venerdì 30 novembre 2007

Com'è piccolo l'Impero romano di Manfredi


Il cittadino romano doveva ritenere che l’impero di cui era parte fosse la parte più grande del mondo se non il mondo intero. Un inganno o una presunzione.
Conosceva il mare ma non l’oceano e ignorava l’esistenza di una enorme terra oltre l’impero persiano. In L’impero dei draghi (Mondadori, pp. 340, euro 18,60), Valerio M. Manfredi fa scoprire ai Romani (o quantomeno a una sua minuscola ma significativa rappresentanza) la Cina perché possano ridimensionare le loro mire di primato e constatare che altri imperi versano nelle loro stesse condizioni, perché il mondo alla fine è dappertutto uguale. Il saggio Daruma, persiano, dice al protagonista, il comandante Metello: “Capirai finalmente cos’è il mondo e quanto piccolo è lo spazio in cui avete costruito l’impero”.
Metello è più Ulisse o Marco Polo? E’ l’uomo che vuole tornare a casa o l’uomo che vuole spingersi sempre avanti? E’ l’astuto inventore di trappole e inganni o il dotto uomo di ceto elevato che esplora l’gnoto per conoscere mondi e non per conquistarli?
Penso che Marco Metello sia diverso dall’uno e dall’altro. E’ prima di tutto un soldato: un uomo che ha fortissimo il senso dello Stato, che ha una lealtà totale nei confronti dell’imperatore che ne incarna l’essenza, e un senso di profonda appartenenza alla civiltà di cui si considera depositario e difensore. Della romanità mantiene le caratteristiche più elevate: il rispetto della legge e della parola data, il senso della disciplina e del valore, la capacità di sopportazione, la responsabilità nei confronti degli uomini che comanda, nei confronti del suo Paese e di suo figlio che è stato costretto ad abbandonare. Si mette in viaggio perché obbligato dal destino ma il suo pensiero fisso è quello di assolvere al compito che gli è stato affidato dall’imperatore morente. Ciò non toglie che egli sia curioso e interessato a comprendere un mondo nuovo, diverso e così distante dal suo, a capirne l’anima e l’essenza più profonda, a contemplarne i paesaggi e anche ad accettarne il modo di sentire. 
Dan Qing e Metello, il principe cinese e il generale romano, passano da uno stadio di incomunicabilità e incomprensione a un rapporto di profondo legame. C’è dunque la possibilità che Oriente e Occidente trovino un punto di incontro e di comunanza?
Certamente. La chiave di tutto è la conoscenza reciproca. E’ ciò che non si conosce che ispira diffidenza, e quindi paura e infine reazione violenta. I due protagonisti diventano grandi amici perché imparano a riconoscere ciò che di grande e di valido è nella civiltà dell’altro e anche a riconoscere il tasso di barbarie che si associa a qualunque civiltà. Il problema attuale non sta solo nella distanza, quasi annullata dalla rapidità dei mezzi di comunicazione, o nella diversità, da tempo accettata, ma nella competizione diretta, resa possibile dai moderni meccanismi commerciali. Molti pensano che non vi siano sul pianeta sufficienti materie prime e sufficienti fonti di energia per sostenere lo sviluppo di Cina e India: oltre due miliardi di persone. Tanto più che le regole di base per una corretta competizione mercantile qui sono difficilmente applicabili. 
Quale corso avrebbe preso la storia se davvero, come lei ipotizza, Cina e Impero Romano si fossero “parlati”, se gli opposti si fossero toccati?
