questo processo di ruralizzazione tiene a battesimo la cultura del baglio, che adombra la piazza del paese facendosi un suo doppio. Il baglio è il ritrovo serale di Neli Schillaci, il Liolà di Pirandello, e della sua allegra compagnia sollevata dalla fatica dei campi. Essendo compatibile solo con il latifondo, è perciò concepibile solo a grande distanza dal paese. Il baglio raduna proprietari terrieri e contadini in un’unica organizzazione dedita alla colonizzazione e realizzata come un fortino autonomo. E’ un avamposto o un ridotto del paese di cui mutua le caratteristiche di separazione sociale e di ordinamento gerarchico. Ma può adattarsi solo a un’impresa agricola nella quale vi siano un padrone e dei contadini al suo soldo. Ne restano dunque esclusi le migliaia di coloni che lavorano in proprio terre anch’esse lontane dal paese e che vogliono anche andarci a vivere. 
Vivere insieme nel baglio, o con la sola famiglia nelle case coloniche disperse nel latifondo a distanze incolmabili, comporta comunque pesanti rinunce. Non è come stare in paese, che rimane perciò una presenza inalienabile nella vita contadina. Manca innanzitutto una chiesa. Mancano poi le scuole, un ufficio postale, un emporio, una stazione di carabinieri indispensabile per la sicurezza. L’assenza di servizi tiene l’economia rurale in condizioni ancora ottocentesche quando il fascismo concepisce l’ambizioso progetto di colonizzare il latifondo e renderlo produttivo. L’idea non è più di bonificare il feudo ma di trasformarlo. Questa prospettiva richiede anche che il feudo sia popolato da coloni messi nella possibilità di sentire la terra come casa propria. Se dunque finora l’opera di concentramento di forze contadine è stata affidata all’iniziativa di un proprietario terriero e quindi del privato, occorre adesso che sia l’intervento pubblico a creare le condizioni necessarie. 
Lo stato fascista fonda quindi nel 1940 l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano e dà il via a un massiccio piano di insediamento rurale che non si limita alla realizzazione di case coloniche attrezzate ma si spinge soprattutto a immaginare cittadelle autosufficienti con la mission di portare in campagna il pezzo di paese che manca: e cioè i servizi. 
Nasce perciò il «borgo rurale», un’originale architettura disegnata secondo il più rigoroso gusto fascista che non si propone di ripetere il modello del baglio, riunendo insieme padroni e contadini, ma che si costituisce come centro servizi popolato da artigiani, carpentieri, impiegati pubblici, commercianti, insegnanti e parroci. Nel cuore del feudo arrivano dunque le scuole, le poste, le rivendite, i carabinieri, le chiese, cosicché i contadini disseminati nelle case coloniche trovano nel borgo il surrogato del paese, facilmente raggiungibile perché più vicino e fortemente invitante per la qualità di vita sociale che offre.
Intitolati a caduti di guerra o a vittime fasciste, sorgono i primi otto borghi rurali, uno per ciascuna provincia. Dopo la guerra, caduto il fascismo, lo stato repubblicano eredita il programma e rilancia il piano di insediamento di borghi rurali. Nel ’50 l’Eras, nato con la riforma agraria, ne incrementa il numero. Essendo stati pensati per la trasformazione del latifondo, è la Sicilia dell’Ovest a contarne molti di più, ma non ne mancano nella parte orientale. Il più grande di tutta la Sicilia, con i suoi 4210 metri quadri di superficie, è per esempio a Mineo e si chiama «Pietro Lupo», ma ne sorgono a Francavilla di Sicilia, Lentini, Noto, Modica, Maniace, Enna e ancora altrove. Nel ’65, con l’istituzione dell’Esa, la Regione siciliana comincia a ripensare l’idea di borgo rurale. Le condizioni sono d’altronde prossime a un radicale mutamento. Giacché le distanze si vanno sempre più accorciando, l’esigenza di tenere in campagna uffici e servizi non è più sentita mentre le nuove infrastrutture – strade, condotte idriche, impianti elettrici, bacini, dighe… – migliorano di gran lunga la vita dei contadini, dopotutto ormai motorizzati. 
Il paese torna dunque a baluginare in un orizzonte molto più vicino e i borghi rurali, insieme con le tipiche case coloniche volute dal fascismo, ripiegano verso un mesto declino di abbandono. L’Esa li cede in parte ai Comuni con l’obbligo che siano destinati a usi di utilità pubblica ma la gran parte dei 68 nuclei oggi censiti sono in rovina. Che farne?
Proprio l’Esa sta lavorando a un progetto di riqualificazione immaginando per esempio una ideale «Via dei borghi» che per 150 chilometri leghi in un suggestivo itinerario i villaggi dell’entroterra. L’intento è di convertire i borghi a uno scopo turistico che assimili lo spirito dei musei all’aperto e persegua quindi interessi di tipo culturale. Ma è nelle intenzioni dell’Esa anche il riuso delle strutture per attività di studio e associative. I borghi rurali fascisti potrebbero così rivivere una nuova stagione, restituiti se non più ai contadini, quantomeno alla memoria di un tempo che ha fatto epoca.