Come sappiamo la storia non si può fare con i “se” e con i “ma”, eppure l’ipotesi di percorsi alternativi mantiene un fascino irresistibile. Nel 98 d.C. il maresciallo cinese Ban Chao giunse fino al Caspio e di là volle inviare una delegazione guidata da un tale Gan Ying per incontrare l’imperatore dei Romani. Come gli studiosi sanno l’ambasceria venne depistata dai Persiani che non volevano che un tale contatto avvenisse. Certo, se Gan Ying fosse giunto a Roma avrebbe incontrato Nerva, un principe saggio e austero che li avrebbe ascoltati per tramite di interpreti. I due più grandi imperi del pianeta si sarebbero parlati. Troppo lontani per competere avrebbero probabilmente intravisto l’utilità, se non addirittura la necessità di collaborare: ambedue in fondo erano minacciati dai nomadi della steppa, chiamati “barbari” sia dagli uni che dagli altri. Ambedue si erano protetti con imponenti cinture difensive: il vallo romano e la muraglia cinese , e avevano in parte stanziato quei nomadi all’interno per assimilarli e utilizzarli nella difesa di tratti del confine. Avrebbero forse anche intravisto la possibilità di commerciare senza intermediari che facevano lievitare a dismisura il prezzo delle merci. Forse davvero il mondo avrebbe conosciuto una evoluzione differente. 
Ha scritto questo romanzo tenendo presente l’attualità oggi della Cina in Occidente e il gran parlare che se ne fa?
No. Un romanzo non è un saggio di politica o di economia politica: è un’opera di immaginazione e il suo scopo è quello di comunicare emozioni. Una vita senza emozioni non è vita e tutti sappiamo che solo quello che ci ha emozionato resta indelebilmente impresso nella nostra memoria. Ciò che mi ha affascinato è stata l’ipotesi recentemente riemersa a più riprese della presenza di soldati romani nell’impero cinese degli Han. Questa ipotesi è stata avanzata già negli anni Quaranta da Homer Dubs, professore a Oxford, e rivalutata recentemente in seguito a campagne di scavi condotte da una missione australiana nel villaggio di Zhelazhai nella Cina occidentale. L’“Economist” gli ha dedicato in gennaio un ampio servizio e il sindaco della cittadina cinese è così entusiasta dell’ipotesi che ha fatto edificare una sorta di padiglione finto-classico e persino le statue di soldati romani accanto a dignitari cinesi. Addirittura il locale centro commerciale è stato chiamato “Roma”! Per ora gli elementi addotti a sostegno dell’ipotesi non sono sufficientemente solidi per renderla davvero accettabile, ma certo sono molto affascinanti. Così affascinanti da ispirare un romanzo. 
Il tema del viaggio nell’ignoto è stato anche il motivo conduttore di L’ultima legione, un romanzo che qui sembra tornare nelle forme della legione perduta e della sua leggenda, che però sembra avere - lei avverte alla fine - un fondamento storico. In entrambi i romanzi l’epoca storica è quella che precede la caduta dell’Impero. Lei è attratto dalla commissione delle culture, dal passaggio delle ere e dagli scontri-incontri di civiltà come in questo caso tra Oriente e Occidente.
In realtà, dopo gli eventi narrati all’inizio de L’Impero dei draghi, lo Stato romano ritrovò la propria unità e saldezza sotto Aureliano e sopravvisse ancora per due secoli. Ciò che lo rende diverso da L’ultima legione è , come ho detto prima, l’ipotesi dell’incontro fra i due più grandi imperi del pianeta e lo scambio fra i portatori di due civiltà remotissime che sapevano dell’esistenza l’una dell’altra ma che non erano mai riuscite a instaurare un dialogo diretto. Si sa anche di un romano chiamato nei documenti cinesi Qin Lun (“Leone il romano”) che sarebbe giunto in Cina nel terzo secolo d.C. e avrebbe redatto una completa descrizione dell’Impero romano per le autorità cinesi. Un’opera di valore inestimabile, che purtroppo è andata perduta. Ci avrebbe fatto capire come un romano cercava di descrivere il proprio mondo al sovrano di un paese lontano migliaia di miglia, un po’ come fa Metello con Dan Qing. 
Alla dao cinese, la forza della meditazione, Metello oppone la virtus romana, una diversa energia fondata sulla disciplina. Alla fine la partita tra le due forme di educazione interiore sembra finire con un pareggio. O no?
Difficile applicare le regole del calcio ad un romanzo che vuole descrivere l’incontro fra civiltà e filosofie diverse. Direi che alla fine il romano si rende conto che non potrà mai adattarsi a vivere in un ambiente così lontano dalla propria sensibilità e questo è un importante elemento di meditazione. Accettare altre filosofie e altre culture non significa necessariamente rinunciare alla propria, anzi. Non si può amare veramente ciò che non si conosce se non si ama profondamente ciò che si conosce.
Più che un romanzo storico, L’impero dei draghi sembra prendere via via il passo di un romanzo fantastico, con figure e scene inverosimili e surreali. Eppure, se si abita la sfera cinese, tutto diventa realistico, dalle Volpi volanti alle energie vitali.
L’impero dei draghi è un romanzo e basta. Le etichette non funzionano mai. Che cos’è in realtà un romanzo storico? E’ storico un romanzo sugli anni Sessanta? Direi di si, soprattutto per un ragazzo di oggi ma abitualmente i critici non lo considerano tale perché non è sufficientemente lontano nel tempo. In realtà ogni opera di letteratura non può prescindere dal tempo in cui è ambientata e quindi si dovrebbe dire che tutti i romanzi sono storici, inclusi quelli di fantascienza che non sono altro che la proiezione nel futuro di quanto è già accaduto nel passato. Un romanzo è soprattutto opera di immaginazione e se è costruito bene sarà così coinvolgente che il lettore sarà comunque coinvolto, come se vivesse una realtà parallela. In quest’opera ho voluto dare la sensazione di ciò che avrebbe potuto vivere un romano che fosse capitato in quell’epoca e in quel luogo: un senso di straniamento, una situazione inimmaginabile,come di chi è atterrato su un altro pianeta. 
Metello è l’uomo essenzialmente di cultura romana che porta però segni protorinascimentali. Lei lo definisce “un uomo disposto a comprendere”. Ma è questo uno stato psicologico proprio del vir romanus o ha qui forzato il dato storico?
Roma antica nasce multietnica (sabini, latini, etruschi) e costruisce la propria fortuna proprio sulla comprensione degli altri mondi e delle altre culture. Roma è piena di obelischi egiziani, di mitrei persiani, ha rombe a tumulo e tombe a fossa, incinerazioni e inumazioni. Ha professato prima una religione di tipo etrusco, poi di tipo greco, poi di tipo egiziano e poi di matrice siro-palestinese. Ha preso la sua spada dagli spagnoli, il suo scudo dai celti, la sua filosofia dai greci, la sua agricoltura dai cartaginesi e potrei proseguire. Il mio personaggio si comporta in modo coerente e verosimile proprio per le caratteristiche della sua formazione e della sua attitudine mentale.
Nel romanzo si intrecciano, soprattutto nella prima parte, due ribalte: quella del viaggio verso Oriente e quella dei sommovimenti interni all’Impero Romano. Con la fuga dalla prigione persiana dei soldati romani la seconda vicenda viene accantonata e torna, per un rapido riepilogo, solo alla fine. Perché non sappiamo più niente di Gallieno, Aureliano, del figlio di Metello e dell’Impero Romano?
In realtà Da Qing espone a Metello le condizioni dell’Impero romano. Gli rivela che è spezzato in tre tronconi e che non esiste più come stato unitario. Allo stesso modo, in precedenza uno degli uomini di Metello, nell’oasi del Khaboras aveva appreso da un mercante della secessione di Odenato e Zenobia e della successiva sconfitta di Shapur. E nel finale i soldati di guardia alle porte di Edessa raccontano a Metello della fine di Gallieno e della successione di Aureliano. Ho voluto dare la sensazione del coinvolgimento sempre più intenso e totalizzante di Metello nel mondo che va a scoprire e dello svanire del suo in lontananza. Ciò che rimane è il ricordo del figlio e l’amor di patria. Apparentemente sopiti, in realtà inestinguibili e così forti alla fine da indurlo al ritorno e a rinunciare a onori, ricchezze e ad un futuro sfolgorante. In questo Metello è un po’ come Odisseo. Seguire in parallelo l’intera storia romana dall’altra parte del mondo avrebbe inoltre costituito un appesantimento difficile da gestire e la realizzazione di un romanzo elefantiaco. Di Roma viene detto quello che è indispensabile dire ma non di più.